LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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DANTE





Dante: autore e personaggio


Autore e personaggio

Per poter fare un qualsiasi discorso interpretativo sulla Divina Commedia,è indispensabile anzitutto chiarire alcune questioni.

La Prima è questa: Dante va, di volta in volta, distinto in tre ruoli specifici: quello dell'autore, quello del narratore e quello del personaggio. Come "autore" è colui che scrive l'opera; come "narratore" è colui che racconta all'autore gli eventi che costituIscono la trama dell'opera; come "personaggio" è il protagonista degli eventi stessi. Naturalmente la sequenza autore-narratore-Personaggio, valida per il lettore che si avvicina alla Divina Commedia e scopre nell'autore il narratore e nel narratore il personaggio, si ribalta totalmente per Dante,il quale, da "protagonista" di una "visione", si fa prima "narratore" della stessa" e, quindi, "autore" di un'opera che quella visione racconta. Un esempio: il personaggio Dante, a trentacinque anni di età, si smarrì in una selva oscura; il narratore Dante confessa l'episodio; l'autore versifica: "Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura". Come si vede chiaramente l' "autore" traduce in versi il racconto del "narratore" che, ovviamente,usa il verbo al passato ("mi ritrovai") per distinguersi dal "personaggio". A sua volta l' "autore", quasi a voler sottolineare il distacco da entrambi (cioè dal narratore e dal personaggio) ed a voler affermare il suo diritto ad esprimere giudizi sul significato morale ed anagogico della vicenda narrata, dice "di nostra vita" col chiaro intento di coinvolgere, fin dalle prime battute, nell'esperienza del personaggio l'intera umanità.

Però se i ruoli del personaggio, del narratore e dell'autore vanno distinti, non si deve tuttavia pretendere che essi non si confondano o sovrappongano, trattandosi pur sempre della stessa persona, cioè di Dante. Per esempio,nella terzina successiva, autore e narratore si confondono ("Ahi quanto a dir qual era è cosa dura"), mentre subito dopo autore e personaggio si distinguono l'uno dall'altro alternandosi: "ma per trattar del ben (qui c'è l'autore) ch'io vi trovai (qui c'è il personaggio), dirò de l'altre cose (autore) ch' i' v'ho scorte (personaggio). Io non so ben ridir (autore) com' i' v'entrai (personaggio)".

La seconda questione da chiarire è quella dei "sensi" da atribuire alla scrittura per interpretare compiutamente l'opera.

Come si sa,fin dai primi secoli del Medioevo, era invalso l'uso di interpretare i Sacri testi (Antico e Nuovo testamento) risalendo dal senso letterale a quello allegorico, a quello morale ed a quello anagogico. Verso la fine del Medioevo tale metodo interpretativo fu esteso anche alle opere letterarie e, in particolare,a quelle poetiche. Lo dice lo stesso Dante nel "Convivio", chiarendo anche il valore e le caratteristiche dei quattro sensi: quello "letterale" si ricava dalle parole pure e semplici usate dall'autore per narrare un episodio (Dante, perdutosi in una selva oscura, ai primi raggi del sole scopre un colle che potrebbe costituite per lui la strada della salvezza, ma è impedito nell'ascesa da tre fiere che lo risospingono in basso); quello "allegorico" bisogna intuirlo dal letterale (ad esempio, la selva oscura rappresenta il peccato, il Sole la Grazia Divina illuminante che indica la via della redenzione, il colle indica la via del riscatto dal peccato, le tre fiere - lonza, leone e lupa - rispettivamente i tre vizi capitali che ostacolano il cammino dell'uomo peccatore verso il bene, e cioè la lussuria, la superbia e l'avarizia); quello "morale" si ricava poi dal senso allegorico: nell'episodio riferito sarebbe che l'uomo caduto nel peccato mortale non può, con la sola forza della volontà, riscattarsi, anche se la Grazia Divina gli indica la strada, ma ha bisogno di ricorrere alla Ragione umana (Virgilio),la quale tuttavia, se vale a far superare l'ostacolo rappresentato dai vizi capitali, nemmeno potrebbe condurre alla salvezza eterna, cioè al Paradiso,senza la Fede (Beatrice).

Più ardua è la definizione del senso "anagogico",per quanto riguarda l'interpretazione della Divina Commedia, perché lo stesso Dante, sempre nel "Convivio", sembra riservarlo alle sole Scritture. Infatti egli porta l'esempio del popolo d'Israele che, guidato da Mosè, si libera dalla schiavitù egiziana attraversando il Mar Rosso, e interpreta l'episodio narrato nella Bibbia come simbolico del popolo dei credenti che, guidato dal Cristo, si libera dalla schiavitù del paganesimo. C'è però da dire che nell' Epistola a Cangrande il Poeta riconosce che comunque il senso anagogico è possibile riscontrarlo in tutte le opere che trattano di cose riguardanti l'eternità, il mondo dell' aldilà, e quindi anche nella "Commedia". Ma per poter estendere il senso "anagogico" alla interpretazione della Divina Commedia, bisogna far ricorso alla proposta dell'Auerbach. Questi, riferendosi al metodo dell'esegesi biblica medievale, afferma che i primi teologi cattolici consideravano i fatti della vita terrena narrati nel Vecchio Testamento come "figure" di una realtà più solida ed eterna, quella rivelata nel Nuovo testamento. Con questo procedimento un avvenimento o un personaggio storico vengono proiettati verso l'eternità, là dove si realizza il disegno divino, e perciò sono "figura" reale di una realtà ancor più vera. Insomma, come afferma il Pasquazi, l'interpretazione figurale proposta dall' Auerbach "vede la realtà terrena e la realtà eterna come due momenti di cui il primo significa anche l'altro, mentre l'altro comprende e adempie il primo". Infatti l'Auerbach così spiega il significato anagogico della Commedia: essa "è la storia dell'evoluzione e della salvezza d'un uomo singolo, di Dante, e come tale una figurazione della salvezza dell'umanità". Anche Umberto Bosco concorda con la tesi dell' Auerbach quando afferma che la legge generale della Commedia consiste nell' "assunzione del personale a valore universale".

Tuttavia,nel leggere e nello studiare la Divina Commedia, non dobbiamo mai dimenticarci che essa è essenzialmente un'opera di altissima poesia. Tutto il discorso fatto prima ci aiuta a penetrare nel significato morale dell'opera,in un certo senso ad assecondare la volontà dello stesso Dante che, appunto, nella Commedia intendeva dare un contributo al riscatto dell'umanità dal peccato. Ma, al di là delle intenzioni, il poeta ha prevalso sul moralista. Come afferma giustamente il De Sanctis, "Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva". Infatti la Commedia appare al critico Irpino "il Medio Evo realizzato, come arte, malgrado l'autore e malgrado i contemporanei". Questo giudizio basta da solo a spiegarci come sia possibile,in un poema che si propone di esaltare la beatitudine eterna e di indicare la strada del riscatto e della purificazione dal peccato, dalla carne, dalla storia, dalla vita terrena, trovarvi tanto peccato, tanta carne, tanta storia descritti con un linguaggio crudo e finanche "ripugnante" (come osservò il Goethe). A tal proposito l'Auerbach cita un verso, apparentemente volgare, che compare in uno dei passi più "solenni" del "Paradiso", e cioè: "e lascia pur grattar dov'è la rogna", ma il critico ha precedentemente precisato che "Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente; cose che in sé non potevano venir considerate "sublimi" nel senso antico, lo diventano con lui per la prima volta". Proprio da ciò l'Auerbach nota l'enorme distanza che intercorre tra Virgilio (classico) e Dante (moderno). E, rifacendosi ad un giudizio di Benvenuto da Imola, afferma che la Divina Commedia contiene ogni sorta di poesia ed ogni sorta di scienza, ed anche se l'autore l'ha definita "Commedia" per lo stile umile e la lingua popolare, essa tuttavia appartiene al genere di poesia "sublime e grandioso".

 
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