Introduzione alle Epistole - Giuseppe Bonghi -
Già Giovanni Boccaccio nel Trecento e Leonardo Bruni nel Quattrocento
testimoniano che Dante abbia scritto in vita molte lettere, alcune delle
quali i due autori citati avevano visto con i propri occhi e di cui
parlano nella vita di Dante da loro scritta. In particolare Boccaccio
scrive che Dante «fece ancora molte epistole prosaiche in latino, delle
quali ancora appariscono assai». Ma purtroppo poco ci è rimasto, se non
queste tredici che ora proponiamo all'attenzione dei lettori della nostra
biblioteca. Le Epistole di
Dante furono pubblicate assai tardi; la prima edizione è quella curata da
Carlo Witte nel 1827, con sette lettere, cui se ne aggiunsero altre 4
pubblicate da Alessandro Torri nel 1843. Per il resto bisogna aspettare il
secolo nostro perché veda la luce il corpus di tredici lettere così come
lo conosciamo. Per quanto riguarda lo
stile bisogna considerare i tempi in cui sono state scritte, tempi in cui
la cultura stava lentamente uscendo dalla sua condizione di privilegio in
dotazione di pochi. Così ne scrive il Torri: «Le forme latine non son
diverse da quelle che crear potea il trecento, quanto aureo nell'uso
moderno, altrettanto ferreo nell'antico,; non essendo punto meglio scritte
le altre opere latine dello stesso autore, le quali allo stile di queste
in tutto si conformano; e che il fraseggiare vi è tutto scritturale e
sopraccarico d'induzioni filosofiche e teologiche, se non in quanto vi
apparisce ad ora ad ora qualche qualche fior virgiliano... Sotto la ruvida
corteccia esteriore corre un succo interno di pensieri, che produce
bellissimi frutti di sapienza, e talvolta nelle stesse parole
trasfondendosi le riempie di tal maestà e grandezza, che vince le ruggini
del secolo, e cangia in oro il ferro come si vede là dove il proscritto
non meritevole inveisce con impeto d'eloquenza contro i
Fiorentini». Nella seconda metà
dell'Ottocento abbiamo l'edizione di Pietro Fraticelli (Il Convito di
Dante Alighieri e le epistole, con illustrazioni e note di Pietro
Fraticelli e d'altri, Firenze, editore G. Barbera, VIII edizione 1900)
dalla quale abbiamo attinto molte delle notizie qui riportate.
Scrive Angelo Jacomuzzi:
«Delle epistole dantesche pervenute fino a noi, dodici possono essere
sommariamente raccolte in tre gruppi, conformemente alle motivazioni e ai
temi che le caratterizzano. Un
primo gruppo è costituito da lettere di carattere
strettamente occasionale, legate a circostanze e convenzioni di natura
diplomatica o curiale; sono: - la lettera di
condoglianza per la morte di Alessandro da Romena, inviata ai nipoti Guido
e Oberto (la II); - le tre brevi lettere scritte da
Dante per conto di Gherardesca (moglie di Guido di Battifolle conte
Palatino) dal castello di Poppi e indirizzate a Margherita di Brabante,
consorte di Arrigo VII, agli inizi dell'impresa imperiale in Italia
(VIII-IX-X). Un secondo
gruppo, di maggior rilievo, è costituito da testi di
corrispondenza direttamente legati alla vicenda biografica e intellettuale
del poeta: - le lettere a Cino da Pistoia (III) e a
Moroello Malaspina (IV), che, accompagnatorie rispettivamente di un
sonetto e di una canzone, ci riconducono alla convenzione, qui arricchita
e dilatata nella prosa epistolare, della corrispondenza poetica;
- la XII, indirizzata all'ignoto amico fiorentino, dove
l'occasione dell'amnistia politica e il rifiuto di piegarsi alle sue
condizioni offrono a Dante lo spunto per abbozzare un ritratto di sé che è
il più alto e persuasivo, fuori della Commedia, che egli ci abbia
lasciato. Un altro
gruppo, infine, raccoglie le epistole più propriamente politiche
(I, V, VI, VII, XI) e rappresenta anche nell'ambito di ciò che rimane
dell'epistolario dantesco, la sezione più ampia per estensione materiale e
per numero; tra queste la quinta, la sesta e la settima formano un blocco
unico e compatto sia per spazio di tempo (dal settembre-ottobre 1310
all'aprile 1311) sia per l'occasione e l'oggetto convergenti sull'evento
della discesa di Arrigo VII in Italia. Dalla prima (un breve intenso
messaggio, ma tutto redatto nei termini della convenzione diplomatica) al
cardinale Niccolò da Prato, del 1304, alla undecima ai cardinali italiani
del 1314, le lettere politiche abbracciano un decennio decisivo per la
storia esterna di quegli anni e per la storia interiore del poeta:
dall'inizio del pontificato di Clemente V e della cattività avignonese
della Chiesa alle ultime speranze nella successione al soglio di Pietro di
un vescovo italiano e nel ristabilimento della sede papale in Roma, subito
frustrate e deluse con la elezione del caorsino Giovanni XXII; dalla
partecipazione ai tentativi dei Bianchi per rientrare in Firenze (alla
vigilia dell'impresa della Lastra che, per l'assenza di Dante, segnerà
l'allontanamento del poeta dalla sua parte) al riaccendersi delle
speranze, del fiorentino e dell'italiano, per la venuta di Arrigo VII sino
al fallimento dell'impresa imperiale che condurrà Dante a fissare
l'oggetto delle sue attese sul piano espressamente religioso,
nell'auspicio corroborato da una speranza teologale, del rinnovamento e
della purificazione della Chiesa». (Opere minori di Dante
Alighieri, vol. II, p. 325 e seguenti, U.T.E.T. Torino 1986)
Epistola I A Niccolò Albertini da Prato
Nei manoscritti della
Biblioteca Vaticana Palatina, fra quelli che Massimiliano di Baviera donò
a papa Gregorio XV, insieme al De Monarchia e alle dodici egloghe
di Petrarca, si trovano nove epistole. Questa, che ormai convenzionalmente
tutti pongono come prima nel corpus. La
lettera è indirizzata al cardinale d'Ostia Niccolò Albertini da Prato ed è
scritta a nome non solo del conte Alessandro Guidi da Romena, Capitano del
Consiglio dei Dodici, ma anche dello stesso Consiglio dei Dodici
Ghibellini, di cui Dante faceva parte, come narra Leonardo Bruni:
"Finalmente (i fuorusciti) fermarono la sedia loro in Arezzo, e quivi
fecero campo grosso; e crearono loro capitano il conte Alessandro da
Romena, e fecero dodici consiglieri, del numero de' quali fu
Dante." Il cardinale
d'Ostia, persona accorta e nemica degli eccessi di tutte e due le parti
politiche in lotta, fu dal papa benedetto XI, sul principio del 1304,
inviato in Toscana, con autorità di legato e messo di pace, e giunse in
Firenze il 10 marzo, guadagnandosi ben presto la fiducia sia dei Guelfi
che dei Ghibellini; il cardinale si mostrò benevolo anche verso i
fuorusciti, ai quali inviò un certo frate L***, colla promessa scritta che
sarebbero stati reintegrati nei loro diritti e che la patria sarebbe stata
riordinata secondo i loro desideri. I fuorusciti replicarono al cardinale
con questa lettera, mostrando la loro più sincera e viva gratitudine,
affermando, tra l'altro, di aver brandito le armi solo per tentare di
ricondurre i loro avversari ai principi di buona convivenza civile e
politica e che la loro intenzione mirava alla pace e alla libertà del
popolo fiorentino. E poiché Frate L*** chiedeva loro di astenersi da
qualsiasi uso delle armi, conformemente all'incarico ricevuto, i
fuorusciti ne facevano formale e solenne promessa, rimettendo nelle mani
del cardinale completamente la ricomposizione della questione e le
condizioni di pace. Ma
le benevole intenzioni del cardinale e i desideri dei fuorusciti non
portarono ad alcuna conclusione, tanto che i Neri, che erano rimasti
padroni di Firenze, ebbero il sospetto che il cardinale volesse favorire i
Bianchi, e lo persuasero l'8 di maggio a recarsi a Prato e Pistoia. Mentre
il cardinale si trovava lontano da Firenze, i Neri, per mezzo di lettere
false, diffusero la voce che si era messo d'accordo coi Bianchi per mutare
lo stato della Repubblica con grave danno dei Neri. Per questo, non appena
tornato in Firenze, vide che il favore del popolo era mutato e che i capi
del Comuni non gli davano più ascolto; per questo, irritato, abbandonò la
città, lanciandole contro
l'interdetto. Gli
storici affermeranno in seguito che, essendo il Cardinale di famiglia
Ghibellina, propendeva piuttosto per i Neri che per i Bianchi, come
afferma anche il Villani, che pure era Guelfo,, che mette in evidenza le
rette intenzioni del prelato (Villani, Croniche, libro VIII, cap. 69).
Epistola II Ai conti Guidi
La
lettera è inviata a Oberto e Guidi dei Conti Guidi, nipoti del conte
Alessandro da Romena e fu pubblicata da Alessandro Torri. Dante scrive per
condolersi della morte dello zio Alessandro, esortandoli a farsi eredi
delle sue virtù così come erano eredi delle sue sostanze, scusandosi di
non poter partecipare ai funerali a causa della povertà in cui versava dal
momento in cui era stato cacciato da Firenze, privo com'era anche di
cavalli e di armi.
Dante era legato ad Alessandro da Romena da vincoli sia di amicizia che di
politica, appartenendo entrambi alla fazione dei
Bianchi. "I conti
Guidi, nati del ceppo di Guido il vecchio e della bella Gualdrapa, figlia
di Bellincion Berti, moltiplicatisi in vari rami, e non sempre fa lor
concordi ne' principii politici, erano di coloro che,, per usare la frase
del nostro poeta, mutavan parte dalla state al verno. Nel 1304
con Alessandro alla testa li abbiamo già veduti ghibellini; nel 1306 dopo
che Alessandro era morto, appariscono, dal documento delle Riformagioni
(Lib. Prov. num. 14, pag. 33), divenuti Guelfi; e Guelfi pure, e nemici
d'Arrigo, appariscono dal documento del 7 luglio 1311 citato dal Padre
Ildefonso nelle Delizie degli Eruditi Toscani, vol. VIII, pag.
182. Ghibellini li veggiamo tornati ben presto, cioè nel 6 settembre dello
stesso anno 1311, essendoché sono eccettuati dalla riforma o amnistia di
Baldo d'Aguglione, per cui vedi l'or ricordato Padre Ildefonso, vol. XI,
pag. 89: e Ghibellini manteneansi pure l'anno appresso, poiché nelle
Riformagioni e nella Biblioteca Rinucciniana trovasi un diploma, dato
in Roma appresso le milizie 7 giugno 1312, Ind. X col quale Arrigo
VII prende sotto la sua protezione la persona e i beni d'Aghinolfo da
Romena conte Palatino di
Toscana". Questa la
storia dei Conti Guidi nel frangente che ci interessa, narrata dal
Fraticelli (op. cit. pag.
420). La morte di
Alessandro da Romena "era una sventura gravissima per tutti, ma più che
tutti, a Dante", che in quel tempo si trovava in Arezzo. Gli veniva a
mancare non solo il soccorso contro la povertà, ma soprattutto la
scomparsa di una guida che spezza le speranze politiche di rientrare in
Firenze; e la povertà di Dante quasi sparisce di fronte al danno che
colpisce i Guelfi.
Epistola III A Cino da Pistoia
La
lettera fa parte del codice VIII, Plut. XXIX della
Biblioteca Laurenziana e pur non esprimendo il nome di Dante se non per
mezzo della iniziale D (Epistola D. de Florentia), fu attribuita
a Dante sia per per le parole de Florentia, sia per il
contenuto.. La lettera
è la risposta di Dante a un'Epistola di Cino da Pistoia, nella quale
questi chiedeva se la nostra anima possa passare di passione in passione;
la risposta di dante è accompagnata da un componimento, che secondo il
Witte fu la canzone Voi che intendendo, e che probabilmente
trattava di quell'amore allegorico che da sensuale si tramuta in
intellettuale (come Dante testimonia nel Convivio) e che accese l'animo di
Dante dopo la morte di
Beatrice. Che Cino da
Pistoia, dopo la morte di Selvaggia, la sua donna, passasse da un amore
all'altro e si dimostrasse molto incostante, è cosa ormai certa secondo la
testimonianza di molti biografi e dello stesso Dante che così scrive nel
sonetto XL delle sue Rime:
I' ho veduto già
senza radice legno ch'è per omor tanto gagliardo che que' che
vide nel fiume lombardo cader suo figlio, fronde fuor
n'elice;
ma frutto no, però
che 'l contradice natura, ch'al difetto fa riguardo, perché
conosce che saria bugiardo sapor non fatto da vera
notrice.
Giovane donna a cotal
guisa verde talor per gli occhi sì a dentro è gita che tardi
poi è stata la partita.
Periglio è grande in
donna sì vestita: però l'affronto de la gente verde parmi che
la tua caccia non seguer de'. |
4 8 11 14 |
Nel
finale dell'Epistola troviamo alcune parole di consolazione di Dante
all'amico come lui sventurato e bandito dalla patria. L'esilio di Cino
durò dall'anno 1307 al 1319, per cui possiamo affermare che questa lettera
fu scritta proprio in questo lasso di tempo.
Epistola IV A Moroello Malaspina
Cinque anni
dopo il suo esilio, Dante fu ospite dei Marchesi Malaspina in Lunigiana,
dove trattò, e portò a compimento il 6 ottobre 1306, la pace tra alcuni di
essi e il Vescovo di Luni. Dalla Lunigiana si pensa che sia passato nel
Casentino e dimorasse per un po' nei castelli dei Conti
Guidi. In questa
lettera, scritta molto verosimilmente nel 1307, Dante si rivolge a
Moroello Malaspina e narra che appena giunto sulle rive dell'Arno ( che
traversa per lungo tratto il Casentino), gli era apparsa davanti agli
occhi una donna, e che, malgrado ogni suo sforzo, Amore gli aveva cacciato
via dalla mente ogni proposito di tenersi lontano dalle donne e dalla
poesia amorosa e lo aveva completamente sottomesso alla propria signoria.
E affinché meglio Moroello comprendesse la forza di questo amore, Dante
univa alla lettera un componimento poetico su tale
argomento. Che Dante
si fosse innamorato di una donna del Casentino, alcuni biografi lo avevano
scritto, ma né di lei né del componimento conosciamo qualcosa. Qualche
critico ipotizza che si sia trattato della canzone Amor, dacchè
convien pur ch'io mo doglia, nella quale (stanza 5 e tutta la chiusa)
parlano di un nuovo innamoramento di Dante e descrivono abbastanza
chiaramente il
Casentino. Riportiamo
la canzone:
Amor, da che convien
pur ch'io mi doglia perché la gente m'oda, e mostri me d'ogni
vertute spento, dammi savere a pianger come voglia, sì che 'l
duol che si snoda portin le mie parole com'io 'l sento. Tu vo'
ch'io muoia, e io ne son contento: ma chi mi scuserà, s'io non so
dire ciò che mi fai sentire? chi crederà ch'io sia omai sì
colto? E se mi dài parlar quanto tormento, fa', signor mio,
che innanzi al mio morire questa rea per me nol possa
udire: ché, se intendesse ciò che dentro ascolto, pietà faria
men bello il suo bel volto.
Io non posso fuggir
ch'ella non vegna ne l'imagine mia, se non come il pensier che
la vi mena. L’anima folle , che al suo mal s’ingegna, com’ella
è bella e ria, così dipinge, e forma la sua pena; poi la
riguarda, e quando ella è ben piena del gran disio che de li
occhi li tira, incontro a sé s’adira, c’ha fatto il foco
ond’ella trista incende. Quale argomento di ragion
raffrena, ove tanta tempesta in me si gira? L’angoscia, che
non cape dentro, spira fuor de la bocca, sì ch’ella
s’intende, e anche a li occhi lor merito
rende.
La nimica figura, che
rimane vittorïosa e fera e signoreggia la virtù che
vole, vaga di se medesma andar mi fane colà dov’ella è
vera, come simile a simil correr sòle. Ben conosco che va la
neve al sole, ma più non posso: fo come colui che, nel podere
altrui, va co’ suoi piedi al loco ov’egli è morto. Quando son
presso, parmi udir parole Dicer: "vie via vedrai morir
costui". Allor mi volgo per vedere a cui Mi raccomandi; e
‘ntanto sono scorto Da li occhi che m’ancidono a gran
torto.
Qual io divengo sì
feruto, Amore, sailo tu, e non io, che rimani a veder me sanza
vita; e se l’anima torna poscia al core, ignoranza ed
oblio stato è con lei, mentre ch’ella è partita. Com’io
resurgo, e miro la ferita Che mi disfece quand’io fui
percosso, confortar non mi posso sì ch’io non triemi tutto di
paura. E mostra poi la faccia scolorita Qual fu quel trono che
mi giunse a dosso; che se con dolce riso è stato mosso, lunga
fïata poi rimane oscura, perché lo spirto non si
rassicura.
Così m’hai concio,
Amore, in mezzo l’alpi, ne la valle del fiume lungo il qual
sempre sopra me se’ forte: qui vivo e morto, come vuoi, mi
palpi, merzé del fiero lume che sfolgorando fa via la
morte. Lasso, non donne qui, non genti accorte Veggio, a cui
mi lamenti del mio male: se a costei non ne cale, non spero
mai d’altrui aver soccorso. E questa sbandeggiata di tua
corte, signor, non cura colpo di tuo strale: fatto ha
d’orgoglio al petto schermo tale ch’ogni saetta lì spunta suo
corso; per che l’armato cor da nulla è
morso.
O montanina mia
canzon, tu vai: forse vedrai Fiorenza, la mia terra, che fuor
di sé mi serra, vota d’amore e nuda di pietade; se dentro
v’entri, va’ dicendo: "Omai non vi può far lo mio fattor più
guerra: là ond’io vegno una catena il serra tal che, se piega
vostra crudeltate, non ha di rotornar qui libertate
". |
5 10 15
20 25 30
35 40 45
50 55 60
65 70 75
80
|
Il
capostipite dei Malaspina, Currado I l'antico, divise i possessi feudali
con Obizzino e lasciò cinque figli; di uno di questi era figlio quel
Corrado che Dante incontra nel Purgatorio, il cui secondogenito, Moroello,
divise il casato nelle quattro branche dei Mulazzo, Giovagallo,
Villafranca e Val di Trebbia. Di Moroello Malaspina i critici ne hanno
individuato soprattutto due (di un terzo evitiamo di parlare perché al
tempo dei fatti era un bambino e non era ancora maggiorenne quando nel
1319 gli morì il padre): - Moroello III capitano di parte Nera,
marchese di Giovagallo, nominato da Dante in Inferno, XXIV,145, e
chiamato vapor di Valdimagra, il quale nel 1302 inflisse ai
Bianchi la nota sconfitta di Campo Piceno, cui allude nei versi:
E con tempesta impetuosa ed agra / sopra Campo Picen fia
combattuto; fu figlio di Manfredi I (quindi cugino di Currado II e
nipote di Currado I, ricordati nel canto VIII del Purgatorio) e
sposò Alagia del Fiesco (vedi Purgatorio XIX,142); Moroello,
secondo Boccaccio, ospitò Dante a Fosdinovo ingiungendogli di scrivere la
Commedia - Moroello figlio di Obizzino, marchese
di Villafranca, che il 6 ottobre 1306 insieme al fratello Corradino e al
cugino Franceschino Malaspina di Mulazzo, affida a Dante il compito di
procuratore per trattare la pacificazione con Antonio Vescovo di
Luni. Molti
ragionevolmente propendono per il secondo, ma qualcuno, come il Witte, uno
dei primi studiosi, spostando la data della scrittura della lettera al
1310, propendono per il primo, ma è difficile pensare che Dante potesse
rivolgere una tale lettera a un personaggio di parte avversa, fiero e
vecchio soldato, che, oltre a battere i Bianchi a Campo Piceno presso
Serravalle, pose pure l'assedio a Pistoia, ultimo rifugio dei Ghibellini
toscani, riducendola alla fame, occupandola in nome di Lucca e Firenze e
quindi governandola col titolo di Capitano del popolo: a un fiero
avversario e vecchio soldato non si può scrivere una lettera in cui si
parla d'amore.
Epistola V Agli Italiani
Si può
datare questa lettera, attraverso precisi riferimenti interni, tra il
settembre e l'ottobre del 1310, perché contiene nel paragrafo finale un
riferimento alla lettera enciclica di Clemente V (Exultet in
gloria) del 1° settembre 1310, nella quale il papa invita ad
accogliere ed onorare coi debiti onori l'imperatore che scenderà in Italia
verso la fine di
Ottobre. Alla notizia
che Arrigo VII di Lussemburgo, eletto in Francoforte re dei Romani il 27
novembre 1308 e incoronato nel gennaio dell'anno seguente in
Aquisgrana, stava per scendere in Italia, in Dante si accendono nuove
speranze, e sognando il trionfo dei Bianchi scrive questa lettera ai due
re di Sicilia (Federigo) e di Napoli ( Roberto), ai senatori di Roma, ai
duchi, ai conti, ai marchesi, ai popoli di tutta l'Italia. In essa il
Poeta esprime la sua gioia nel veder sorgere segni di consolazione e di
pace e annuncia che il Re dei Romani giunge "come restauratore della pace
e del diritto atteso da uomini di terre e partiti diversi, Toscani e
Lombardi, Guelfi e Ghibellini", e che, come dolce e umano signore, avrebbe
concesso a tutti il suo perdono. Dante esorta le genti a dimostrarsi
fedeli al Principe, perché chi resiste alla potestà imperiale, resiste
agli ordinamenti di Dio, e chi resiste agli ordinamenti di Dio è simile
all'impotente che
recalcitra. E proprio
perché il papa si dimostra favorevole alla discesa di Arrigo, Dante è
disposto ad accantonare le antiche accuse, soprattutto quella di simonia,
ritenendo che Clemente V avesse comprato la sua altissima carica, come
scrive nell'Inferno (XIX, 82-84) e nel Paradiso (XVII,
82 e XXX, 145-148), bollandolo come simoniaco e ingannatore. Era giunta
l'ora le Potestà della Chiesa e dell'Impero avrebbero potuto porre fine
alle lacerazioni dell'Italia e restituire agli esuli la loro legittima
patria.
Epistola VI Agli scelleratissimi Fiorentini
L'Epistola porta la data del 31 marzo 1311, scritta sulla fonte dell'Arno
sulle montagne del casentino, probabilmente dal castello di Porciano, nei
giorni in cui Arrigo stava per muovere il suo esercito contro Cremona e
Brescia.
"L'atteggiamento negativo dei Fiorentini nei confronti di Ludovico di
Savoia nel luglio 1310, la loro assenza dall'omaggio reso a Losanna e poi
in Torino all'imperatore da poco giunto in Italia nell'ottobre dello
stesso anno, l'appoggio alla politica avve del re Roberto d'Angiò,
confortato anche dall'atteggiamento ambiguo e preoccupato del papa, le
opere di rafforzamento nelle difese della città e infine la decisione, nel
gennaio del 1311, di fare lega col re di Napoli, con Lucca, Siena, Perugia
e Bologna per resistere all'imperatore, costituiscono lo sfondo storico e
politico e gli eventi di cronaca immediata che hanno motivato l'epistola."
(Jacomuzzi) È una
lettera piena di una fierezza evidente già nell'intitolazione, in cui i
Fiorentini sono chiamati scelestissimi, cioè
scelleratissimi. Dopo
aver premesso che per il bene dell'umana società e convivenza civile è
necessaria l'autorità della monarchia (che noi storicamente chiamiamo
"Sacro Impero d'Occidente"), autorità che appartiene di diritto al Re dei
Romani e questo è comprovato sia dalle parole divine che dalla stessa
ragione in quanto cade nel disordine l'Italia quando la sede imperiale è
vacante, Dante, rivolgendosi ai Fiorentini, li rimprovera di essersi
ribellati contro l'autorità di Cesare. Dante pone quindi l'accento sul
piano teologico e sacro, rispetto a quello razionale e filosofico,
trattando del rapporto fra i popoli d'Italia e l'imperatore, chiarificando
le basi del potere politico regio e giustificando la missione
dell'imperatore in
Italia. Un concetto,
infine, è da mettere in evidenza, perchè è una considerazione importante e
classica, da far risalire addirittura a Socrate e Platone: il rispetto
delle leggi, scrive verso la fine del quinto paragrafo, non è servitù ma
"summa libertas", la massima libertà, perché la libertà non è altro che il
libero passaggio della volontà all'azione, passaggio facilitato proprio
dall'esistenza delle
leggi. Ventinove anni
dopo questa epistola e le rampogne di Dante agli scelleratissimi
Fiorentini, Arrigo VII di Lussemburgo moriva a Buonconvento, sui confini
della provincia senese, a cinquantanni d'età, senza che la sua comparsa
sotto Firenze avesse in qualche modo giovato alla causa dei
ghibellini.
Epistola VII Ad Arrigo VII
L'Epistola è
stata scritta il 17 aprile 1311 in Toscana presso le sorgenti dell'Arno,
che si trovano sul Monte Falterona, montagna dell'Appennino che divide il
Casentino dalla Romagna, per cui qualche critico ha ipotizzato che fosse
stata scritta dal castello di Porciano, che si trovava a 5 miglia dalle
sorgenti e era un possesso dei conti Guidi. L'imperatore si trovava ancora
in Milano in procinto di recarsi con l'esercito ad assediare Brescia, ed è
una delle tre ricordate da Giovanni Villani nella sua Cronica (la
prima non ci è percenuta): "e in tra·ll'altre fece tre nobili
pistole; l'una mandò al reggimento di Firenze dogliendosi del suo esilio
sanza colpa; l'altra mandò a lo 'mperadore Arrigo quand'era a l'assedio di
Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profetezzando; la terza a'
cardinali italiani, quand'era la vacazione dopo la morte di papa Chimento,
acciò che s'accordassono a eleggere papa italiano; tutte in latino con
alto dittato, e con eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono
molto commendate da' savi
intenditori."
"Essa ci appare non solo come l'ultima di quelle dedicate all'impresa
di Arrigo, ma anche la suprema, per ricchezza e concretezza tematica e per
altezza oratoria. La lettera è motivata da pecise circostanze storiche: la
lunga sosta in Lombardia dell'imperatore occupato a sedare le discordie
milanesi seguite alla cacciata dei guelfi Torriani per mano dei
Visconti ghibellini e già preoccupato delle ribellioni di altri comuni
minori (Lodi, Crema, Brescia, Bergamo, Mantova, Padova, Cremona). Scritta
due giorni prima che Arrigo lasci Milano per marciare su Cremona, essa
manifesta la lucidissima intuizione che altrove è il centro effettivo
della opposizione all'impresa imperiale, e precisamente nella lega che si
era stabilita tra re Roberto e altre città dell'Italia centrale, e fra
queste soprattutto Firenze, verso la quale l'imperatore deve muovere senza
indugi." (Jacomuzzi).
Nell'ottobre 1310 Arrigo discende in Italia e si ferma prima in Torino e
poi in Asti per comporre le discordie fra guelfi e ghibellini e sedare gli
odi di parte che duravano ormai da molti anni. Verso la fine di dicembre
si trasferisce in Milano, sempre cercando di metter pace, mandando un
Vicario laddove di persona non avrebbe potuto andare e mostrandosi mite e
benevolo. In Milano, nonostante qualche opposizione dei Torriani, fu
incoronato con la corona di ferro il giorno dell'Epifania del 1311,
ricevendo il giuramento di fedeltà (vassallaggio) di quasi tutte le città
italiane, tranne Genova, Firenze e Venezia. Credeva di aver
sostanzialmente pacificato l'Italia settentrionale, dopo aver mandato
Vicari a Como, Mantova Brescia e Piacenza, e in altre città meno
importanti, tranne a Verona che già si era mostrata fedele all'impero. Per
potersi assicurare la fedeltà della Lombardia decise di portare con sè nel
suo viaggio a Roma, un gruppo di rappresentanti dei Guelfi e dei
Ghibellini, venticinque per parte, nominati appositamente dal partito
avversario, e creando un Vicario generale per la Lombardia nella persona
del Conte di Savoia.
Le nomine generarono comunque dispute e accuse reciproche insieme alle
difficoltà per recuperare i soldi per pagare il Vicario generale, tanto
che le due parti, ghibellini capitanati dai Visconti e guelfi capitanati
dai Torriani cominciarono a nutrire sospetti reciproci. Cominciarono gli
scontri fra le due fazioni e i Torriani furono sconfitti e cacciati da
Milano, nella quale avevano fino a quel momento mantenuto un largo
predominio, e fu fatto in modo che mai più potessero rimettere piede nella
città. Questa cacciata
originò a sua volta un fuovco di ribellione, che esplose il 20 febbraio,
quando Mantova, Padova, Lodi, Crema, Bergamp, Brescia e Cremona
dichiararono di non voler più ubbidire all'autorità imperiale. Arrigo
rimase incerto, se dovesse procedere verso Firenze, e castigarla, e Roma
per prendere la corona imperiale, o prima castigare le città
ribelli. Su consiglio di Frate Gualdrano, rivolse le armi innanzitutto
contro Cremona, con le lamentele di tutti i ghibellini che aspettavano
l'imperatore in Toscana e speravano di rientrare in
Firenze. Mentre
l'imperatore era accampato sulle rive del Po, intento all'assedio, Dante,
impaziente per il tempo che si stava consumando inutilmente nell'attesa
scrisse questa lettera a nome anche degli altri fuorusciti toscani. In
essa in Poeta scrive che i suoi fedeli toscani si meravigliano del ritardo
della sua venuta e che la vittoria finale non poteva essere ottenuta
contro le città lombarde, ma contro la Toscana e Firenze, e che sarebbe
stato dannoso il differire ulteriormente l'assalto. La lettera si chiude
con un invito a rompere gli indugi, predicendogli un sicuro trionfo che
porterà la pace non solo alla Toscana, ma a tutta
l'Italia. La lettera,
scrive ancora Jacomuzzi, " è la più ricca e distesa nelle citazioni
classiche e scritturali, e per le seconde, la più ardita nella
caratterizzazione sacrale dell'imperatore; ma la sua originalità che preme
all'interno dei moduli della tradizione retorica, sta nella compresenza di
una attenzione concreta ai dati particolari della situazione."
Epistola VIII
La lettera, che non
è esplicitamente attribuita a Dante, è contenuta nel
Vaticano-Palatino 1729, uno dei codici che, come afferma il
Fraticelli, Massimiliano di Baviera donò a papa Gregorio XV. Il codice
contiene, insieme al De Monarchia e alle dodici egloghe di
Petrarca, nove epistole di Dante, tra le quali quelle comunemente
contrassegnate coi numeri VIII-IX-X, ed occupano il posto il posto tra la
lettera che viene indicata nelle varie raccolte raccolte a stampa col
numero VI (Epistola ai fiorentini) e quella che verrà indicata col n. II
(Epistola ai conti Guido e Oberto da Romena). Non tutti sono d'accordo
nell'attribuire queste tre epistole a Dante, perché manca qualsiasi logico
riferimento a una loro autentica composizione di mano del Poeta; ma
ciononostante, il fatto che fossero state trascritte tra le epistole di
Dante, le convergenze con altri luoghi danteschi, l'atteggiamento nei
confronti dell'Impero e che Dante conosceva Caterina di Battifolle, della
quale era stato anche ospite ben accolto, fa propendere molti critici a
pensare che Dante le avesse scritte a nome della
contessa. Scrive il Fraticelli, fra
coloro che negano l'attribuzione a Dante: "Le tre lettere appartengono
alla contessa Caterina di Battifolle, moglie del conte Guido Salvatico,
signore di Poppi. Perciocché queste si veggono unite nel codice Vaticano a
sei di Dante, suppose il Torri, e supposero altri, che fossero alla
contessa state dettate da Dante, quasi come di lei segretario. Ma volendo
pur dare a questa ardita ipotesi il valore d'un fatto vero o reale,
consegue forse che le tre lettere all'Alighieri appartengano? Qual
relazione a Dante possano avere le proteste di fede e augurii di felicità,
che la contessa Caterina fa a Margherita di Brabante, moglie d'Arrigo VII?
E quelle lettere contengon elle almeno una qualche notizia storica
d'importanza, sì che, illustrando i tempi di Dante, non demeritino di far
corredo agli scritti di lui; quando, secondochè dice lo stesso Torri,
Caterina non fa in esse che ringraziare la cortesia della imperatrice, e
darle nuove di sè e della sua famiglia? Con ragione io credo adunque di
poterle escludere dall'epistolario di
Dante." Sul piano storico le
lettere confermano la permanenza di Dante nel castello di Poppi, nel
Casentino, nel feudo dei Conti Guidi, al confine del territorio fiorentino
in un momento in cui l'impresa di Arrigo VII avrebbe potuto veramente
decidere i destini da una parte dell'Italia divisa e disordinata dagli
appetiti di molti e dall'altra dei fuorusciti ghibellini
fiorentini. L'epistola fu scritta
presumibilmente tra l'estate 1310 (v. Fraticelli) e l'aprile del 1311 (v.
Jacomuzzi), in concomitanza con la prima fase settentrionale della discesa
di Arrigo VII di Lussemburgo in Italia, mentre gli emissari
dell'imperatore visitavano le varie importanti città dell'Italia
settentrionale per guadagnare alla causa imperiale gli indecisi e per
incoraggiare gli altri che già erano fedeli. La lettera contiene grandi
ringraziamenti da parte di Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte
Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei
Conti Guidi, per la particolare prova d'affetto che l'imperatrice
Margherita di Brabante (che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14
dicembre 1311) ha voluto darle mandandole notizie di se stessa e del
marito e augurandole che l'Impero possa essere restaurato dalle gloriose
imprese del Principe Enrico in un'epoca che si presenta delirante.
Epistola IX
(per la parte
generale vedi l'introduzione alla lettera
VIII) Questa
seconda lettera esprime quanto Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte
Ugolino della Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei
Conti Guidi, prenda parte alla gioia dell'imperatrice Margherita di
Brabante (che morirà a Genova, dove verrà sepolta il 14 dicembre 1311)
consorte di Arrigo VII di Lussemburgo per i felici avvenimenti che le
aveva comunicato per lettera, forse quelli di Asti del novembre 1310 (che
porterebbero a una approssimativa datazione di questa lettera al periodo
prenatalizio di quello stesso anno, secondo il Fraticelli), oppure alla
pacificazione di Lodi conseguita dall'imperatore dopo la sua partenza da
Milano del 19 aprile e ai progressi della sua azione contro Cremona. Noi
propendiamo per l'ipotesi Fraticelli, perché il 17 aprile Dante aveva
scritto all'imperatore una lettera addirittura furente in qualche punto,
invitandolo a rompere gli indugi, a non perdere tempo in Lombardia, perché
il male da estirpare si trovava in Toscana.
Epistola X
(per la parte
generale vedi l'introduzione all'Epistola
VIII) Questa terza lettera,
scritta da Gherardesca di Donoratico, figlia del Conte Ugolino della
Gherardesca e moglie di Guido Simone di Battifolle, dei Conti Guidi,
all'imperatrice Margherita di Brabante (che morirà a Genova, dove verrà
sepolta il 14 dicembre 1311), è l'unica datata: scritta a Poppi, val
d'Arno superiore il 18 maggio 1311, e "contiene nuove proteste di
congratulazione; alle quali sull'espressa domanda dell'imperatrice ella
aggiunge alcune parole sullo stato di sua salute, di quella del suo
marito, e de' figli (Fraticelli).
Epistola XI Ai cardinali italiani
Dopo la
morte di Clemente V, 24 cardinali si radunarono in conclave a Carpentras,
cittadina della Provenza, sei italiani e 18 francesi o devoti alla parte
francese; i primi volevano un papa italiano che riportasse la sede
pontificia in Roma, por porre fine ai mali che laceravano la Chiesa e
l'Italia, ma troppo forte era il partito francese, da cui già era uscito
il precedente papa, per lasciarsi sfuggire una elezione che ritenevano
molto importante.
Dante scriva quindi questa lettera, indirizzata ai cardinali italiani che
già stavano partecipando al conclave, affermando il suo attaccamento alla
religione cattolica e il suo profondo dolore nel vedere Roma e la sede
pontificia abbandonata e deserta e il diffondersi della piaga delle
eresie, fino a rimproverare aspramente i prelati a non condurre il gregge
dei fedeli a Cristo per false vie e a non far mercato delle cose sacre.
Infine volge la parola ai cardinali Napoleone Orsini e Francesco Gaetani
(gli altri quattro erano Iacopo e Pietro Colonna, Guglielmo Longo e
Niccolò da Prato) per esortarli a tener presente la misera Roma sola e
vedova delle sue due luci, il papa e l'imperatore. Ma vani furono i voti
di Dante e gli sforzi dei cardinali italiani, perché troppo potente e
prepotente era il partito dei Guasconi, reso più forte dall'ambizione del
re di Francia.
L'asprezza di Dante è giustificata dallo svolgersi degli eventi: già il
papa guascone Clemente V, così riportano concordemente gli storici
dell'epoca, era stato eletto con "uno sconvenevole e vergognoso accordo"
con Filippo IV il Bello (il Continuatore del Baronio, Giovanni Villani,
Martino Polono, lo stesso biografo del pontefice); nel corso del suo
pontificato la Chiesa, afferma lo stesso Napoleone Orsini che partecipò al
conclave per eleggere il successore, cade in una estrema rovina, spogliata
e confusa, tutta l'Italia lasciata sola e abbandonata, porta la sede
papale in un angolo lontano della Guascogna e queste cose le aveva
concepite sin dai primi momenti del suo
pontificato. Durante
il conclave i cardinali italiani appoggiarono l'elezione di Guglielmo
vescovo di Preneste, di conosciuta onestà, che avrebbe portato a
Roma la sede papale: ma difficile era raggiungere un accordo. Il 14
luglio, i cardinali francesi, appoggiati da bande guasconi guidate da
Bertrand de Born, nipote del defunto pontefice Clemente V, irruppero colle
spade in mano nel conclave minacciando i cardinali italiani che furono
costretti a sgombrare il salone e a fuggire. Dopo due anni di trattative,
le due fazioni tornarono a riunirsi, senza che Luigi X, primogenito di
Filippo il Bello e suo successore al trono, riuscisse a metterle
d'accordo. Ma il 28 giugno 1316 Filippo V, fratello di Filippo IV,
succedutogli nel frattempo aul trono, si impose con la forza e rinchiuse i
cardinali presenti a Lione nel convento dei Domenicani: il 7 agosto venne
nominato il nuovo papa , il guascone Jacques-Arnaud d'Euse, nativo di
Cahors che assunse il nome di Giovanni XXII, che fissò la sua residenza ad
Avignone di cui era vescovo.
Epistola XII All'amico fiorentino
L'abate Mehus studiando il manoscritto della Biblioteca
Laurenziana contrassegnato come VIII, Plut. XXIX, capì
che la lettera era di Dante, e
di questa sua scoperta fece partecipe il Canonico Dionisi, che se ne valse
subito pubblicando la lettera nel quinto Libro dei suoi Aneddoti (Verona
1790). Anche il Foscolo la stampò nel suo volume di Saggi sul Petrarca; la prima edizione che
può definirsi criticamente corretta è ad opera dello studioso Witte nel
1827. L'Epistola fu scritta nel maggio 1315 (secondo
Jacomuzzi, Dionisi nella sua Vita di
Dante e altri) e indirizzata a un amico, che Dante chiama due
volte "pater" che, insieme al richiamo a un comune nipote, fa pensare a un
rapporto di parentela e allo status di religioso dell'amico-parente. Il
nipote potrebbe essere Niccolò di Fusino di Manetto Donati, figlio di un
fratello di Gemma, del quale si ha notizia che partecipò, nel tempo
appunto di questa lettera, alla battaglia di Montecatini (29 agosto 1315)
e che fu in stretta relazione con la famiglia di Dante, restando al fianco
dei suoi figli. Il 19 maggio
1315 il Comune di Firenze approvò un'amnistia a tutti gli esiliati, e
questa volta senza limitazioni (dalla precedente, infatti, Dante era stato
volutamente e dichiaratamente escluso), che sarebbero rientrati in
Firenze, o liberati dal carcere, il 24 di giugno, in occasione della festa
del Patrono della città. La cerimonia per gli amnistiati prevedeva che
partendo dal carcere, avrebbero dovuto percorrere il tragitto in
processione a piedi scalzi, vestiti d'un sacco, con una mitra di carta con
sopra scritto il nome e il reato dei malfattori in capo, un cero acceso in
una mano e una borsa con danaro nell'altra, fino al Battistero, al "bel
San San Giovanni", dove venivano offerti in stato di pentimento all'altare
e al santo della città. Compiuto questo rito sarebbero stati reintegrati
nei loro beni e in ogni loro altro diritto. Se si trattava di fuorusciti
politici che, al momento del provvedimento non erano in carcere, l'oblatio
consisteva nel toccare simbolicamente col piede la soglia del carcere e
quindi presentarsi al tempio, senza l'umiliazione della mitra né altre
condizioni degradanti.
Secondo Altri (Foscolo, Fraticelli) l'epistola fu scritta alla fine di
dicembre del 1316 o, più verosimilmente, al principio di gennaio del 1317
(che per i fiorentini era ancora il 1316 in quanto il loro anno cominciava
il 25 marzo). Queste date sono state ricostruite dal Fraticelli attraverso
i documenti conservati nell'Archivio delle Riformagioni, che nel 1316
riporta tre provisioni o stanziamenti per riammettere in
città ribelli e banditi: - 2 giugno - Libro n. 15,
classe 2, Dist. 2, pag. 181; - 3 settembre -
Libro n. 16, classe 2, Dist. 2, pag. 10; - 11
dicembre - Libro 16, classe 2, Dist. 2, pag. 36. Proprio a quest'ultimo
provvedimento si riferisce il
Fraticelli Nel 1316,
caduto in basso Uguccione della Faggiuola, che fino a quel momento era
stato il principale sostenitore dei ghibellini, i fiorentini nel mese di
ottobre, elessero il conte Guido da Battifolle all'ufficio di Potestà,
rimuovendo dall'incarico il feroce Lando da Gubbio, e due mesi dopo a
tutti i fuorusciti e banditi dalla città di poter rientrare a certe
condizioni in Firenze, con una solenne cerimonia che si sarebbe dovuta
tenere, come abbiamo visto, il 24 giugno, giorno di San
Giovanni. Ma le
condizioni del ritorno erano per Dante troppo umilianti e gravose
(avrebbe dovuto pagare anche una certa quantità di denaro. Con sdegno
rifiuta l'umiliante proposta: mai avrebbe accettato di stare a fianco di
malfattori, come Ciolo degli Abati, che, condannato nel 1291, era stato
poi assolto proprio mediante una amnistia. Come Dante si trovava tra gli
esuli contumaci, anche lui escluso dalla riforma di Messer Baldo
d'Aguglione del settembre
1311. All'amico
risponde con questa lettera, dichiarandosi pronto a rientrare, ma con
tutto il rispetto dovuto alla sua innocenza conclamata e a tutti manifesta
e al suo lavoro, per il quale in esilio non gli manca il pane e può
continuare i suoi studi, a cercare le dolcissime verità.
Epistola XIII A Cangrande
L'opinione generale vuole che Dante si trovasse a Verona, alla corte di
Can Grande della Scala, verso la fine del 1316 o all'inizio dell'anno
seguente, quando Uguccione della Faggiuola, capo riconosciuto e
sostenitore dei ghibellini toscani, perduta la signoria di Pisa e di
Lucca, riparò alla corte di Verona, ricevendo da Can Grande l'invito a
prendere il comando delle sue
truppe. La lettera,
considerata come l'introduzione alla terza cantica della
Commedia, contiene l'esposizione del primo canto del
Paradiso, che Dante, possiamo arguire, aveva appena cominciato a
scrivere e che dedicava allo Scaligero. Di essa abbiamo una tradizione
manoscritta indubbiamente più ricca di tutte le altre lettere e frequenti
testimonianze nei commenti più antichi (Jacopo della Lana, l'Ottimo, Guido
da Pisa, Giovanni Boccaccio nel suo commento del 1373, Filippo Villani
che, adempiendo nel 1391 all'ufficio di pubblico lettore della
Commedia, cominciò la sua esposizione appunto con questa lettera,
che egli chiama introduzione sopra il primo canto del Paradiso,
citandone testialmente le
parole). La lettera,
scrive Jacomuzzi, "si presenta distinta in due parti: -
la prima dal primo paragrafo a quasi tutto il quarto
(fino alle parole «itaque, formula consumata epistole»), si
configura come una lettera dedicatoria nella quale l'autore, dopo aver
tessuto l'elogio di cangrande, e manifestato la propria gratitudine, offre
la dedica della terza cantica della Commedia, «que decoratur
titulo Paradisi», al signore scaligero, come il dono più degno e
conveniente a contraccambiare e conservare la sua amicizia;
- la seconda è condotta come un compendioso trattato introduttivo al
Paradiso, illustrato negli elementi - soggetto,
forma e titolo - nei quali la cantica differisce dal
poema nella sua totalità e in quelli - autori, fine e
genere di filosofia - che essa ha in comune col tutto; conclude
questa parte un commento particolareggiato al prologo della cantica, che
bruscamente viene interrotto e rinviato per le difficoltà materiali che in
quel momento opprimevano il
Poeta." La seconda
parte, indubbiamente, è la più importante, perchè la sua opera è di natura
polisensa, racchiudendo più sensi: 1 - il
letterale, che è quello che si ottiene alla
semplice lettura e si identifica col senso storico; tutto il racconto
della Commedia si propone come evento reale, e quindi storico; 2
- l'allegorico, (allegoria deriva da
'alloios', una parola greca che significa 'diverso') che racchiude il
significato nascosto nel significato letterale e diverso da
questo, che può essere riassunto nella nostra redenzione operata da
Cristo; e questo racchiude due ulteriori
significati: 2-a - il
significato morale, che porta a comprendere la conversione
dell'anima dal pianto e dalla miseria del peccato allo stato di
grazia; 2-b - il significato
anagogico, che porta a comprendere, nei fatti e nei personaggi
narrati, il passaggio dell'anima santa dalla schiavitù della corruzione
contingente dell'esistenza alla libertà dell'anima nell'eternba gloria
della Salvezza.
Dante passa quindi a trattare la spiegazione del titolo della sua opera,
del significato di Commedia distinguendolo da quello di
Tragedia, che differiscono sia per per le cose trattate (i
contenuti) che per il modo in cui sono trattate (la lingua), e infine
tratta la spiegazione del
soggetto.
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