Inferno: canto XI
Sul margine interno del sesto cerchio, al
riparo della tomba infuocata di un seguace
dell’eresia monofisita
(Anastasio II), i due viandanti sono costretti, a causa dell’orribile
odoreche si sprigiona dal baratro aperto al loro piedi, ad una sosta
forzata. Virgilio ne approfitta per spiegare al suo discepolo l’ordinamento
dei tre cerchi infernali che deve ancora visitare. Nel settimo cerchio
sono puniti i peccatori per violenza contro il prossimo, contro se stessi
e contro Dio, nell’ottavo e nel nono quelli che si sono serviti della
frode propriamente detta (contro chi non si fida) e del tradimento (frode
contro chi si fida) per raggiungere i loro fini.Poiché Dante desidera
sapere il motivo per cui i dannati dei primi cinque cerchI sono fuori
delle mura di Dite, Virgilio gli ricorda la partizione aristotelica del
male in tre categorie (incontinenza, malizia e matta bestialità):
nell’alto inferno si trovano appunto gli incontinenti, coloro cioè che non
seppero serbare la misura in azioni di per sé non riprovevoli, mentre
all’interno della città di Dite si trovano coloro il cui peccato ha avuto
per fine la deliberata violazione di una legge. Dante si dichiara
soddisfatto della spiegazione del maestro, ma lo prega di chiarirgli
perché il peccato d’usura offende, ancor prima che il prossimo, Dio e
l’ordine da Dio Imposto alle cose del mondo. Virgilio gli richiama alla
memoria il passo della Fisica di Aristotile, ove il lavoro umano è
definito una imitazione della natura e quello della Genesi, in cui Dio
impone all’uomo di lavorare. Poi lo esorta a riprendere il cammino verso
il dirupo per il quale si scende dal sesto al settimo cerchio.
Introduzione critica
L’interesse di questo canto è
prevalentemente dottrinale: infatti, attraverso le parole di Virgilio,
Dante ci descrive l’ordinamento dell’inferno e chiarisce alcuni punti ad
esso relativi, come quello della differenza fra peccati d’incontinenza e
peccati di malizia o quello riguardante l’essenza dell’usura, alla luce
del pensiero di Aristotile e della Bibbia. E’ singolare - ma il contrasto
insito nella situazione non rivive in una prospettiva fantastica; rimane
un contrasto che potremmo definire soltanto strutturale - che la
spiegazione dei criteri della giustizia divina abbia luogo, ad opera di un
pagano, Virgilio, al riparo dell’avello destinato a punire l’eresia di un
pontefice. Questa singolarità ha una sua motivazione profonda, per quanto
si tratti, appunto, di una motivazione inerente più al mondo degli
interessi filosofici di Dante che a quello dei suoi affetti. Il tema del
peccato di papa Anastasio, vigoroso nella sua sommarietà, è appena
accennato.
Come già nel canto terzo la porta
dell’inferno, anche qui un oggetto inanimato parla in prima persona.
L’inversione sintattica - Anastasio papa guardo - col verbo spostato, in
posizione di energico rilievo, alla fine dell’endecasillabo, colora di
grottesco la vicenda di questo pastore della cristianità che - stando alla
leggenda accolta dal Poeta - si rifiutò di credere nella natura divina,
oltre che umana, del Redentore.
Più profondi accenti avrà la polemica
contro i vicari corrotti di Cristo in altri canti del poema e ad esempio,
nell’ambito della prima cantica, nella bolgia dei simoniaci o in quella
dei consiglieri fraudolenti. Ma l’interesse del canto, e del suo esordio
in particolare (la contrapposizione della ragione naturale, esclusa dalla
Grazia: Virgilio, a chi dalla Grazia si è deliberatamente allontanato:
Anastasio), sta nel fatto che la spiegazione, affidata al poeta latino,
dell’ordine morale e topografico dell’inferno si fonda quasi
esclusivamente su argomenti razionali, accessibili quindi anche a chi sia
ignaro della Rivelazione. La divina giustizia - questo è il convincimento
del Poeta - punisce servendosi di un metro che è quello della ragione
naturale; la sola ragione basta quindi, se non ad indicarci la via della
salvezza (il peccato originale è per essa mistero insondabile), a non
farci cadere in quelle colpe che hanno la loro origine nell’umano
discernimento e che sono punite nei cerchi infernali successivi al limbo.
Se è vero che il pensiero più maturo di Dante rappresenta un superamento
della posizione enunciata nel Convivio (esaltazione della ragione come
suprema facoltà umana; riduzione del sapere al sapere razionale, alla
filosofia), per esso la ragione naturale predispone alla Grazia, la parola
di Aristotile spiana il cammino al messaggio dei Vangeli. Nulla è infatti
più errato che voler introdurre, con mentalità antistorica, una qualsiasi
scissione, nell’universo della Commedia, fra l’umano e il divino, poiché
per Dante, ove non si allontani volontariamente dal fine per il quale è
stato creato, l’uomo non può che confermare il senso dell’operato di Dio,
così come Dio è il garante assoluto della validità dei significati che
l’uomo ritrova nel mondo.
Dal punto di vista formale, i chiarimenti
che in questo canto Virgilio ci impartisce sulla struttura fisica e morale
dell’inferno esprimono il fermo possesso che il discente ha della sua
materia: la divisione per argomenti si rispecchia perfettamente nella
scansione isocrona e riposata delle terzine. La sua esposizione tuttavia,
benché didatticamente insuperabíle, ci lascia inappagati. Raggelato in
formule e definizioni, il miracolo della razionalità divina che rivive In
quella di noi tutti non riesce nemmeno a proporsi. Qui la verità non
rampolla dal contrasto di opposte ragioni, come avverrà in alcune delle
più ardue, ma anche più accese e vibranti pagine della terza cantica, ma
si configura come un bene inerte, oggetto di mnemonico apprendimento,
sotto le specie della " nozione " e della "classificazione". Mancano il
dramma del pensiero nel suo farsi, l’ansia del sapere che si conosce
limitato e si tende nel presagio di un sapere più alto, tipici della
didascalica del Paradiso e che questa didascalica traducono in stati
d’animo: umana speranza e incertezza, affanno per coloro che si sviano
dietro false immagini di bene, contemplante beatitudine interiore. Il
Momigliano ha parlato, per questo canto, di "poesia che aleggia nell’aula
d’un maestro della Scolastica ", ma, in questa caratterizzazione, peraltro
felice, il termine " poesia " è senz’altro di troppo.
Dove invece la poesia si riscatta, è
negli ultimi quattro versi del canto. Al termine del discorso di Virgilio
c’è come un senso di stanchezza per tanto scolasticismo, di insofferenza
(messa in luce, tra l’altro, dall’incalzare delle causali : ché i Pesci...
e ‘1 Carro... e ‘1 balzo) per tanto indugio nelle parole: il mistero del
creato riaffiora, e con esso la vita, nell’immagine delle silenti
geometrie notturne che lassù, nel mondo dei vivi, parlano all’uomo. Ma,
per il Poeta, questo mistero è già fede, miracolo, conoscenza. Il
linguaggio del firmamento è lo stesso linguaggio degli uomini: il lento
ascendere della costellazione si contrae in un significato a tutti
accessibile, diventa il " guizzare " dei Pesci, mentre una semplice
somiglianza fonica (Carro - Coro) porta sul piano del sacro - dove nessun
etimo appare convenzionale e i nessi fra parole sono rivelatori di una
parentela fra le cose - il rapporto che si istituisce tra un’altra
costellazione e un vento. La creazione è, per il credente, a noi prossima,
penetrabile alle nostre domande, rivelatrice della nostra somiglianza con
Dio. Un poeta può scoprire allora in essa rispondenze più intime con la
nostra soggettività di quelle dedotte da una scienza opaca alle voci del
dolore e al proiettarsi dell’uomo, nel tempo, verso il suo termine
eterno.
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