Inferno: canto XXX
Appena Capocchio ha finito di parlare,
Gianni Schicchi, un peccatore che si trova nella decima bolgia per essersi
sostituito, fingendosi infermo e moribondo, a Buoso Donati già morto ed
aver dettato il testamento di quest’ultimo in proprio favore, lo addenta
furiosamente. Insieme a Gianni Schicchi percorre la bolgia correndo,
Mirra, colpevole di aver alterato le proprie sembianze per soddisfare una
insana passione.Dopo che le due ombre rabbiose si sono dileguate, Dante
scorge un dannato il cui corpo, deformato dall’idropisia, ha la forma di
un liuto. E’ maestro Adamo, che coniò, per incarico dei conti Guidi di
Romena, forini di Firenze aventi tre carati di metallo vile. Questo suo
reato gli valse la condanna al rogo e la dannazione eterna. Pregato da
Dante, fa il nome di due suoi compagni di pena che una febbre altissima
tormenta. Sono la moglie dell’egiziano Putifar, che accusò ingiustamente
Giuseppe di averla insidiata, e il greco Sinone, reo di aver persuaso
Priamo a fare entrare in Troia il cavallo di legno escogitato da Ulisse.
Sinone, forse indispettito per la menzione poco onorevole che di lui ha
fatto maestro Adamo, sferra sul ventre dell’idropico un pugno vigoroso, ma
il coniatore di falsi fiorini non tarda a rispondergli colpendolo
violentemente sul volto. I due cominciano allora a rinfacciarsi a vicenda
sia le colpe passate, sia i morbi che attualmente deformano le loro
fattezze. Virgilio interviene infine a distogliere il discepolo
dall’assistere a un così plebeo spettacolo.
Introduzione critica
Il canto XXX può considerarsi
paradigmatico in rapporto all’intera descrizione di Malebolge, che in esso
si conclude. L’alterco fra maestro Adamo e Sinone, in particolare,
esemplifica, in chiave di commedia plebea, il degradarsi dell’intelligenza
in coloro che l’hanno usata a fin di male, il suo esteriorizzarsi, perduto
ogni contatto con le vive sorgenti della moralità, in argomentazioni non
meno scintillanti che incapaci di articolarsi in discorso. Di assai
maggiore efficacia da questo punto di vista, in quanto direttamente
espressivi dell’odio che li anima, i colpi che i due dannati si scambiano;
né maestro Adamo né Sinone tuttavia resistono alla tentazione di
commentare, in tono di autoglorificazione, e di denigrazione
dell’antagonista, il proprio odio, di definirlo: il risultato è ameno e
tragico ad un tempo. L’artificio retorico sottolinea brutalmente la
squallida sostanza delle loro denunce; basti pensare alla collocazione -
al termine di una serie di insulti aventi per oggetto il deforme, sia
fisico che morale (l’uno valendo, nell’al di là, come la trasposizione
simbolica dell’altro) - di una perifrasi come lo specchio di
Narciso,
accennante ad una perfezione remota, salda, inattingibile.Sfugge ai due
falsari che, di fronte all’eternità della loro pena, ogni recriminazione è
inutile e che la loro cecità spirituale risalta in pieno proprio
attraverso l’interessata presentazione che entrambi fanno dei demeriti
dell’avversario, ma sfugge loro soprattutto che nessuno ha il diritto di
giudicare prima di essersi a sua volta giudicato. Il riscatto della loro
intelligenza in un orizzonte razionale e morale resta in tal modo
precluso: nessun dubbio li sfiora, nessun rimorso incrina la loro
monocorde presunzione. Ciascuno di questi due eroi da opera buffa si
avventa sicuro ad accusare l’antagonista, il comprimario della cui colpa
si compiace, onde meglio risplendere, l’ostentata sufficienza di ognuno.
La vita morale, non meno dell’intelligenza autentica, non ha spazio ove
manifestarsi, ciascuno credendo nel proprio intimo di essere immune da
pecche.Allorché a Sinone o a maestro Adamo viene inconfutabilmente esibita
la prova della loro imperfezione, se ne scusano come della cosa più ovvia
- e della quale non mette nemmeno conto parlare - col puntare il dito
sull’imperfezione del denunciatore; il dolore e la contrizione sono
ignorati, tripudia nei loro scherni l’amaro furore di umiliare.
L’intelligenza della quale i due falsari fanno così immoderato sfoggio è
tutta volta ai particolari, e, in quanto tale, si mostra penetrante e
sicura; essa appare tuttavia inetta a cogliere la verità da cui questi
particolari traggono risalto, non integrandosi in una considerazione del
loro significato complessivo: né Sinone né maestro Adamo si interrogano
infatti sulla realtà che immediatamente dovrebbe imporsi alla loro
riflessione: la propria condizione di dannati. La coscienza, presente in
personaggi tragici come Vanni Fucci o Guido da Montefeltro, è in loro del
tutto soffocata.Non diversamente da come si era obliato nella
contemplazione del gioco dei Malebranche con Ciampolo, Dante dimentica se
stesso - il suo compito - di fronte al dispiegarsi di questa vitalità
tenace. In essa un barlume di positività sembra sussistere: la robusta
energia con la quale ciascuno dei due falsari accampa le pretese della
propria soggettività, il proprio diritto di essere, di giudicare; ma è una
positività la quale, non convergendo in una visione che contempli, almeno
allo stesso titolo, anche la validità del diritto altrui, decade in una
brutale caricatura di se stessa.Il canto XXX non è soltanto esemplare per
l’esplicita formulazione, nella farsa dei due falsari, della degradazione
di Malebolge, bensì anche per la ininterrotta densità del suo ordito
stilistico - il quale, dagli autorevoli exempla dell’esordio alla sentenza
che conclude il perorare di Virgilio, solleva costantemente il particolare
ignobile, per nulla attenuato da un aggiustamento idealizzante, nella
"dignità del giudizio divino" (Auerbach) - nonché per la presenza, nella
parte centrale di esso, del personaggio di primo piano, la cui umanità non
è cioè concepita unicamente in funzione del peccato e della pena, ma
fruisce anche, seppure incidentalmente e pro tempore, di una propria
espressione autonoma. Maestro Adamo, prima di ridursi, nel contrasto col
disprezzato greco da Troia (Sinone appare, nella definizione del falsario
medievale, sinonimo di frode: è sufficiente, per designarlo - sembra
sottintendere maestro Adamo - il nome del luogo in cui consumò il suo
fatale inganno), a semplice manifestazione di un modo d’essere generico
(la malizia del fraudolento), rivela una personalità ricca e sfumata. In
lui tuttavia non affiora mai la consapevolezza del male compiuto, ma
soltanto - unitamente alla sete adorante che risolve l’intero creato nel
miraggio di un solo gocciol d’acqua - il vivo sentimento di un’ingiustizia
subita; questo si concreta in una iperbole non meno allucinante di quella
del gocciol d’acqua, alla quale simmetricamente, nell’espressione
dell’odio, risponde: ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia. Nella
misura in cui si chiude alla gravità delle proprie colpe, maestro Adamo
tende a mettere continuamente in luce la propria eccellenza, a
distinguersi dai compagni di pena, contrapponendo un io superbo alla loro
famiglia senza volto, che uno spregiativo sì fatta qualifica (verso 88), a
presentare se stesso «come una nobile vittima di una "rigida", troppo
rigida, giustizia divina » (Bigi).Ma proprio questo rifiuto della comune
miseria, e il non volersi considerare alla stregua degli altri falsari,
faranno precipitare l’appassionato calore di maestro Adamo nella sua
grottesca contraffazione finale (che rappresenta poi la sua autentica
natura di dannato, la sua umanità irrigidita ed incapace di
redenzione).
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