Inferno: canto XVI
Mentre i due pellegrini
continuano a camminare sull’argine del fiumicello, da una schiera di
sodomiti si staccano tre ombre e corrono verso di loro. Poiché aI violenti
contro natura non è concesso neppure un attimo di sosta, questi dannati si
dispongono in cerchio, in modo da continuare a camminare senza
allontanarsi da Dante e Virgilio.
Uno di loro, Jacopo Rusticucci, si
rivolge al Poeta, parlando di sé e dei suoi compagni, Guido Guerra e
Tegghiaio Aldobrandi. Furono cittadini illustri di Firenze e
contribuirono, in pace e in guerra alla prosperità della loro patria.
Dante esprime il proprio dolore per
averli incontrati fra i reprobi del settimo cerchio e il profondo rispetto
che nutre per la loro memoria; poi dichiara che in Firenze non albergano
più le virtù di un tempo: orgoglio e intemperanza hanno sostituito, nel
cuore dei suoi abitanti, cortesia e valore.
Dileguatisi i tre, Dante prosegue con il
maestro verso l’orlo del ripiano, dove le acque del Flegetonte precipitano
nel cerchio ottavo. Il Poeta consegna una corda che gli cinge i fianchi a
Virgilio, il quale la getta nel profondo abisso che si apre ai loro piedi.
Poco dopo ecco salire dalla buia voragine una figura simile, nel suoi
movimenti a quella del marinaio che torna a galla dopo aver disincagliato
l’ancora della nave.
Introduzione critica
Il canto non ha unità d’argomento. La
prima parte di esso versi (1-90) si presenta come una continuazione
dell’episodio di Brunetto Latini: tema dominante è qui la decadenza civile
e morale di Firenze a seguito dei rivolgimenti politici e dell’avvento al
potere di una classe sociale avida e rapace, non legata al rispetto della
tradizione, ma intenta solamente ad arricchirsi. Accanto a questo tema si
colloca, come nel canto precedente, quello della colpa privata, che
nessuna carità di patria, per quanto fervida e pura, può riscattare. Ma
nell’epìsodio dei tre magnanimi guelfi il motivo della condanna divina è
messo in maggior risalto, con un’attenzione impietosa che impedisce quella
fusione di toni, quel gioco di ombre e luci delicatissime che rendono così
patetica la figura di Brunetto. Dante non ha conosciuto di persona Guido
Guerra, Jacopo Rusticucci, Tegghiaio Aldobrandi. Egli ha davanti a sé dei
personaggi già idealizzati, già collocati dalla voce pubblica in un limbo
di spiriti eccelsi. L’affetto che prova per loro non può quindi essere
quello semplice e spontaneo che lo lega all’autore del Tesoro e che nasce
da una considerazione umana, prima che teologica, della figura di questo
peccatore. I tre Fiorentini del canto sedicesimo, nella presentazione che
ne fa uno di loro, appaiono già isolati su un piedistallo di gloria
indiscutibile, remoti da ogni affetto che non sia quello, esemplare e
nobilitato da una tradizione illustre, che definisce il buon cittadino:
l’amore di patria. E’ questo il sentimento che li rende poeticamente vivi,
ma anche, rispetto a figure più complesse come Farinata o Brunetto,
monocordi. La carità del natìo loco non ha in essi nulla di paludato, di
austero. Se la presentazione delle loro figure è epigrafica ed obbedisce
ad un canone quello che, fin dall’antichità classica, ha stabilito,
attraverso Plutarco, le qualità dell’uomo politico buono in opposizione
schematica alla figura del tiranno, le manifestazioni del loro
attaccamento a Firenze sono di una immediatezza non riscontrabile altrove
se non nella Commedia. La patria non è per essi un concetto, un ideale
fermo e solenne, ma un essere concreto e vivo, soggetto all’errore e
bisognoso di aiuto. C’è, nelle loro parole, una sollecitudine quasi
materna per le sorti di Firenze, la quale smentisce in pieno la sobria
rigidità delle loro biografie. Soltanto Dante è riuscito ad esprimere con
tanta semplicità di mezzi e al di fuori di ogni considerazione astratta o
moraleggiante la pietas che ci lega al luogo dove siamo nati e che, lungi
dal richiedere una spiegazione razionale, appare come il fondamento di
tutto il nostro modo di vedere, interpretare e razionalizzare le cose.
Il processo di idealizzazione dei
protagonisti della storia più recente di Firenze, iniziato con Farinata,
culmina nei tre personaggi di questo canto. Il principio della carità, che
in Farinata emergeva faticosamente dal buio della superbia e dei
risentimenti, è in essi, fin dal loro primo apparire, luminoso, operante,
purissimo. Ma la santità del loro sentire e operare è stata - nella misura
in cui si è circoscritta ad una realtà umana non integrata nel divino -
parziale, imperfetta ed incapace di salvarli. Ecco quindi che la loro
collocazione fra i numi tutelari della patria ha la sua controparte nel
grottesco del castigo infernale: ai sentimenti da loro espressi,
manifestazioni di un volere apparentemente ancora libero, si
contrappongono in modo stridente i movimenti che sono costretti a
compiere, le parole che impiegano per designare la loro condizione
attuale. La similitudine della rota sintetizza la medesima degradazione
dell’umano accennata, alla fine del canto precedente, nell’evocazione
della gara del drappo verde, di quest’ultima riproponendo il senso
complessivo e alcune forme: possiamo notare, ad esempio, come una residua
affermazione dell’umano, pur nell’ambito di una valutazione tendente a
destituire di ogni umanità colui che ha peccato, sia contenuta tanto
nell’immagine dei campion, quanto in quella del vincitore del drappo
(quelli che vince, non colui che perde). Anche il rilievo dato al
particolare fisico, veduto non in quanto espressione di un atteggiamento
morale o di uno stato d’animo, ma in sé, nella sua compatta, inspiegabile
gratuità, mira a mettere in luce, al di là dei loro meriti, lo stato di
perdizione in cui queste anime si trovano. Per il Malagoli in tutto
l’episodio "una crosta di sovrumano avvolge costantemente le note umane; e
queste servono solo di contrappunto alla pittura dello spettacolo
sovrannaturale". Questo giudizio è formulato in modo forse troppo
perentorio, ma coglie sostanzialmente quello che è il senso profondo di
questa prima parte del canto. Qui infatti l’accento è posto, assai più che
in altre pagine di argomento affine (Farinata, Brunetto), sul tema della
condanna, tanto che un altro critico, il Pasquazi, non ha esitato a
sostenere (ma anche questa opinione chiede di essere, almeno in parte,
rettificata) che nella scena dell’incontro di Dante con i tre Fiorentini
non "c’è vera pietà per queste tre ombre, né per Firenze".
Se nella prima parte del canto il
sovrannaturale si contrappone in modo così esplicito e violento all’umano,
da poter dare l’impressione di soverchiarlo, nella seconda esso domina
incontrastato. L’ascesa di Gerione è preparata da un gesto rituale (il
lancio della corda) che Dante commenta con espressioni analoghe a quelle
usate davanti alla porta di Dite, mentre i due poeti sono in attesa
dell’arrivo del messo celeste. La figura che sale dall’abisso, docilmente
obbedendo al richiamo, s’impone alla nostra fantasia senza determinarsi.
Una circonlocuzione (colui che va gíuso) sembra volerla definire, ma essa
è riferita interamente al mondo degli uomini e della non meglio precisata
figura individua soltanto l’elemento miracoloso, accentuando in tal modo,
anziché disperderlo, il senso di mistero che la circonda.
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