LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto XVIII

Cacciaguida, specchiando in se divina luce beatificante, già godeva silenzioso del proprio pensiero, ed io assaporavo il mio, cercando di contemperare quello che mi era stato detto di doloroso con quello che mi era stato detto di gradevole.

Il verbo è inteso da Dante - secondo l'accezione aristotelica ripresa poi dalla Scolastica - nella sua precisa significazione di " pensiero ", di " concetto ", ed è qui fulcro sostanziale attorno al quale ruotano le figure di Dante e Cacciaguida, tutto calato, nella dimensione divina questo, ancora partecipe di soffribili sentimenti umani quello. Osserva il Momigliano: "... questa improvvisa astrazione segna mirabilmente la distanza fra Dante e il beato, tutto chiuso nel suo pensiero (verbo), cioè tutto assorto in Dio che egli rispecchia dentro di sé", e il Sapegno acutamente puntualizza che verbo qui "adoperato nella sua accezione meno comune e più strettamente tecnica, serve al Poeta per legare in un solo nesso sintattico, e al tempo stesso per distanziare e contrapporre, l'oggetto del pensiero del beato e il proprio".

E Beatrice, che mi guidava a Dio, mi disse. “ Lascia il pensiero dell’esilio: considera che io sono vicino a Dio (colui) che allevia ogni torto”.

Io mi volsi alle amorose parole della mia consolatrice; e qui rinuncio a descrivere la luce di carità che io allora vidi nei suoi santi occhi;

non solo perché diffido della capacità espressiva delle mie parole, ma anche perché la mia memoria non può ritornare tanto sopra se stessa (e ricordare), se Dio non la guida (con la sua Grazia).

Il contrasto con il significato della parola verbo, su cui si accentrano le precedenti terzine, rende più evidente il valore musicale di quell'amoroso sono con cui Dante sublima la figura di Beatrice. "Al contrario del verbo di Cacciaguida, quello di Beatrice " suona ", si fa parola e discorso." (Mattalia)

Di quel momento posso ricordare solo che, fissandola, il mio cuore fu libero da ogni altro desiderio,

mentre l’eterna bellezza di Dio, che raggiava direttamente in Beatrice, mi appagava col raggio riflesso dai begli occhi di lei.

Sfolgorante di luce è la " mediazione " di Beatrice fra Dante e la bellezza di Dio che ella riflette. Dove quel mi contentava assume il valore di un'anticipazione beatificante rispetto al supremo momento in cui il Poeta (canto XXXIII, versi 140-141) potrà finalmente figgere lo sguardo in Dio. Il motivo della luce paradisiaca che, riflesso della bellezza di Dio, promana da Beatrice, ritorna con insistenza a sottolineare lo stato di rapita contemplazione in cui si trova la mente di Dante, in un crescendo di abbagliante splendore che avrà il suo esito in quel fiammeggiar del fulgor santo con cui Cacciaguida manifesta il desiderio di continuare il dialogo.

Abbagliandomi con la luce di un suo; sorriso, ella mi disse: “ Volgiti (a Cacciaguida) e ascolta, perché non solo nei miei occhi (ma anche in quelli degli altri beati ) risplende la gioia del paradiso”.

Anziché accontentarsi, col Mattalia, di definire il verso "una leggiadra battuta", il Momigliano coglie in esso l'occasione per puntualizzare alcuni aspetti della figura di Beatrice, distinguendo "una Beatrice teologa, imposta dalla struttura; e una Beatrice creatura poetica, nella quale la donna è più o meno trasfigurata, ma non dimenticata". Dante sapientemente sempre tratteggia la figura di lei con sfumature soavemente umane, come in questa immagine "di incomparabile leggerezza" in cui "conserva alla Beatrice beata, insieme con la luminosità del paradiso, un'ombra, meno di un'ombra, di compiacimento femminile. Beatrice sorride... il sorriso riscuote Dante, ma aggiunge luce al volto di Beatrice; è luce celeste, ma è anche movimento umano: lo dicono le parole di Beatrice" (Momigliano). Mentre il Montanari coglie in questi colloqui una "interiorità di sorrisi e di espressioni che dicono più delle parole", il Sapegno, riallacciandosi ai commentatori antichi, riferisce un'interpretazione allegorica delle parole di Beatrice: "non pure nella teologica contemplazione si trova la beatitudine, ma altresì nel mirare gli esempi degli eroi della Fede". Il verso 21, nell'essenzialità esemplarmente espressiva, è di quelli che giusta, mente tengono avvinta l'attenzione al valore di ogni parola del Poeta. Si guardi come quel pur del verso 10 (non perch'io pur del mio parlar diffidi ), esprima il riconoscimento di un'incapacità umana, la struggente costatazione di un'impotenza terrena, mentre il pur di Beatrice è delicato, sensibile accento d'umiltà in colei che, consapevole della propria trasfigurazione nell'estasi, vuole però, con una modestia che è tutta soccorrevole partecipazione alla fragilità dell'uomo, distogliere da se lo sguardo del Poeta per additargli altre luminose presenze paradisiache.

Come talvolta quaggiù sulla terra il sentimento interiore si manifesta negli occhi, allorché è tanto grande da prendere tutta l’anima,

cosi nel ravvivato splendore della luce santa di Cacciaguida, al quale mi volsi, riconobbi il suo desiderio di parlarmi ancora un poco.


Egli cominciò: “In questo quinto cielo del paradiso, che è come un albero che trae la vita da Dio, sua cima, e produce continuamente frutti senza mai perdere nessuna foglia,

L'albero di Dante è geniale immagine che, sorta dall'inesausta fantasia del Poeta, grandiosamente simboleggia in essa tutto il paradiso. Ed "è albero che gode perennemente la gioia del raccolto, senza conoscere mai la malinconia dell'inverno. Il ciclo terreno, che alla gioia del raccolto avvicenda la mestizia della caduta delle foglie, è vinto per sempre" (Montanari).
Questo albero, nel quale i rami indicano i diversi gradi di beatitudine, tuttavia non partecipa della natura dell'albero terreno, perché riceve la sua linfa vitale dalla cima e non dalle radici, produce continuamente nuovi frutti e non soggiace al variare delle stagioni e all'invecchiamento: infatti da Dio dipende l'eterna beatitudine delle anime, il cui numero aumenta ma non può diminuire.


si trovano spiriti beati, i quali sulla terra, prima di venire in cielo, furono circondati da grande fama, così che qualsiasi poeta potrebbe trovare ricca materia di canto (nelle loro imprese).

Perciò fissa lo sguardo sui quattro bracci della croce: ogni spirito che io chiamerò per nome, trascorrerà da un braccio all’altro con la velocità con la quale il lampo solca la nube che lo ha generato ”.

Al nome di Giosuè, nel momento stesso in cui veniva pronunciato, io vidi una luce muoversi lungo la croce; né il suono del nome fu percepito da me (mi fu noto) prima del muoversi della luce.

Giosuè, figlio di Nun, guidò il popolo d 'Israele nella terra promessa dopo la morte di Mosè, il quale lo aveva scelto come suo successore.

E al nome del glorioso Giuda Maccabeo vidi un altro spirito muoversi girando su se stesso, e la gioia era come la frusta che (colpendola) fa girare la trottola.

Giuda Maccabeo guidò, con i suoi quattro fratelli, la rivolta del popolo ebraico contro il re di Siria, Antioco IV Epifane, che aveva proibito l'osservanza del sabato, della circoncisione, delle astinenze legali. La lotta, durata dal 166 al 160 a. C., si concluse con la vittoria di Israele.

Allo stesso modo al nome di Carlo Magno e di Orlando il mio sguardo attento seguì il movimento di altre due luci, come l’occhio del falconiere segue il falcone in volo.

La necessità - di per sé rischiosamente prosastica - di introdurre ed enumerare personaggi, nulla toglie in Dante all'immediatezza ed evidenza dell'immagine poetica che "spazieggia improvvisamente la visione, misura ariosamente la distanza tra Dante e le anime. Del resto, tutti questi versi (35-45 ) sembrano librati beatamente nell'aria" ( Momigliano) .
Ai personaggi biblici Dante accosta gli eroi dell'epopea medievale, scegliendo i due personaggi protagonisti del ciclo carolingio, celebrati come campioni della lotta della Cristianità contro i Saraceni. Carlo Magno (a. 742-814), fondatore del Sacro Romano Impero, non solo difese l'Europa cristiana dagli attacchi saraceni, ma operò anche in difesa della Chiesa minacciata dai Longobardi ( cfr. Paradiso VI, 94-96).
Orlando fu il paladino più famoso di Carlo Magno e cadde a Roncisvalle combattendo contro Agramante re dei Mori.


Poi Guglielmo d’Orange, e Renoardo, il duca Goffredo di Buglione, e Roberto il Guiscardo attrassero il mio sguardo lungo quella croce.

Guglielmo d'Orange, figlio, secondo la leggenda, di Amerigo di Narbona, morì monaco nell'anno 812 a Gellone. E' uno dei principali eroi dell'epoca carolingia, protagonista di numerose canzoni epiche insieme con il leggendario Rainouart, un saraceno che egli convertì alla fede cristiana e che, dotato di forza eccezionale e armato di una pesante clava, lo accompagnava nelle sue imprese contro gli infedeli. Dante dovette ritenere personaggio storico anche quest'ultimo, probabilmente perché ai lati della porta centrale del duomo di Verona compare insieme alla statua di Guglielmo anche quella di Renoardo.
Goffredo di Buglione. (a. 1058-1100), duca di Lorena, fu a capo della prima crociata, che portò alla liberazione di Gerusalemme nel 1099. La figura di Goffredo divenne poi il centro di tutte le composizioni epiche in lingua d'oil relative alla prima crociata.
Roberto il Guiscardo (1015-1085), fu figlio di Tancredi d'Altavilla e capo dei Normanni in Italia. Libero l'Italia meridionale e la Sicilia dai Saraceni e stabilì l'alleanza del regno normanno: con la Chiesa.


Quindi, l’anima di Cacciaguida che mi aveva parlato, muovendosi e mescolandosi agli altri spiriti, mi fece sentire quale artista fosse tra i cantori del cielo ( di Marte).

Io mi volsi verso destra per farmi indicare da Beatrice o con parole o con cenni quello che dovevo fare;

e vidi i suoi occhi tanto luminosi, tanto gioiosi, che il suo aspetto superava in bellezza tutti gli altri precedenti, perfino l’ultimo.

E come l’uomo si accorge che la sua virtù cresce di giorno in giorno, perché prova una gioia sempre più profonda nel fare il bene,

così io, vedendo più bello il miracoloso aspetto di Beatrice, m’accorsi che l’arco del mio giro intorno alla terra insieme al cielo, aveva una circonferenza più ampia (essendo salito in un cielo superiore e quindi più ampio).

E come muta rapidamente il colore in un bianco volto di donna, quando questo si libera dal rossore della vergogna ( ritornando al colore naturale ),

altrettanto rapido fu il mutamento di colore che apparve ai miei occhi, quando mi distolsi (dal guardare Beatrice), a causa del candore temperato del sesto cielo (di contro al colore rosso del cielo di Marte ), che m’aveva accolto dentro di se.

Dante ascende al cielo degli spiriti giusti, quello di Giove, il quale "intra tutte le stelle bianca si mostra, quasi argentata" (Convivio II, XIII, 25).
Temprata stella: perché è "di temperata complessione, in mezzo de la freddura di Saturno e de lo calore di Marte" (Convivio II, XIII, 25).


Nella luminosa stella di Giove io vidi lo sfavillio degli spiriti, che lì risplendevano d’amore, disegnare davanti ai miei occhi le lettere dell’alfabeto.

Giovial favella: l'aggettivo significa " di Giove " e, in senso traslato "lieto", "benivolo e bene temperato nelle sue qualitàdi; onde gli antichi dissero che la cagione della felicitade era nel circulo di Giove" (Ottimo).

E come gli uccelli levatisi in volo dalle rive di un fiume come se si rallegrassero tra loro per il cibo trovato , si dispongono in schiera ora circolare ora d’altra forma,

così avvolti nella loro luce, i santi spiriti, volando qua e là, cantavano, e assumevano la figura ora di una D, ora di una I, ora di una L.

Nella rappresentazione degli augelli surti di rivera, le gru, Dante si è ispirato a Lucano (Farsaglia V, 711-716). Il paragone, felicissimo nella sua immediatezza, introduce una visione che costituisce il motivo centrale di tutto il canto: quella dell'aquila che - come uccel di Giove, ovvero uccello divino simboleggia il regno di Dio e perciò il regno della giustizia. La similitudine dello stormo di uccelli che nella serena cornice di una natura benigna si rallegrano della propria pastura già suggerisce, prima ancora che il Poeta giunga alla vera e propria descrizione della scena, l'immagine delle anime beate che volitando e cantando si dispongono a formare le lettere del biblico insegnamento:Diligite iustitiam. Il Momigliano ha sottolineato il senso di intima serenità che il paragone dantesco suscita, definendolo "immagine di mansuetudine e di pace, di quiete dell'anima, una di quelle che sono disseminate per tutto il Paradiso e ne costituiscono come lo sfondo sentimentale: sono ottenute con significativa frequenza interpretando umanamente gli atteggiamenti degli uccelli, mettendo in rilievo quel senso di tranquillità che essi danno con le loro mosse e con il loro canto". E nel ritmo musicale dei versi pare direttamente trasfuso il coro beato e beatificante delle anime.

Dapprima, cantando, si muovevano sul ritmo del loro canto; poi, assumendo la forma di una di queste lettere, si arrestavano un poco e tacevano.

Il sospetto di "ingegnosa coreografia" (Montanari) creato dall'improvviso situarsi delle anime nelle immobili figurazioni della scritta, è riscattato dal valore espressivo, quasi di pausa musicale, che assume, nella chiusa della terzina, lo spegnersi insieme del moto e del canto (un poco s'arrestavano e taciensi) in un silenzio che chiude e raccoglie la scena. Ne nasce come un attimo di smarrito stupore che subito il Poeta rompe con l'aprirsi della nuova terzina sull'improvvisa invocazione alle Muse.

O celeste musa che fai gloriosi e rendi immortali i poeti, ed essi col tuo aiuto rendono immortale la fama delle città e dei regni,

L'invocazione è rivolta a tutte le Muse, come simbolo della poesia creatrice d'immortalità. Esse sono qui chiamate Pegasee, perché la loro sede è sull'Elicona dove la fonte Ippocrene fu fatta scaturire da un calcio di Pegaso, il mitico cavallo alato. Alcuni commentatori propongono il nome di Calliope o di Urania o di Euterpe, "alla quale gli antichi assegnavano la sfera di Giove" ( Torraca ) .

illuminami con la tua luce, in modo che io possa rappresentare efficacemente le figure disegnate da questi spiriti, così come si sono impresse nella mia mente: appaia il tuo potere in questi miei versi inadeguati (alla materia trattata)!

Apparvero dunque trentacinque vocali e consonanti; ed io fissai nella memoria le lettere componenti ciascuna parola, nell’ordine in cui mi si mostrarono espresse in figura.

“Amate la giustizia” furono il primo verbo e il primo nome della frase dipinta nel cielo: “voi che siete giudici in terra ” furono le ultime parole.

Diligite iustitiam qui iudicatis terram sono le parole con le quali inizia il libro della Sapienza. Come le anime del cielo di Marte esprimevano quello che era stato l'ideale della loro vita formando la figura della croce nella quale lampeggiava Cristo, così le anime dei giusti si dispongono in modo da "dipingere" in oro sull'argento del cielo di Giove (versi 95-96), una scritta che ammonisce coloro che sono alla guida dell'umanità, a perseguire il fine supremo della giustizia, in campo religioso come in quello civile. Quest'idea della giustizia, luminosamente apparsa a Dante dal cielo come monito e invito, è sorgente di tutti gli ulteriori sviluppi del canto. E' dalla M con cui termina la parola IUSTITIAM che si formerà la figura dell'aquila, attraverso una metamorfosi che trasforma dapprima la punta dell'asta mediana della M e poi tutta la lettera in una palpitante, luminosa dimostrazione dell'arcano rapporto esistente fra la giustizia terrena e quella divina da cui essa procede."Diligite è un imperativo categorico che colpisce. nel momento che Dante scrive, l'imperatore e il pontefice, l'uno e l'altro lontani dalla loro sede, dal giardino dell'Impero: dall'Italia e da Roma. L'autore della Monarchia stabilisce nel canto uno dei caratteri fondamentali del poema, " ( Fallani ) Per quanto riguarda l'idea figurativa di una simile rappresentazione, il critico avanza un'ipotesi suggestiva, ritenendo che Dante sia stato qui ispirato "dal rilievo e dall'importanza solenne e rituale che acquistano nei corali e negli antifonari miniati le lettere in apertura". 

Poi le anime rimasero ferme e disposte nella figura della emme, ultima lettera dell’ultima parola, così che in quel punto il pianeta Giove appariva come argento ornato di rilievi d’oro.

E vidi altre anime scendere (dall ‘Empireo) sul punto più alto della emme, e li fermarsi cantando un inno, credo a Dio, il Bene che le attrae a se.

Il Caetani molto giustamente osserva che la scritta deve essere immaginata in caratteri maiuscoli gotici per comprendere la naturalezza delle successive trasformazioni. Ora la emme maiuscola gotica m ( un'asta verticale con ai lati due semicerchi rientranti alla base) assume press'a poco la forma di un giglio araldico (cfr. l'uso del verbo ingigliarsi al verso 1 13): "Dalla scrittura che è già dipinto passiamo a un emblema che è figura viva" ( Marcovaldi ) . 

Poi come dai ceppi arsi dal fuoco, quando vengono percossi, si sprigionano innumerevoli faville, dalle quali gli stolti sogliono trarre favorevoli auspici per se,

Benvenuto da Imola ricorda, per spiegare il verso 102, un'usanza allora diffusa in alcune regioni italiane: nelle sere d'inverno i fanciulli stando attorno al fuoco colpivano un ceppo di legno dicendo: " Tante città, tanti villaggi, tanti agnelli, tanti porci... " 

così si videro alzarsi dal colmo dell’emme moltissime luci, e salire (verso l’alto) qual più e qual meno, a seconda del grado di beatitudine che Dio, il sole che le accende (d’amore), ha dato loro in sorte;

e allorché ognuna si fu fermata al suo posto, vidi che esse avevano formato la figura della testa e del collo di una aquila in quell’oro che prendeva rilievo sullo sfondo argenteo del cielo di Giove,

Si è compiuto il secondo tempo della metamorfosi della emme: la parte terminale dell'asta mediana prende la forma della testa e del collo di una stilizzata aquila araldica, finché i semicerchi laterali si disporranno in forma di ali e il resto dell'asta costituirà il corpo e le zampe (cfr. verso 114). E' evidente il valore allegorico di questa figura: le anime di coloro che in terra hanno esercitato la giustizia, sovrani e magistrati, si sono riunite nella figura che è simbolo dell'Impero, l'aquila, l'uccel di Giove (Purgatorio XXXII, 112), 1'uccel di Dio (Paradiso VI, 4 sgg. ) . Essa si è formata da una emme che è la lettera iniziale di Monarchia e quindi simbolo di giustizia, essendo compito dell'impero universale la realizzazione in terra della giustizia divina (Monarchia I, XI,2). Il Parodi, discutendo con la consueta chiarezza e dottrina le diverse interpretazioni che sono state offerte in merito alla figura del cielo di Giove, ritiene che nella momentanea figura del giglio araldico (cfr. versi 97-98-113) sia rappresentato il regno di Francia, che aspirava a sostituirsi all'impero (cfr. Purgatorio XX, 44; Paradiso VI, 100 e 111); ma la sua pretesa è vana e anch'esso rientrerà presto nella giurisdizione della monarchia universale. Così si può capire - conclude il Parodi - perché nei versi seguenti "improvvisa scoppi l'ira di Dante contro il papa di Avignone; e tutto il passo infine si mostra animato dai medesimi sentimenti e rivolto al medesimo fine cui mira la rappresentazione famosa con cui si chiude la processione simbolica del paradiso terrestre": colpire, cioè, la corruzione della Chiesa, il suo intervento in campo temporale a danno dell'autorità dell'imperatore, il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone. 

Dio, che così dipinge nel cielo di Giove, non ha maestri, ma Egli stesso è il maestro, e da lui deriva la virtù generativa che dà vita agli esseri nelle loro dimore terrene.

Non è Dio che imita la natura, bensì la natura che segue le orme dell'azione divina, cosicché - nota il Montanari - non è Dio che deve adeguarsi all'idea della giustizia che hanno gli uomini, ma sono gli uomini che devono concepire l'idea di giustizia sulle tracce della giustizia divina, la quale si manifesta in terra solo nell'Impero (cfr. versi 115-117). 

Le altre anime beate, che prima apparivano paghe di assumere la forma del giglio nella lettera emme, con piccoli spostamenti completarono la figura .

O dolce pianeta Giove, quali e quante anime luminose mi mostrarono ( prima col loro canto e poi con la figura dell’aquila, simbolo dell’Impero e della giustizia che esso solo può realizzare ) che la giustizia umana deriva dall’influsso del cielo che tu adorni con il tuo splendore!

Perciò prego Dio, dal quale prende inizio il tuo movimento e il tuo potere di influsso, affinché rivolga la sua attenzione al luogo da cui esce il fumo che offusca la tua luce,

in modo che Egli si adiri una seconda volta per i commerci che si fanno nel la Chiesa che fu edificata con i miracoli e il martirio (di Cristo e dei suoi santi).

Nei versi 118-120 e 121-123 è uno di quei bruschi contrasti che spesso nel Paradiso dantesco. rompendo all'improvviso l'atmosfera di luminosa quiete (o dolce stella, quali e quante gemme...) riconducono, con accenti fiammeggianti e dolorosi, alla ferita umanità sempre presente alla mente del Poeta. Si noti il vigore della potente sintesi espressiva con cui, nel verso 123, Dante dipinge i meriti della Chiesa militante. Scopriamo in quel - che si murò di segni e di martiri - il sacro orgoglio e la amorosa commozione del figlio di fronte alla Chiesa. madre assieme splendida nel fulgore dei suoi miracoli e sanguinante nelle piaghe del suo martirio. Un'altra fiata: passando dalla celebrazione della giustizia all'invettiva contro la corruzione deità Chiesa che ha il suo centro nella cupidigia della corte papale, da dove esce il fumo che oscura la giustizia sulla terra (cfr. verso 120), Dante invoca sui pontefici che fanno mercato delle cose sacre l'ira divina, quella stessa che, con Cristo, colpì i mercanti nel tempio (Maffeo XXI, 12-13; Marco XI, 15-17; Luca XIX, 45-46; Giovanni 11, 14,17). 

O anime beate del cielo di Giove, che io contemplo (nella mia memoria), pregate per i mortali, che hanno deviato dalla giusta via per il cattivo esempio ( degli uomini di chiesa) !

Un tempo si era soliti fare la guerra con le armi, ma ora si fa sottraendo ai fedeli, or qua or 1à, il pane spirituale che il misericordioso Padre celeste non nega a nessuno.

Dante deplora il ricorso troppo frequente, da parte della Chiesa, alle scomuniche e agli interdetti ( che privano i fedeli dei sacramenti, lo pan spirituale) come arma contro i suoi avversari politici. Si può vedere, in questa terzina, una particolare allusione alla scomunica lanciata da papa Giovanni XXII contro Cangrande della Scala nel 1317. 

Ma tu che scrivi ( i decreti di scomunica ) solo per annullarli poi ( per denaro ), pensa che Pietro e Paolo, che morirono per la Chiesa che tu ora vai distruggendo, sono ancora vivi (in cielo e pronti a chiedere vendetta a Dio).

È probabile che l'apostrofe sia rivolta a Giovanni XXII, pontefice dal 1316 al 1334, il quale con ogni mezzo "raunò infinito tesoro" (Villani Cronaca XI, 20 ) . Alcuni interpreti hanno proposto il nome di Bonifacio VIII e di Clemente V, per altro già morti al tempo in cui Dante scrive questi versi. 

A buon diritto puoi dire: “ Il mio desiderio è volto con tanta forza a San Giovanni Battista, colui che volle vivere solitario nel deserto e che fu martirizzato per premiare una danza,

che io non mi curo né di San Pietro né di San Paolo”.

Il canto si chiude sull'empietà delle parole che il Poeta fa pronunciare al corrotto Giovanni XXII: il papa non conosce Paolo, l'apostolo della carità, né Pietro, quella "pietra" su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa. Soltanto un santo gli è caro: quel Battista che per salti ( c'e nell'espressione rapidissima tutto lo spregio per la fatale danza di Salormè) fu tratto al`martiro. E quando si ricordi che appunto l'effigie di San Giovanni Battista compariva sul maladetto fiore coniato in Firenze (il fiorino era la moneta internazionale del tempo), si comprenderà la feroce ironia di questo accenno di Dante al fermo... disiro del papa per la vittima di Erode.
Colui che volle viver solo...: San Giovanni Battista si preparò alla predicazione nella solitudine del deserto (Luca I, 80) e fu decapitato per premiare la danza della figlia di Erodiade, Salomè, la quale, su suggerimento della madre. aveva chiesto ad Erode la testa del Battista (Maffeo XIV. 1-12). 



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