Paradiso: canto
XIX
Davanti a me si mostrava con le ali aperte la bella figura dell’aquila che era formata dalle anime riunite insieme, liete nel godimento della loro beatitudine:
ogni anima sembrava un piccolo rubino nel quale risplendesse un raggio di sole così vivo, da riflettere nei miei occhi il sole stesso.
Difficilmente il lettore potrà dimenticare l'esordio del canto XIX, la sua profonda drammaticità ( da una parte il Poeta,
per
il quale il concetto e il sentimento della giustizia sono gli elementi propulsori del suo spirito e della sua opera, dall'altra l'immagine vivente di quella giustizia che egli invano cercava sulla terra ) e il suo vigore plastico (le ali aperte
dell'aquila, che suggeriscono un volume e uno spazio immensi) subito tradotto in termini affettivi ( la bella image, davanti alla quale il Poeta si perde in contemplazione come di fronte alle corone dei sapienti o alla croce luminosa dei martiri ) . Ora che lo sguardo non è più distratto dal movimento delle anime che si dispongono a formare l'aquila e l'animo non è più preoccupato dal cimento poetico (canto XVIII, versi 82-87), ora che l'impeto polemico, precipitato nei versi finali del canto precedente in un tono plebeo, si è momentaneamente placato, il rito dell'aquila acquista piena vita poetica. Si libera da ogni schematismo, da ogni astratta rispondenza al simbolo, da ogni precisione troppo sottile nei particolari, elementi che, nel canto precedente, incidevano negativamente, dando l'impressione di una costruzione forzata. L'aquila splende serena, distendendo le sue ali a protezione e dominio su tutto il cielo di Giove, brillando del colore fulgente dei rubini (e non si dimentichi il gusto, schiettamente romanico, della contrapposizione di colori forti e diversi: la croce bianchissima nella luce rosseggiante del cielo di Marte, I'aquila fulva nell'argenteo temperato del cielo di Giove) e della carità concorde dei beati, che incominciano a parlare come una persona sola. Infatti la giustizia "in qualunque luogo o tempo, chiunque sia la persona che la eserciti sulla terra, è una sola, come una è la volontà di Dio, in cui essa consiste e a cui essa si conforma; e da questa unità discende naturalmente la concordia assoluta, la perfetta unità, anzi identità, nello spirito e nella forma, di tutti coloro che sono chiamati a giudicar la terra: sicché una sola è la voce della giustizia, quanti che siano coloro che la pronunziano" (Chimenz) .
E quello che ora devo raccontare, non fu mai detto, né scritto, né concepito da alcuna fantasia,
perché io vidi e anche udii il becco dell’aquila parlare, e dire con la sua voce “ io ” e “ mio ”, mentre logicamente avrebbe dovuto dire “ noi ” e “ nostro ”.
E l’aquila cominciò: “ Per aver esercitato (sulla terra) giustizia e pietà io sono qui innalzata alla gloria celeste che supera (non si lascia vincere) ogni umano desiderio;
e sulla terra lasciai una tale memoria di me, che perfino le genti malvage del mondo sono costrette a lodarla, anche se non imitano le opere da me compiute (la storia)”.
Parlano, ad una sola voce, i grandi uomini dell'Impero, per affermare di essersi ispirati, nella loro attività terrena, alla giustizia e alla carità, le due vie attraverso le quali opera Dio (Paradiso VII, 103-105) e quindi opera l'1mpero, da Dio stabilito nel mondo ( cfr. Monarchia 1, Xl, 13-14; Epistola V, 7). La giustizia vera, dunque, è inseparabile dall'amore: si ripete, nell'affermazione alta e squillante dell'aquila (per esser giusto e pio ), il senso di esultante scoperta e di fervido approdo che il Poeta ha sperimentato all'apparire dell'aquila (o dolce stella, quali e quante gemme...). Lì Dante aveva trovato, in uno splendore di rivelazione, la certezza che la giustizia divina è l'unica vera fonte di ogni giustizia umana, qui prende coscienza che questa giustizia è anche amore: " Il pellegrino... ritrova ora un senso assai più alto della giustizia di quello per cui aveva tanto combattuto nel mondo. E' per lui un sollevarsi dalla parzialità e dagli errori del mondo a una visione assai più alta e luminosa" (Montano).
A completamento e approfondimento di quanto' il Poeta è venuto affermando, l'aquila spiegherà che la giustizia vera è quella per la quale l'uomo si sottomette a Dio. conformandosi alla volontà divina, anche là dove questa volontà appare simile al fondo inconoscibile di un grande mare (versi 58-63). Anche se il comandamento della giustizia è rivolto ai reggitori della terra, il concetto di giustizia del cielo di Giove va ben oltre il campo dei semplici valori politici o della virtù civica di cui avevano parlato Aristotile e tutto il mondo classico, Non si tratta più di stabilire la condotta del giusto mezzo secondo natura e secondo ragione, ma di instaurare un rapporto personale fra l'uomo e Dio, in base al quale la creatura accetta come giusto solo ciò che viene da Lui, perché il resto è tenebra, od ombra della carne, o suo veleno (versi 65-66).
Come da molti carboni accesi proviene un unico calore, così ora da parte di molti spiriti ardenti di carità usciva un’unica voce dalla figura dell’aquila.
Perciò io subito dopo dissi: “ O fiori immortali della gioia eterna, che mi fate sembrare una sola tutte le vostre voci, allo stesso modo in cui da molti fiori emana un unico profumo,
L'invocazione alle anime giuste si apre con un'immagine nella quale il particolare concreto (fiori) si fonde, con naturalezza, all'espressione del sentimento (letizia), mentre tutto viene sollevato e avvolto nell'ombra di un tempo infinito ( perpetui... etterna): ogni immagine, ogni similitudine del Paradiso è sostanziata di contenuto teologico, perché da ogni aspetto della realtà terrena s'irradia tutta un'allusione alla realtà interiore e "la poesia e in questo vibrare di allusioni, in questa segreta e pur evidente teologia" (Getto). E' il rifiuto della posizione del De Sanctis (solo il "profondo sentimento della natura terrestre" salva la terza cantica dalla monotonia ) e del Croce ( sono degne di essere ricordate, del Paradiso, solo "alcune particolari visioni di bellezza e di lietezza, i paesaggi fantastici o i lembi di paesaggi fantastici"; la poesia più schietta non è nella descrizione degli spettacoli paradisiaci, bensì nelle "comparazioni con cui vuole illustrarli, e nelle quali divaga e si compiace, formandone, più ancora che nelle altre cantiche, piccole liriche perfettissime" ).
scioglietemi, parlando, il grave dubbio che da lungo tempo mi tormenta, non trovando per esso sulla terra alcuna soluzione soddisfacente.
Io so bene che se la giustizia divina in cielo si specchia direttamente in un altro ordine di intelligenze, tuttavia anche (nella vostra sfera) si manifesta senza essere offuscata da alcun velo.
Dante ripete un concetto già esposto nel canto IX (versi 61-63): Dio riflette la sua giustizia sulla gerarchia angelica dei Troni, che, a sua volta, la trasmette a tutti i beati.
Voi sapete come mi preparo ad ascoltarvi con attenzione; voi sapete qual è il dubbio che costituisce per me un tormento così antico ”.
Come il falcone che viene liberato dal cappuccio, alza il capo e muove festoso le ali, dimostrando il desiderio (di alzarsi in volo) e aggiustandosi le penne col becco,
così vidi atteggiarsi l’aquila , che era formata di anime che lodavano la grazia divina, con canti che conosce solo chi è beato lassù.
Il Poeta rappresenta il falcone nel momento in cui, prima di essere lanciato nella caccia, viene liberato dal cappuccio di cuoio con il quale gli si coprivano gli occhi perché rimanesse tranquillo (un uso, questo, introdotto da Federico II, che lo descrive nel suo De arte venandi cum avibus). In questa similitudine il Mattalia osserva "il mover del capo a osservare e insieme a liberarsi dell'impressione di carcere o compressione lasciatagli dal cappuccio; il " plaudersi " con le ali, quasi a prova e in un moto di compiaciuto orgoglio; il mostrar voglia, desiderio, il fremito delI'istinto che lo spinge al volo e alla preda; e il farsi bello, il profilarsi nella sua elegante sagoma di creatura nata al volo e vibrante di predare forza". Ma al di là di questi preziosi particolari occorre cogliere il rapporto che lega la similitudine alla cosa o persona significata. La concretezza e il rude realismo dell'immagine del falcone, avvicinata momentaneamente a quella delle anime beate per la stessa impetuosa manifestazione di gioia, si dissolvono nella seconda terzina, dove l'ispirazione è riportata sul piano paradisiaco dalla leggerezza di quel segno (non appare più la maestosità delle ali aperte),
dalI'effusiòne della divina grazia, dalla dolcezza dei canti. Il Guzzo ha giustamente notato che le similitudini del Paradiso lasciano l'impressione di essere come volatilizzate, per cui i fenomeni terreni evocati dal Poeta rappresentano il punto di partenza di un processo di spiritualizzazione e di purificazione che ascende dall'immagine terrena alla immagine paradisiaca. Per il critico è errato parlare, come ha fatto il De Sanctis, di "terra che presta immagini a rendere intelligibile il cielo; perché la terra stessa si è, man mano, sotto i ritocchi, volatilizzata in natura celeste, ed ora è cielo essa stessa". La tesi del Guzzo è esatta per quanto riguarda questo risultato di "impressione, ma non sono accettabili le ragioni su cui si fonda la sua critica, alle quali L. Russo ha obiettato che la ideale trasfigurazione che egli ritiene propria delle similitudini del Paradiso è invece sempre propria, e necessariamente, della poesia in quanto tale. Nelle similitudini del Paradiso (la conclusione è del Getto) non avviene solo una spiritualizzazione artistica, ma un vero e proprio processo di trasformazione, per cui "I'immagine si dissolve quasi nel contenuto teologico".
Poi comincio: “ Dio, colui che creando girò il compasso a tracciare gli estremi confini del mondo, e in questo dispose ordinatamente tante cose occulte e visibili,
non poté imprimere la sua infinita perfezione in tutto l’universo in modo tale, che l’idea della sua mente non restasse infinitamente superiore rispetto alle cose create.
Dio (I'immagine del Creatore che disegna i confini del mondo è di origine biblica; cfr. Proverbi VIII, 27-29 e Giobbe XXXVIII, 5-6) ha creato e impresso nel mondo un ordine geometrico secondo una legge di assoluta perfezione, ma il creato non possiede in atto tutta la perfezione, perché risulterebbe infinito (e due infiniti si escludono a vicenda ) . L'idea divina, dalla quale prende forma l'universo ( cfr Paradiso XIII, 52-57), non ha toccato il punto estremo della sua potenza: Dio, cioè, essendo infinito, non può realizzare totalmente se stesso nell'universo finito.
E ciò è confermato dal fatto che Lucifero, il quale fu la più alta creatura, per non aver atteso la luce della Grazia, precipitò imperfetto dal cielo:
La prova della limitatezza del creato di fronte all'immensità e alla perfezione di Dio è offerta dalla ribellione di Lucifero e dei suoi compagni. Dio, infatti, dopo aver creato gli angeli, fissò per loro un periodo di prova, superato il quale Egli avrebbe concesso loro una pienezza di conoscenza che li avrebbe resi consapevoli della loro imperfezione e quindi della necessità della loro dipendenza da Dio. Lucifero, non avendo voluto aspettare il lume della grazia divina, perse per sempre quella perfezione di conoscenza alla quale invece pervennero gli angeli rimasti fedeli (De Vulgari Eloquentia I, II, 3-5).
e di qui appare chiaro che ogni creatura inferiore (a Lucifero) è un vaso troppo piccolo per contenere Dio, il Bene infinito, il quale non può essere misurato se non con se stesso.
Dunque la nostra intelligenza, che deve essere un raggio riflesso della mente divina di cui sono piene tutte le cose,
non può, sua natura, essere tanto potente da non dovere riconoscere che la mente di Dio, suo principio, va molto al di là di quello che essa può vedere.
Perciò l’intelletto che voi mortali ricevete (dal Creatore), si può addentrare nella giustizia divina, come l’occhio può vedere nelle profondità del mare;
il quale occhio, benché dalla riva riesca a scorgere il fondo, non lo vede più quando si trova in alto mare; e tuttavia il fondo c’è, ma lo nasconde la sua profondità.
Non c’è (per l’intelletto umano) luce di verità, se non viene dalla luce eternamente serena (della mente divina); quella che non viene di là è ignoranza , o nozione offuscata dai sensi (della carne), o velenoso errore provocato da essi.
Adesso ti è possibile guardare nella segreta profondità che ti celava la giustizia del Dio vivente, per cui ti ponevi una domanda così frequentemente ripetuta;
poiché tu dicevi: “Un uomo nasce sulle rive del fiume Indo, e qui non c’è né chi parli né chi insegni né chi scriva di Cristo;
e tutti i suoi sentimenti e i suoi atti sono buoni, per quanto può giudicare la ragione umana, senza peccato nelle opere o nelle parole.
Costui muore senza battesimo e senza la fede: che giustizia è questa che lo condanna? dove sta la sua colpa, se egli non crede?”
Ora chi sei tu che vuoi salire sul seggio del giudice, per dare un giudizio su cose lontane da te mille miglia con la tua vista che non vede al di là di un palmo?
Certamente avrebbe motivo di dubitare colui che fa sottili ragionamenti riguardo al mistero della giustizia ( meco: l’aquila è simbolo della giustizia), se a guidarvi non ci fosse la Sacra Scrittura.
Oh uomini che vivete come bruti! oh ottuse menti umane! La volontà divina, che è buona per sua natura, non si allontana mai dal principio con il quale si identifica, il sommo Bene.
E’ giusto tutto quello che si conforma a lei: nessun bene creato può‘ attrarre a se la volontà divina, anzi proprio essa, irradiandosi, genera il bene creato ”.
Alla questione sollevata dalla vigorosa razionalità che è la caratteristica non solo degli interessi teoretici dell'Alighieri, ma anche del suo profondo sentimento religioso (come si può accordare all'idea della giustizia divina la dannazione eterna di coloro che senza colpa non conobbero Cristo, ma vissero secondo le leggi della morale naturale e quella dei bambini morti senza battesimo?), l'aquila risponde con gli stessi argomenti esposti da San Paolo nelle sue lettere (Epistola ai Romani IX, 14-32; Epistola ai Filippesi II, 13). Con la sua veduta corta d'una spanna non è lecito all'uomo misurare la giustizia divina: gli basti sapere che Dio è il Bene assoluto e che, quindi, tutto ciò che opera è buono. Secondo il Mattalia l'accettazione fideistica dell'imperscrutabilità delle divine deliberazioni, "non esclude né vale ad eliminare una oscura e quasi angosciosa resistenza della ragione e del sentimento morale", quella stessa che era presente "nell'angoscia di Dante e di Virgilio di fronte alla sorte delle grandi personalità del limbo (cfr. Inferno IV, 31-45), e nella marcata messa a punto fatta da Virgilio in Purgatorio VII, 25-36" Se esatto è il rilievo relativo allo stato d'animo iniziale del Poeta, il critico vede, nella conclusione della lezione teologica dell'aquila, un sentimento di angoscia che in realtà non esiste. Il contrasto, fierissimo, nell'animo di Dante tra dogma e sentimento, tra credente e uomo, di fronte alla condanna del mondo che non aveva conosciuto la fede, quel mondo di alta civiltà e di profonda cultura, al quale il Poeta sentiva di dovere molto, appare qui superato in virtù di una serena accettazione (che non esclude, tuttavia, la tristezza per quella condanna) della prima volontà, ch'è da se bona, della quale Piccarda aveva detto: è nostra pace. La similitudine del cicognino che chiude la prima parte della spiegazione, scolasticamente svolta, recupera una zona di dolcezza e di pace paradisiache con "uno di quegli umili motivi da paradiso francescano" (Momigliano). La serenità con la quale il Poeta conclude il quesito della predestinazione è ribadita dalla terzina seguente, nella quale, in linea con la posizione cristiana, si afferma che se la fede in Cristo è condizione essenziale per la salvezza, ma non salva là dove mancano le opere buone, la mancanza di fede in Cristo venturo o venuto non costituisce motivo insindacabile di dannazione dove non mancano le opere buone e le alte virtù morali e intellettuali. E' quanto il Poeta dimostrerà nel canto seguente.
Come la cicogna dopo aver nutrito i figli gira volando sopra il nido, e come il cicognino che si è pasciuto volge gli occhi verso di lei,
così fece la benedetta figura dell’aquila, che agitava le ali mosse dalle molteplici volontà concordi (degli spiriti da cui era formata), io (come il cicognino) alzai gli occhi a guardarla.
Girando intorno cantava, e diceva: “ Come riescono incomprensibili le parole del mio canto a te, che non sei capace d’intenderle, così è incomprensibile il giudizio divino a voi mortali ”.
Dopo che quelle luci, che erano fiamme di carità accese dallo Spiríto Santo, si fermarono sempre disposte nella figura dell’aquila che rese i Romani degni di riverenza davanti al mondo,
l’aquila riprese: “ In paradiso non salì mai nessuno che non avesse creduto in Cristo, sia prima sia dopo che egli fosse inchiodato sulla croce.
Ma considera questo: molti che gridano “Cristo, Cristo!”, nel giorno del giudizio finale saranno assai meno vicino a Lui del pagano che non lo ha conosciuto;
e (anche) un infedele etiope potrà condannare siffatti cristiani, quando (nel giorno del giudizio) si divideranno le due schiere (collegi, l’una destinata all’eterna ricchezza (del paradiso), e l’altra destinata all’eterna miseria (dell’inferno) .
Che cosa non potranno dire gli infedeli persiani ai vostri principi, quando vedranno aperto il libro nel quale sono registrate tutte le loro azioni spregevoli ?
Esaurita la lezione teologica, l'aquila ritorna all'argomento morale-politico con il quale già era terminato il canto precedente e lo chiude nelle forme aspre e apocalittiche della visione del giudizio finale. Un terribile dies irae si prepara per coloro che hanno gridato senza convinzione "Cristo, Cristo!" (cfr. per questa espressione iI passo evangelico di Matteo VII, 21) e per i regi le cui azioni sono degne di disprezzo. L'appassionata e pur sobria eloquenza dei versi 106-114 risolve in modo assolutamente concreto e determinato il gravissimo problema teologico che domina il canto, mentre nelle ultime nove terzine Dante racchiude il quadro dell'Europa traviata nello schema ferreo di un acrostico. Infatti le lettere iniziali dei tre gruppi di terzine L, V, E, formano la parola LVE (per V = U cfr. Purgatorio XII, nota alla terzina 61)': i cattivi reggitori d'Europa costituiscono la peste della cristianità.
In quel libro si vedrà scritta, tra le imprese dell’imperatore Alberto I, quella che presto indurrà la penna divina a registrarla, e a causa della quale sarà devastato il regno di Boemia con Praga, la sua capitale.
L'imperatore Alberto d'Asburgo (cfr. Purgatorio VI, 97 sgg.) invase e devasto il regno di Boemia, conquistandone la capitale, Praga, nel 1304 e togliendola a Venceslao IV, suo cognato.
In quel libro si vedrà il doloroso danno che, falsificando la moneta arrecherà alla Francia Filippo il Bello che morirà per il colpo di un cinghiale.
Il re di Francia, Filippo il Bello, per sostenere le spese della guerra contro la Fiandra coniò una nuova moneta, alla quale conservò il valore nominale dell'antica, pur abbassandone il titolo aureo (cfr. Villani - Cronaca VIII, 58). Il re, al quale Dante non risparmia le accuse più infamanti nella Commedia (cfr. Purgatorio XX, 91-93; XXXII, 152-160; XXXIII, 45), mori nel 1314 per un incidente di caccia, allorché fu trascinato in una rovinosa caduta dal cavallo contro il quale si era lanciato un cinghiale.
In quel libro si vedrà la superbia sitibonda di dominio, che acceca il re di Scozia e quello d’lnghilterra, in modo che nessuno dei due può sopportare di rimanere entro i propri confini.
Il Poeta allude in questa terzina alle lotte, per avidità di dominio, fra Edoardo II, re d'Inghilterra, e Roberto Bruce, re di Scozia.
Si vedranno la lussuria e la vita effeminata del re di Spagna e del re di Boemia, che mai seppe né mai volle sapere che cos’è la virtù.
Quel di Spagna è Ferdinando IV, re di Castiglia (1295-1312) e quel di Boomme Venceslao IV, re di Boemia (1270-1305).
Si vedranno segnate le opere dello Zoppo di Gerusalemme, le opere buone con una I, mentre quelle malvage con una M.
Nel libro della giustizia divina Carlo II
d'Angiò, lo Zoppo, re di Napoli (cfr. Purgatorio XX, 79-81), insignito del titolo di re di Gerusalemme, vedrà le proprie opere buone indicate con I, cioè " uno", e quelle malvage con M, cioè " mille".
"Le due lettere sono la prima e l'ultima della parola Jerusalem, che quasi certamente deve aver suggerito a Dante la bizzarra trovata del rapporto numerico tra i meriti e le colpe del Ciotto, anche in dispregio di quel vano titolo regale."
(Chimenz)
Si vedranno l’avarizia e la viltà di colui che regna sulla Sicilia, l’isola del fuoco etneo, dove Anchise terminò la sua lunga vita;
Quei che guarda l'isola del foco, la Sicilia, dove mori Anchise, padre di Enea (Virgilio, Enelde III, 707 sgg.), è Federico II d'Aragona (1272-1337), che Dante ha già ricordato nel Purgatorio (canto VII, verso 119).
e per far capire che uomo dappoco egli sia, la scrittura che lo riguarda sarà in parole abbreviate, che noteranno in poco spazio molte opere malvage.
E saranno visibili a ognuno le opere vergognose dello zio e del fratello di Federico, che hanno disonorato la così nobile stirpe degli Aragonesi e le due corone d’Aragona e di Sicilia.
Ignobili sono anche le azioni dello zio di Federico, Giacomo, re di Maiorca, e del fratello, Giacomo II, re di Sicilia e d'Aragona (cfr. Purgatorio VII, 119, 120) .
Barba, " zio ", è termine dialettale, in uso particolarmente nell'Italia settentrionale.
E lì si saprà chi furono il re di Portogallo e quello di Norvegia, e il re di Rascia, che per proprio danno conobbe la moneta veneziana.
Di Dionisio l'Agricola, re di Portogallo (1276-1325) e di Acone VII Gambalunga, re di Norvegia (1299-1319), Dante doveva possedere vaghe notizie. Quel di Rascia: Stefano Arosio II Milutino (1276-1321), re di Rascia, regione comprendente la Croazia e parte della Serbia e della Dalmazia. Nei grossi, moneta ufficiale del suo regno, riprodusse, alterandone la lega, il ducato, o matapan, d'argento veneziano.
Oh felice l’Ungheria se non si lascia più malmenare dai suoi re ( come nel passato)! e felice il regno di Navarra se si fa scudo dei Pirenei che lo circondano!
Mentre Dante scriveva questi versi era re d'Ungheria Carlo Roberto
d'Angiò (1301-1342), "signore di grande valore e prodezza" (Villani, Cronaca XII, 6), figlio di Carlo Martello (Paradiso V111, 46 sgg.).
I Pirenei non furono sufficienti al regno di Navarra per difendersi dalla egemonia francese. Infatti dopo la morte di Enrico I il regno fu governato dalla figlia Giovanna, che nel 1284 andò sposa a Filippo il Bello, re di Francia. Alla morte di lei ( 1304) salì sul trono di Navarra il figlio, Luigi X, che alla morte del padre, nel 1314, divenne anche re di Francia.
E ognuno sappia che ora, come saggio (di quello che accadrà all’Ungheria e alla Navarra), Nicosia e Famagosta si lamentano e gridano per la tirannia del loro re bestiale,
il quale non si scosta dall’esempio degli altri re, simili a bestie come lui.
Presto anche l'Ungheria e la Navarra soffriranno sotto il dominio francese le vessazioni che già sono costrette a subire Nicosia e Famagosta, le due città più importanti dell'isola di Cipro, sotto il governo di Arrigo II di Lusignano (1285-1324), principe di origine francese.
Anche se l'indagine storica potrebbe contestare la validità di alcune affermazioni del Poeta a proposito dei malvagi reggitori cristiani d'Europa, il quadro dantesco, "in virtù della sintesi, tocca l'essenza del problema politico e il punto programmatico di una visione della storia" (Fallani). L'lmpero vacante (tale esso era per Dante dal 1250, anno della morte di Federico II) e la politica della Chiesa, desiderosa di affermare la propria autorità anche in campo temporale, hanno provocato l'anarchia in tutta l'Europa favorendo, a danno della feudalità, l'ingrandirsi dei Comuni, la lotta fra città e città, nazione e nazione, e le mire espansionistiche della casa di Francia. Il Mattalia così conclude le sue precise osservazioni su questo canto: "La scritta formata dalle anime, si ricordi (cfr. Paradiso XVIII, 91-931, era indirizzata ai reggitori dei popoli, protagonisti e responsabili massimi della giustizia in terra. Insegna universale, nesso simbolico della diade Dio- Impero , superiore coscienza etica e speculativa, l'aquila rappresenta il problema della giustizia nella sua istanza più alta ed ampia, la sua giurisdizione estendendosi a tutta l'umanità: e perciostesso è la più alta corte di giustizia alla quale si possano chiamare al " redde rationem " i principi contemporanei, imperatori compresi .
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