LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto XII

Il luogo in cui giungemmo per scendere lungo il dirupo era scosceso e, per di più a causa di ciò che in esso si trovava (il Minotauro), tale, che ogni sguardo lo avrebbe evitato.

Quale è la frana che a valle di Trento colpì in una delle sue rive l’Adige, o a causa di un terremoto o per l’erosione del terreno sottostante,

in modo che il pendio dalla vetta della montagna, dalla quale la frana si staccò, alla pianura è così inclinato, da offrire una via di discesa a chi si trovasse in alto,

Dante precisa le forme del paesaggio infernale mediante riferimenti a luoghi della terra. Questi riferimenti sono, condotti a volte con uno scrupolo che può apparire scientifico, come qui, dove è indicato non solo il risultato, di un fenomeno (la particolare configurazione del terreno: è sì la roccia discoscesa), ma il fenomeno stesso (la ruina che percosse l'Adige) e le sue più probabili cause (terremoto o erosione del terreno).

Come giUstamente osserva Montanari, occorreva vedere "in queste insistenze descrittive più ancora che la mentaIità realistica, esatta, scientifica di Dante, l'impegno verso il suo tema sentito come cosa assolutamente seria e più che poetica". Diversamente infatti che nelle altre visioni medievali dell'oltretomba, dove l'elemento immaginativo prevale sempre su quello reale, nella Commedia, più la situazione è irreale, fantastica, più appare convalidata , dall'assoluta serietà con cui il Poeta la descrive. In perfetto accordo con il pensiero cristiano, per Dante la vera realtà è l'oltretomba; essa, appunto perché reale, appare dotato di leggi proprie e intimamente coerente con se stesso. Di qui la scientiflcità di cui spesso l'elemento fantastico si colora in Dante.
La frana a sud di Trento, alla quale è paragonato il dirupo che porta dal sesto al settimo cerchio, va probabilmente identificata negli Slavini di Marco, dei quali una esatta descrizione è in un passo del trattato Sulle meteore di Alberto Magno.

tale era la discesa di quel burrone; e nella parte superiore della Costa franata giaceva distesa la vergogna, dei Cretesi

che fu concepita nella finta vacca; e quando ci vide, morse se stesso, come colui che è sopraffatto internamente dall’ira.

Il Minotauro, che per gli antichi era un uomo con la testa di toro, ma che Dante, equivocando forse un'espressione di Ovidio ("uomo per metà bovino, bove per metà umano"), immagina come toro con la testa di uomo, è definito infamia in quanto rappresenta la testimonianza vivente del degradarsi dell'umano nel bestiale. Sua madre Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, presa d'amore per un toro, si fece rinchiudere in una vacca dì legno. Nato che fu, il Minotauro venne imprigionato in un luogo da cui era impossibile uscire: il Labìrinto. Nel Minotauro dantesco i richiami mitologici si fondono con il realismo della scena colta dal vivo. Il simbolo (l'infamia) non resta confinato nell'ambito del riferimento dotto (la leggenda di Parsifae), ma acquista concretezza, esprime una vitalìtà disperata nella descrizione del mostro che prima morde se stesso, poi, quando l'ira è al culmine (versi 22-24), saltella come il toro morente.

Il mio saggio maestro gli si rivolse gridando: " Pensi forse di trovarti in presenza del signore d’Atene, che sulla terra ti diede la morte?

Allontanati, bestia: costui non giunge infatti guidato da tua sorella, ma si reca a vedere i vostri tormenti".

Osserva giustamente il Sapegno come le parole che Virgilio rivolge al Minotauro, mentre sembrano volerlo rassicurare, in realtà, richiamandogli alla memoria la sua cruenta uccisione e il tradimento della sorellastra Arianna, figlia di Minosse, ne accrescono l'ira e "la portano a sfogarsi in gesti dissennati e bestiali, sui quali facilmente. anche questa volta, avrà il sopravvento l'astuta ragione dell'uomo"
Secondo una leggenda, Arianna aìutò Teseo a raggiungere il Minotauro perché lo uccidesse; e, affinché l'eroe non si smarrisse nell'intrico del Labirinto, gli diede un gomitolo da dipanare lungo il suo cammino.

Come fa il toro che si scioglie dai nodi che lo legano nell’istante in cui, mortalmente colpito, non è più capace di camminare, ma barcolla qua e là,

tale io vidi diventare il Minotauro; e il sagace Virgilio gridò: " Corri al punto di discesa; è bene che tu scenda, mentre è infuriato ".

L'immagine del toro colpito a morte è già in Seneca e Virgilio. Questi autori, nel descrivere l'uccisione dell'animale in occasione di un sacriflcìo agli dei, sanno infondere a tutta la scena un senso di nobile pietà. In Dante il quadro sembra ritrarre piuttosto la scena di un macello, e si concretizza in una accentuazione dei tratti più crudi e realistici. Come Cerbero, il Minotauro è anch'esso animalità allo stato puro, forza cieca che l'umana ragione non può non disprezzare e deridere.

Così ci avviammo attraverso l’ammasso di quelle pietre, che si muovevano spesso sotto i miei piedi per l’insolito peso.

Dante ravviva sovente la narrazìone del suo viaggio nell'al di là con osservazioni, come questa, solo in apparenza insignificanti; in realtà esse hanno tutte la funzione di insistere sulla singolarità della sua esperienza nel mondo dei morti. Egli è il vivo, dotato di consistenza e peso, nel regno degli spettri, egli ha il potere, come osserverà in questo stesso canto il centauro Chirone, di muovere ciò che tocca. Questo motivo si ripresenterà diverse volte nel corso del poema e darà luogo, soprattutto nella seconda cantica, a momenti di delicata poesia.

Procedevo meditabondo; e Virgilio disse: "Tu pensi forse a questa frana custodita da quella belva irosa che ora ho reso inoffensiva.

Voglio dunque che tu sappia che la volta precedente, allorché scesi nella parte inferiore dell’inferno, questo pendio non era ancora franato.

Ma, se non mi inganno, senza dubbio poco prima della venuta di colui che tolse a Satana il glorioso bottino del limbo,

il profondo abisso immondo tremò in ogni sua parte tanto, che io credetti che l’universo fosse preso da quell’amore, a causa del quale alcuni ritengono

che più di una volta il mondo sia ritornato nel caos; e allora questa antica rupe subì, in questo luogo e altrove (nella bolgia degli ipocriti; Inferno XXI, 106-108), tale franamento.

Virgilio spiega al discepolo come il terremoto che determinò la frana tra il sesto,e il settimo cerchio abbia preannunciato la discesa di Cristo nel limbo, e la liberazione delle anime, in esso racchiuse, dei Patriarchi dell'Antico Testamento. Tutto l'inferno tremò; il poeta latino credette per un istante che l'universo stesse per tornare nel caos primigenio.

Secondo la teoria del filosofo greco Empedocle, riportata e discussa da Aristotile nella Metafisica, il mondo esiste infatti in virtù dell'odio reciproco tra gli elementi costitutivi della materia; qualora a quest'odio dovesse sostituirsi l'amore, essi si confonderebbero l'uno nell'altro, dando origine al caos.

Ma guarda attentamente in basso, poiché si avvicina il fiume di sangue bollente in cui è immerso chiunque rechi danno ad altri con la violenza ".

O irragionevole avidità e ira sconsiderata, che a tal punto ci stimoli nella breve vita terrena, e poi in tanto dolore ci immergi in quella eterna!

Vidi un largo fossato circolare, in quanto cinge tutto il piano (del settimo cerchio), secondo quello che aveva detto il mio accompagnatore;

e tra la base del dirupo e questo fossato, dei centauri correvano raccolti in gruppo, armati di frecce, come solevano fare sulla terra quando andavano a caccia.

I centauri, cavalli fino al busto e uomini dal busto in su, sono protagonisti, nelle leggende dell'antica mìtologia, di episodi di violenza (alle nozze di Piritoo la loro impulsività provoca uno scontro armato coi Lapiti; Nesso rapisce Deianira, ecc.), ma anche di episodi che ne mettono in rilievo i tratti umani e la saggezza (Chirone istruisce Achille). Secondo l'opinione di antichi commentatori, come il Boccaccio e Benvenuto da Imola, essi rappresenterebbero, per la legge del contrappasso, gli armigeri di cui i tiranni, qui immersi nel sangue bollente, si sono serviti in vita per opprimere i loro sudditi. Ora, nell'al di là, l'oggetto delle violenze di questi esecutori d'ordini sono i tiranni stessi. E' indubbio che nei loro atteggiamenti, nel loro andare in gruppo, nella pronta obbedienza agli ordini di un capo, nella semplicità imperiosa del loro linguaggio c'è qualcosa di militaresco, ma si tratta di un elemento interamente calato in una raffigurazione concreta, la quale non ha bisogno dell'aggiunta di interpretazioni allegoriche per riuscire persuasiva. Opportunamente osserva in proposito il Sapegno: "Ia ragione morale non sopravviene in Dante a limitare e impoverire la pienezza dell'immaginazione, sempre attenta alla ricchezza e alla complessità del dato fantastico. Egli può pertanto darci delle belle fiere una rappresentazione attenta e vivacissima, tutta rivolta a far campeggiare quelle immagini di agilità e di potenza fisica, di cui ricavava lo spunto da qualche verso di Virgilio, di Ovidio e di Stazio; con un'intensità di rilievo plastico, che è il segno del suo robusto realismo, alieno da ogni compiacimento meramente estetistico e decorativo e sempre contenuto, e come trasportato, nel ritmo incalzante e grave del racconto".

Vedendoci scendere, ciascuno si fermò, e tre di loro si separarono dalla schiera con archi e frecce scelte in precedenza;

e uno gridò da lontano: " Verso quale pena vi dirigete voi che scendete il pendio ? Ditelo dal punto in cui vi trovate; altrimenti tendo l’arco ".

La minaccia di questo centauro, così diversa dalle incomposte manifestazioni di sdegno e rabbia bestiale degli altri guardiani infernali, esprime un'intelligenza pronta e decisa. I centauri non hanno nulla di abbietto nella raffigurazione che ne fa il Poeta. Sono i ministri della giustizia divina, non i tormentatori (come Cerbero) dei dannati. Il loro compito è quello di far rispettare le leggi imposte da Dio all'oltretomba, non di infliggere il dolore per il gusto perverso di fare del male. Tra i custodi dell'inferno sono inoltre gli unici che si dimostrano in grado di sostenere un dialogo con Virgilio.

Virgilio disse: " Risponderemo a Chirone quando vi saremo vicini: con tuo danno la tua volontà fu sempre così impulsiva ".

Poi mi toccò, e disse: "Quello è Nesso, che perdette la vita per amore della bella Deianira e vendicò da sé la propria morte.

Il centauro Nesso, preso da amore per Deianira, moglie di Ercole, aveva tentato di rapirla; colpito a morte dall'eroe, con una freccia avvelenata, aveva fatto dono a Deianira di una camicia intrisa del suo sangue, facendole credere che aveva la virtù di far innamorare chi la indossasse. Deianira, volendo riacquistare l'amore di Ercole, che si era invaghito di Iole, ne fece dono al marito. Ma, non appena l'ebbe indossata, l'eroe fu preso da spasimi atroci e dopo poco morì. In tal modo Nesso fu il vendicatore della propria morte.

E quello che sta In mezzo, e tiene lo sguardo abbassato, è il grande Chirone, che educò Achille; l’altro è Folo, che fu così iroso.

Chirone è qui ritratto in un atteggiamento meditativo che concorda con quanto la leggenda ha tramandato di lui (fu maestro di Achille). Folo, secondo quanto narra Ovidio nelle Metamorfosi (XII, 219 sgg.), invitato con altri centauri al banchetto per le nozze tra Piritoo e Ippodamia, tentò di rapire la sposa e le donne degli altri Lapiti.

Girano a migliaia intorno al fossato, colpendo con frecce qualsiasi dannato si trae fuori dal sangue più di quanto il suo peccato gli diede in sorte ".

Ci avvicinammo a quegli animali ve1oci: Chirone prese una freccia, e con la cocca trasse indietro la barba sulle mascelle.

Il gesto di Chirone che, prima di parlare, si serve della freccia per allontanare la barba dalla bocca, ha in sé dell'umano e del ferino, ma resta un gesto nobile, che sottolinea la maestà di questa figura. Tutta la raffigurazione, dei centauri si ispira ad un senso vivissimo dei decoro esteriore.

Quando la grande bocca fu completamente libera disse ai compagni: "Vi siete accorti chè colui che sta di dietro è un essere vivente ?

E Virgilio, che già gli era di fronte, e arrivava all’altezza del suo petto, là dove le due nature (di uomo e di cavallo) si uniscono,

rispose: " E’ veramente vivo, e a lui, a lui solo, devo mostrare l’inferno: ci spinge a ciò la necessità, non il piacere.

Dal cielo si mosse qualcuno che mi affidò questo straordinario incarico: non è un ladrone, né io sono l’anima di un ladro.

Ma in nome di quel potere divino, ad opera del quale percorro un cammino cosi impervio, dacci uno dei tuoi, a cui possiamo stare vicini,

e che ci indichi il punto dove il fiume può essere attraversato e trasporti costui sulla sua groppa, poiché egli non è uno spirito che possa volare ".

Il tono di questa risposta di Virgilio a Chirone si differenzia nettamente da quello delle risposte date ai guardiani dei cerchi superiori. Questi sono stati trattati finora, se non sempre con aperto disprezzo (come Cerbero, Pluto e il Minotauro), con un'impazienza che non ammetteva repliche (nel caso di Caronte, Minosse, Flegiàs). Qui, per la prima volta, Virgilio non si accontenta della solita formula, breve, solenne ed enigmatica, per rivelare ad un ministro dell'inferno la volontà di Dio. Egli tenta di convincete Chirone della fondatezza delle sue ragioni, non di imporgliele dall'alto della sua superiorità intellettuale. Questo perché in Chirone si esprime un'intelligenza forse "elementare ed aliena da sottigliezze" (Sapegno ), quale è quella che meglio si addice alla sua indole militaresca ed autoritaria, ma pronta ed acuta. Virgilio crede quindi doveroso ricordare a Chirone gli antefatti della discesa di Dante nel regno dei morti (l'incarico affidatogli da Beatrice), protesta l'innocenza propria e del suo compagno (non è ladron, né io anima fuia) e motiva (ché non è spirto che per l'acre vada) la sua richiesta di una guida che indichi il punto di più facile guado del fiume.

Chirone si volse a destra, e parlò a Nesso: "Volgiti indietro, e fa loro da guida, e fa scansare qualunque altra schiera s’imbatta in voi".

Ci avviammo dunque insieme col sicuro accompagnatore lungo la sponda del sangue bollente, nel quale i dannatì emettevano grida laceranti.

Vidi una rnoltitudine immersa fino agli occhi; e Nesso spiegò: "Essi sono tiranni che uccisero e depredarono.

Qui si sconta il male arrecato agli altri senza pietà; qui si trovano Alessandro, e il crudele Dionisio, che fu causa alla Sicilia di anni dolorosi.

Alessandro potrebbe essere il tiranno di Fere, in Tessaglia, della cui crudeltà parla fra gli altri Cicerone, oppure il re dei Macedoni, che alcuni autori latini hanno descritto come un tiranno sanguinario (Seneca lo chiama "ladro e distruttore di popoli", Lucano lo definisce fortunato predone"), ma che Dante elogia tanto nel Convivio quanto nella Monarchia. Questo peraltro non sarebbe motivo sufficiente per farci ritenere impossibile la sua destinazione all'inferno; molti tra i personaggi della storia che il Poeta ammira maggiormente sono infatti, nella Commedia, fra i reprobi, essendo i criteri della giustizia divina necessariamente superiori a quelli del giudizio degli uomini.

E quella fronte coperta di così neri capelli, è (la fronte) di Ezzelino; quello biondo è invece Obizzo d’Este, il quale davvero

fu ucciso in terra dal figlio snaturato ". Allora mi rivolsi a Virgilio, ed egli disse: " Nesso sia ora la tua guida, io verrò secondo ".

Ezzelino III da Romano, capo ghibellino e signore della Marca Trevigiana, morto nel 1259, è definito da uno storico di parte guelfa, il Villani, il più crudele tiranno della cristianità (Cronaca VI, 72).
Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara, fu, secondo una leggenda che qui Dante sembra voler confermare, ucciso dal figlio Azio VIII nel 1293.

Poco più oltre il Centauro si arrestò presso una moltitudine che appariva immersa in quel bollore fino alla gola.

Ci indicò un’ombra isolata in un angolo e disse: " Quel dannato trafisse in chiesa il cuore che è ancora venerato a Londra ".

Guido, conte di Montfort, vicario in Toscana di Carlo I d'Angiò, pugnalò nel 1272, in una chiesa di Viterbo, Arrigo, cugìno del re d'Inghilterra Edoardo I, che gli aveva ucciso il padre. Sulla tomba di Arrigo, posta sul ponte del Tamigi a Londra, una statua dorata, secondo quanto riferisce un antico commentatore, Benvenuto da ImoIa, reggeva un calice contenente il suo cuore imbalsamato.

Vidi in seguito una moltitudine che teneva fuori del fiume il capo ed anche tutto il petto; e riconobbi parecchi di costoro.

A questo modo il livello del sangue andava sempre più diminuendo, fino a bruciare soltanto i piedi; qui guadammo il fossato.

" Così come vedi che il liquido bollente si abbassa progressivamente da questa parte " disse il Centauro, " voglio che tu sappia

che dalla parte opposta il suo alveo diventa sempre più profondo, finché si ricongiunge al punto dove è giusto che i tiranni espiino.

Da quest’altra parte la giustizia di Dio punisce Attila che sulla terra fu strumento di dolore e Pirro e Sesto; e per l’eternità spreme

le lagrime, che fa sgorgare con il supplizio del sangue bollente, a Rinieri da Corneto, a Rinieri dei Pazzi, che resero così pericolose le strade. "

Attila, re degli Unni dal 433 al 453, fu soprannominato, per la sua crudetà, il " flagello di Dio".
Pirro è qui, probabilmente, non il re dell'Epiro che mosse guerra ai Romani, ma Neottolemo, il sanguinario figlio di Achille, uccisore, secondo quanto narra Virgilio nel secondo libro dell'Eneide (versi 526-558), del giovane Polite, figlio di Priamo, e poi di Priamo stesso.
Sesto è probabilmente il figlio di Pompeo, datosi alla pirateria dopo la morte del padre.
Rinieri da Corneto fu un brigante ai tempi del Poeta, terrorizzò tutta la Maremma.
Rinieri dei Pazzi di Valdarno, anch'egli un famoso ladrone di quei tempi, fu scomunicato da papa Clemente IV e dichiarato ribelle dal comune di Firenze.

Poi si voltò indietro, e riattraversò il pantano.





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