Inferno: canto XXVIII
La nona bolgia appare ai due pellegrini
come un immenso carnaio: nessun discorso umano potrebbe suggerire un’idea
della sterminata moltitudine di feriti e mutilati che si affollano in
essa. I dannati fanno il giro della bolgia, in eterno; le loro piaghe, che
via via si rimarginano, vengono nuovamente aperte, ad ogni nuovo giro, da
un diavolo armato di spada. Davanti agli occhi dei due poeti passano
dapprima Maometto, il fondatore della religione islamica, ed Alì, uno dei
suoi primi seguaci. Il primo ha il corpo squarciato, il secondo la testa
spaccata in due. In tal modo essi scontano, insieme agli altri peccatori
della bolgia, la loro colpa: quella di aver introdotto la discordia nel
mondo. Quindi un altro dannato si fa avanti: è Pier da Medicina, un
contemporaneo di Dante, il quale predice la sanguinosa fine, ad opera di
Malatestino da Verrucchio, signore di Rimini, di due cittadini di Fano.
Poi, su richiesta del Poeta, fa il nome di un suo compagno di sventura,
che, avendo la lingua recisa, non può parlare. E’ il tribuno della plebe
Curione, colui che vinse le ultime esitazioni di Cesare e lo indusse ad
attraversare il Rubicone, dando così inizio alla guerra civile contro
Pompeo. Sopraggiunge un dannato con le mani tagliate e i moncherini
grondanti sangue: è Mosca dei Lamberti, il responsabile della divisione
dei Fiorentini in Guelfi e Ghibellini e della distruzione della propria
famiglia. Dante vede infine avanzare l’ombra di un decapitato. Costui
porta la sua testa in mano, reggendola per i capelli, come se fosse una
lanterna.Giunto sotto il ponte sul quale si trovano Dante e Virgilio, leva
il braccio, in modo che i due poeti possano ascoltare le sue parole, e
dice: "lo sono Bertran de Born, colui che indusse Enrico III d’lnghilterra
a ribellarsi al padre Enrico II; poiché ho reso nemiche due persone che un
vincolo così stretto legava, porto la mia testa separata dal corpo. In tal
modo è applicata, in me, la legge del contrappasso".
Introduzione critica
L’episodio di Ulisse e quello di Guido da
Montefeltro, i due grandi fraudolenti dell’ottava bolgia, si
contrappongono l’uno all’altro come le due parti di un dittico. Da un lato
il Poeta ci presenta l’antichità pagana in una delle sue più alte
manifestazioni, dall’altro la cronaca dei suoi tempi, imbevuti di spirito
cristiano e consapevoli, a differenza dell’umanità incarnata da Ulisse,
della ineliminabile imperfezione della natura umana. L’episodio di Ulisse
è svolto nello stile dell’alta tragedia, quello di Guido avanza
esplicitamente, fin dall’inizio, la soluzione del plurilinguismo (e che
parlavi mo lombardo, dicendo "Istra ten va; più non t’adizzo"): mescolanza
di stili che appare originarsi in una concezione del sublime opposta a
quella degli antichi ed ha, come ha mostrato l’Auerbach, il suo modello
nella Sacra Scrittura: è a questa mescolanza di stili che compete, secondo
quanto Dante stesso ha dichiarato nell’Epistola a Cangrande della Scala,
l’appellativo di "commedia". La tragedia di Ulisse rimane estranea al
peccato che ha condannato l’eroe nella bolgia dei consiglieri fraudolenti;
quella di Guido al contrario si identifica interamente con questo peccato
(perché diede il consiglio frodolento). La figura di Ulisse, perché possa
inquadrarsi nella cornice teologica che regge l’intero poema, deve essere
fatta oggetto di una interpretazione moralizzata in senso
"simbolico-figurale" (cfr. in proposito le osservazioni del Mattalia:
canto XXVI, versi 109-1 1 1); quella di Guido non ha bisogno di una
siffatta moralizzazione: Guido infatti analizza con una lucidità ed un
rigore concettuale inconcepibili anteriormente all’affermarsi della
Scolastica (e come e quare) le fasi ed il senso della propria perdizione.
Il linguaggio di Ulisse, proprio perché l’eroe greco ignora Dio e il
rimorso, è di una semplicità estrema, volto a rendere conto unicamente dei
fatti; quello di Guido è contraddittorio e complesso, fin dalle sue prime
parole: pesa sul montefeltrano il carico delle proprie colpe, egli è
consapevole di aver trasgredito una legge superiore a quella degli uomini,
superiore agli stessi suggerimenti del vicario di Dio in terra.La sua è
una consapevolezza tanto più dolorosa, quanto più cauto è stato il
coordinarsi delle sue azioni in vista del fine che si è proposto di
raggiungere, quanto più prudente il significato da lui attribuito ad esse.
Questo guerriero non ha smentito, nemmeno negli ultimi anni di vita, la
sua fama di uomo astuto: ha saputo spogliarsi dell’armatura e cingersi di
un umile cordiglio nel momento ritenuto più opportuno (ove ciascun
dovrebbe...) per una tale conversione. Mai la sua volontà di dominio ha
conosciuto un cedimento, una caduta nella spontaneità, nella fede genuina,
mai ha saputo fare sacrificio di sé a Dio, mai Guido ha chiesto al
Redentore di redimerlo dalla cupidigia di affermarsi al disopra e a danno
degli altri, di riscattarlo dal desiderio di una gloria effimera. Quando
comprese di dover fare i conti, oltre che con gli uomini, con Dio, da buon
calcolatore, da esperta volpe, si illuse di poter usare anche con Dio
quell’astuzia che lo aveva reso potente ed invidiato fra gli uomini (e sì
menai lor arte, ch’al fine della terra il suono uscìe). È questa l’origine
del suo peccato, la ragione profonda per la quale si indusse ad aderire
alla richiesta formulata con ebbre parole da Bonifacio
VIII. La sua
conversione era stata soltanto formale, dettata dall’opportunità, dalla
convenienza, il cordiglio francescano non aveva cinto un uomo nuovo.
Perciò, di fronte alla proposta di Bonifacio, egli è colto si da un senso
di smarrimento e di orrore, ma questo smarrimento e questo orrore palesano
unicamente la sua paura di mettere a repentaglio la salvezza della propria
anima, per la quale ha tanto penato, non considerano l’empietà di questa
proposta in sé, per quanto essa contiene di antitetico al messaggio
cristiano. Guido da Montefeltro trova in Bonifacio VIII un essere più di
lui assetato di potere, più di lui smaliziato nel gioco dei compromessi
con le coscienze. Dall’alto del suo seggio il principe de’ novi Farisei
sembra aver perduto la nozione che un Dio esiste indipendentemente dalle
affermazioni e dai capricci umani (lo ciel poss’io serrare e diserrare),
che esiste un ordine giusto che non può essere costretto nei cavilli e
nelle scappatoie di una formula di assoluzione dettata dall’odio e dalla
sete di vendetta. Guido è tratto in inganno da Bonifacio VIII perché
costui rappresenta, nel male, un termine di perfezione irraggiungibile.
Gli scrupoli che ostacolano lo emergere nella coscienza di Guido del suo
essere di sempre - spregiudicato circa i mezzi da usare per vincere ogni
volta che non abbia a soffrirne la propria persona o la proiezione di esse
nel mondo (il potere, la fama) - sembrano non aver mai sfiorato l’animo
del suo beffardo antagonista e signore. Di fronte a questa fermezza
inumana e grandiosa - che nessuna esitazione morale, nessun sospetto
metafisico riescono a scalfire - Guido, il razionalizzatore, capitola,
come preso nelle spire di un fascino che lo restituisce interamente alla
sua natura peccaminosa.Secondo una suggestiva osservazione del Mattalia,
nel drammatico colloquio che lo oppone al pontefice, Guido, proprio perché
è rimasto l’uomo di sempre, irretito negli appetiti del mondo anche quando
ha calcolato di liberarsene - anzi, maggiormente irretito in essi proprio
nell’atto in cui ha voluto dare ad intendere, alla sua coscienza e a Dio,
di essersene liberato - appare "incapace di realizzare in sé l’unione del
candore della colomba e della prudenza del serpente consigliata dal noto
precetto evangelico"; la sua anima non è infatti "né sufficientemente
candida né, per neutralizzante effetto del candore, sufficientemente
astuta quando pur le avrebbe giovato esser tale per conservare il tesoro
del suo stesso candore".
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