Paradiso: canto XI
Nel canto XI continua a parlare
lo spirito di San Tommaso d’Aquino, che si accinge a chiarire un dubbio
sorto in Dante in seguito ad una sua affermazione:
u’ ben s’impingua se
non si vaneggia (canto X, verso 96). Egli spiega che Dio, per il bene della
Chiesa, dispose due guide che la conducessero verso il bene, San Francesco
e San Domenico, fondatori dei due grandi ordini monastici del secolo
XII,
i quali avevano come loro scopo fondamentale la riforma morale del mondo
cristiano.San Tommaso inizia a questo punto la celebrazione della figura e
dell’opera di Francesco d’Assisi, mettendo in rilievo le caratteristiche
della sua personalità e i momenti più importanti della sua azione. Ricorda
dapprima la rinuncia di Francesco ai beni terreni per abbracciare
l’assoluta povertà e i suoi primi seguaci. A Roma il poverello d’Assisi
ottiene l’approvazione del proprio ordine prima da Innocenzo III e poi da
Onorio III. Recatosi in Oriente, cerca di diffondere in quelle terre la
parola di Cristo, ma, fallito questo tentativo, deve ritornare in Italia.
Qui, sul monte della Verna, riceve, due anni prima di morire, le sacre
stimmate.San Tommaso termina il suo discorso con una dura rampogna rivolta
all’ordine domenicano, che ha dimenticato il suo voto di povertà per
dedicarsi solo alla ricerca dei beni mondani.
Introduzione critica
Anche l’inizio di questo canto va riferito, ma per
contrasto fra vita attiva e contemplativa, all’epilogo del canto
precedente, perché nel vario contrappunto dei canti del cielo del Sole,
come anche in quelli del cielo di Marte e di Giove, una mobilità di
attenzione esultante avvolge tutte le cadenze del discorso, e più spesso
per contrapposizione che per analogia. Se il canto decimo s’era concluso
con il carillon che chiama i frati a mattutino, questo incomincia con lo
spettacolo delle faccende mondane che trascinano ed affaticano i mortali
giuristi, medici, ecclesiastici, politici che dominano per frode o per
forza, e ladri, e mercanti; faticosi appaiono anche i diletti della carne,
faticoso anche l’ozio.Alla conclusione liturgica si contrappone dunque
questa colorita e grottesca commedia corale, anzi corteo carnevalesco
delle maschere delle varie professioni: segno inoltre, di un dilatarsi
dello sguardo sul mondo terreno, osservato e integrato in modi sempre
nuovi, e qui disteso come sfondo al dittico dei due patriarchi dei nuovi
ordini mendicanti.Fa da intermezzo fra l’una e l’altra panoramica, fra il
corteo grottesco e l’alta, assorta visione di paese che prelude
all’apparizione di Francesco d’Assisi, una luminosa immagine e un mite
raggio di parole e di luce: gli spiriti sapienti della prima corona,
tornando al punto de] cerchio donde si erano mossi, s’affiggono come la
candela al candeliere. E nel vivido lume quieto torna a parlare Tommaso
d’Aquino, per chiarire due dubbi di Dante, sorti dalle sue parole: u’ ben
s’impingua se non si vaneggia e a veder tanto non sorse il secondo. Né si
ferma ad una puntuale esegesi dei termini adoperati: ogni dubbio, nel
paradiso, è sciolto da una maggior copia di luce e d’amore. Così alla
meditazione liturgica riassunta nella luce del cero segue l’intermezzo
storico sulla fondazione degli ordini mendicanti: storia come
investigazione meditativa e riverente dell’azione della Provvidenza nel
mondo, ovviamente, storia che promana dalle mistiche nozze di Cristo
morente sulla croce e della Chiesa (disposò lei col sangue benedetto) e
che viene subito riassunta nelle virtù di amore e di sapienza che
contrassegnano i due campioni: l’uno tutto serafico in ardore, Francesco,
l’altro di cherubica luce uno splendore, Domenico. E’ quasi un preludio e
una sinfonia del paesaggio umbro "nel mite solitario alto splendore",
secondo l’espressione con la quale il Carducci, in un ritratto di
Francesco, ha riassunto la tematica dantesca.Dopo una rapida variazione
sul tema del freddo e del caldo, Dante inizia a tracciare la sacra
immagine del poverello d’Assisi. Sulla costa del monte Subasio nasce il
nuovo sole del mondo e il Poeta ne riassume il transito terrestre in
quadri, quasi scomparti d’affresco, a cominciare dall’amore per madonna
Povertà, cui si congiunge in mistiche nozze davanti al padre, al vescovo,
al popolo d’Assisi. Una variazione per esempi dalla storia e dalla vita di
Cristo illustra e quasi accompagna, celebrandole, queste nozze: al grande
verso d’amore, poscia di dì in dì l’amò più forte segue il paradosso sulla
Povertà che salì con Cristo sulla croce, dove Maria rimase giuso.
All’aspetto raggiante e rapito dei due amanti tutto intorno a loro si
trasfigura. Si scalzano e accorrono i primi seguaci, seguono Francesco
come padre e maestro, cingono la corda dell’umiltà. Papa Innocenzo approva
l’ordine della gente poverella. Di altra corona lo fregia papa Onorio. E
Francesco, predicata invano in Oriente la fede di Cristo e degli apostoli
e dei martiri, si riduce nelle solitudini rupestri della Verna, dove
riceve le stimmate. Muore poi sulla nuda terra, raccomandando madonna
Povertà ai seguaci ed eredi. Il quadro della morte si accende della
coralità tradizionale della legenda letteraria e pittorica: un ultimo
squillo, intorno al tema della fedeltà amorosa (e comandò che l’amassero a
fede), e il transito dal grembo della Povertà, nudo sulla nuda terra, alla
Porziuncola. Nella quiete della contemplazione della morte, ma rotta dal
transito al cielo, tornando al suo regno, lo squarcio agiografico, forse
il più bello delle letterature volgari, si chiude. L’epopea della vita e
morte di Francesco è finita, e il tono del discorso muta: colloquiale e
disteso, ormai, mentre ripropone il raffronto con Domenico, e costata come
il suo gregge si disperda. La spiegazione del se non si vaneggia è questa:
constatazione di una decadenza e di una dissipazione fatta per riproporre
l’esempio della virtù primiera. Si tratta, infatti, di dedurre delle
conclusioni e riportarle al tema iniziale della discussione, perché Dante,
anche negli squarci dottrinali, obbedisce sempre alla concretezza:
concretezza drammatica, altrove, concretezza didattica in questo e in
tanti altri punti. La lezione che il Poeta qui svolge ha una sua
strutturazione drammaturgica, che egli ha sottratto allo schema puramente
tecnico della scuola, perché ben conosce i tre momenti della dottrina: la
parola del maestro, l’attenzione e la meditazione assidua del discepolo. E
termina il canto modulato e ricco come pochi, che è esempio di una nuova
drammaturgia e di una nuova agiografia, cui si ricollegano innumerevoli
modi dell’arte figurativa e di quella letteraria nelle quali si ricerca
una più intensa corrispondenza fra la meditazione sapienziale e il modo
del racconto disteso e denso.
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