LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


  HOME PAGE

Iscriviti alla mailing list di Letteratura Italiana: inserendo la tua e-mail verrai avvisato sugli aggiornamenti al sito

   
   

Iscriviti
Cancellati



Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto VIII

Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si diressero verso la sua sommità attratti da due fiammelle che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro sguardo poteva distinguerla.

In questo canto, uno dei più ricchi di movimento di tutto il poema, anche il paesaggio si anima, quasi ad incarnare visibilmente lo stato di attesa e la trepidazione del Poeta.

I segnali luminosi che, accendendosi nella notte infernale, sembrano preannunciare un evento insolito e misterioso, sono uguali a quelli che, in terra, servivano a trasmettere informazioni militari. I diavoli che difendono le mura della strana città, alla quale i due viandanti si stanno avvicinando, sono organizzati militarmente: diversamente che nei guardiani dei cerchi superiori, in essi il male è guidato da una intelligenza viva.

Allora mi rivolsi a Virgilio, dicendo: " Che significato ha questo segnale? e quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli che l’hanno accesa ? "

E Virgilio di rimando: " Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso (da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno esala non lo celano ai tuoi occhi ".

Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse nell’aria con una velocità paragonabile a quella della piccola imbarcazione che vidi in quell’istante dirigersi sull’acqua verso di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: " Ti ho finalmente raggiunto, spirito malvagio! "

La similitudine è già in Virgilio: "fugge sulle onde, più rapida di un dardo e di una saetta che uguaglia i venti" (Eneide X, 247-248). Dante la ricrea conferendole maggiore essenzialità e vigore, e imprimendo alle parole "un movimento rapido e incalzante, in cui viene a culminare il senso di tensione e di attesa delle terzine che precedono e si preannunzia il movimento drammatico, violento e concitato, dell'episodio che seguirà" (Sapegno).


Da notare anche la sapiente scelta delle parole e la suggestione che queste esercitano anche al di là del loro significato più immediato. Come nota il Venturi, nel primo verso corda non pinse mai da sé saetta, "i suoni esprimono il sibilar della freccia; nel verso successivo il celere volo".

" Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente contro di noi " ribatte il mio maestro, "a non ci avrai in tuo potere che il tempo necessario per attraversare la palude fangosa."

Flegiàs, figlio di Marte, per avere incendiato, accecato dall'ira, il tempio di Apollo a Delfi, fu punito nell'Averno (cfr. Virgilio, Eneide VI, 618-620). E questo un altro dei personaggi tratti dalla mitologia e ricreati da Dante in forme nuove, meglio rispondenti alla sostanza profondamente religiosa e morale del suo poema. La figura di Flegiàs è "drammatizzata nella sua qualità essenziale: l'ardore dell'ira: per cui diventa uno scorcio appena balenante ma tempestoso: scolpito proprio nel secco rilievo della sua violenta irruzione e del furioso gridare (versi 13-18) e poi ( verso 24 ) nel torbido silenzio dell'ira accolta" (Grabher).


La risposta di Virgilio a Flegias non ha la calma solenne delle risposte da lui date ai guardiani dei cerchi superiori. Una impazienza irosa sembra trasmettersi alle sue parole. Il peccato punito in questo cerchio - l'ira - "si propaga all'intorno, nello scenario, in Virgilio, in Dante, che proprio qui dà il primo e più continuato segno del suo aspro spirito combattivo" (Momigliano).

Come colui che apprende di essere stato gravemente ingannato, e allora prova rammarico, così divenne Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse.

Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo di lui; soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri privi del corpo, non hanno peso).

Non appena Virgilio e io fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno) barca cominciò a fendere l’acqua, immergendosi in essa più profondamente di quanto non faccia di solito, quando trasporta le anime.

Mentre solcavamo l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: "Chi sei tu che arrivi anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della morte ) ? "

In questa terzina, alla stagnante immobilità dello Stige, si contrappone l'aspra repentinità dell'apostrofe del dannato che, nella maligna domanda rivolta a Dante, rivela il suo godimento per le sofferenze altrui. Il suo apparire improvviso può ricordarci quello di Ciacco nel cerchio dei golosi, ma il dialogo con Dante è improntato qui a tutt'altro spirito.

Nell'episodio del canto sesto il Poeta era preso da un sentimento di compassione e quasi di riverente rispetto per il concittadino che aveva conosciuto di persona i grandi uomini politici della passata generazione; qui invece reagisce violentemente contro il suo interlocutore e, come vedremo fra poco, gode del suo strazio. Possiamo restare meravigliati per tale atteggiamento di Dante, in cui il Momigliano ha ravvisato addirittura "qualcosa di satanico", ma non dobbiamo dimenticare che l'iracondo nei riguardi del quale egli manifesta tale spirito vendicativo, come osserva il Grabher, "non è che lo spunto realistico, cui Dante sempre attinge, per passare dal contingente all'eterno, dal particolare all'universale; per colpire quanti si tengono or là su gran regi e tuffarli tutti, idealmente, come porci in brago".
Il dannato è il fiorentino Filippo dei Cavicciuli ( un ramo degli Adimari )',

Ed io: " Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?" Rispose: "Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (cioè un dannato) ".

Il motivo che spinge Filippo Argenti a celare il suo nome è il desiderio, comune anche agli altri dannati, di non avere cattiva fama tra i vivi. Egli cerca di reagire al disprezzo manifestatogli dal Poeta ostentando la propria infelice condizione (un che piango). Ma le sue parole tradiscono un'insofferenza sprezzante e amara. Il loro senso è: lo vedi da te che sono un dannato; che bisogno c'è di farmi questa domanda?

Ed io: " Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango ".

Il tono della replica di Dante, in cui egli riprende le parole del suo interlucatore per ritorcerle contro di lui (chi se' tu che vieni... s'i' degno, non rimango...; un che piango... con piangere e con lutto), è dettato da un'ira repressa, che finirà col manifestarsi esplicitamente nella soddisfazione con cui il Poeta assisterà al tormento del peccatore.

Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: " Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti ! "

Poi mi abbraccio: mi baciò in viso, e disse: "Anima fiera, sia benedetta colei che ti ha portato nel grembo!

Quello fu in vita un prepotente; nessuna azione buona abbellisce il ricordo che di sé ha lasciato: per questo la sua anima e qui in preda al furore.

Quanti che si considerano adesso nel mondo persone di grande importanza, qui staranno come porci nel fango, lasciando di sé il ricordo di atti spregevoli ! "

L'intervento di Virgilio conclude l'incontro del suo discepolo col dannato e conferisce a questo episodio una dignità esemplare. Ma la figura del saggio, che il poeta latino di solito incarna, ci appare qui singolarmente animata. Egli non è soltanto il commentatore distaccato dell'episodio al quale ha assistito, ma ne diventa uno dei protagonisti. Il personaggio di Virgilio perde in tal modo ogni schematicità inerente alla sua funzione di simbolo, per riflettere in sé l'animo appassionato del discepolo ed inserirsi, con polemica asprezza, in quello che è uno dei temi etici dell'Inferno: la condanna della superbia che boriosamente ostenta la propria autosufficienza.

Ed io: "Maestro, sarei molto desideroso, prima di uscire dalla palude, di vederlo immergere in questa melma".

E Virgilio: "Prima che tu possa vedere la riva, sarai appagato: è giusto che tu goda del soddisfacimento di questo tuo desiderio" .

Poco dopo vidi gli iracondi fare di lui un tale scempio, che per esso ancora glorifico e rendo grazie a Dio.

Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio: Dante gioisce dello spettacolo offerto dai dannati che puniscono Filippo Argenti, sia per motivi di carattere contingente, come potrebbe essere la sua inimicizia determinata da motivi politici nei confronti della oltracotata schiatta (Paradiso XVI, 115) degli Adimari, sia perché questo spettacolo è una dimostrazione inoppugnabile della giustizia di Dio, vendicatore delle offese e riparatore dei torti. Ciò non toglie che la scena, considerata in sé, sia manifestazione, da parte dei dannati che vi partecipano, di uno spirito ottuso e brutale: i seviziatori appaiono, non meno della loro vittima, lontani dalla ragione e da Dio.

Tutti insieme gridavano: " Addosso a Filippo Argenti! "; e il rabbioso dannato fiorentino volgeva contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti.

Lo abbandonammo a questo punto, in condizioni tali, che non occorre aggiungere altre parole; ma ecco che un suono doloroso colpì il mio udito, per la qual cosa spalancai gli occhi guardando attentamente davanti a me.

In questo canto il linguaggio è sempre teso e ricco di movimento drammatico; il presente storico sbarro sottolinea la subitaneità della nuova impressione che il Poeta avverte.

Virgilio mi disse: " Ormai, figlio, si avvicina la città chiamata Dite, coi suoi abitanti oppressi dal dolore, col grande esercito (dei diavoli)".

Dite, o Plutone, era per gli antichi il sovrano del regno dei morti, Dante lo identifica con Lucifero. La città che da lui prende nome è l'insieme dei cerchi infernali dal sesto al nono, che costituiscono il basso inferno, di contro all'alto che racchiude i primi cinque cerchi. In essa sono punite due categorie di peccati: quelli di violenza e quelli di malizia.

Ed io: " Maestro, distinguo già chiaramente laggiù nell’avvallamento le sue torri, rosseggianti come se fossero uscite dal fuoco ".

Già le sue meschite... : secondo il Boccaccio le torri fortificate poste a difesa della città di Dite sono chiamate meschite (moschee, dall'arabo masghid "siccome edifici composti ad onor del demonio, e non di Dio".

Il paesaggio squallido e geometrico nel cerchio degli avari e prodighi, intriso di tristezza e umor nero in quello degli iracondi, assume qui un rilievo allucinato, che trascende ogni possibilità di riferimenti umani. Intorno alla città di Dite, nota il Grabher,"il Poeta... crea un senso di ermetico isolamento e di grandiosità desolata". Già in Virgilio (Eneide Vl, 548 sgg.) la città del Tartaro era difesa da torri di ferro rovente. Ma, nell'abbondanza dei particolari, l'aspetto sinistro delle fortificazioni infernali non spiccava come nei pochi cenni che vi dedica Dante.

E Virgilio mi disse: "Il fuoco eterno che all’interno le arroventa, le fa apparire rosse, come puoi vedere in questa parte bassa dell’inferno ".

Arrivammo infine dentro i profondi fossati che difendono quella città desolata: mi sembrava che le mura fossero di ferro.

Non senza aver prima fatto un ampio giro, giungemmo in un punto dove il nocchiero gridò ad alta voce: " Uscite da qui (dalla barca): ecco la porta (della città di Dite) ".

Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: " Chi e costui che ancora in vita visita il regno dei morti?". E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte.

A proposito dell'immagine da ciel piovuti, il Romagnoli rileva in essa una certa ambiguità: "collocate così le parole, pare che si tratti di gente piovuta allora allora". In realtà, leggendo questi versi, è difficile soffermarsi sul valore logico che in essi le parole assumono, tanto vigorosa è la capacità del Poeta di infondere vita e concretezza alle creazioni della sua fantasia. Giustamente osserva il Bosco: "con quella semplice parola, piovuti, Dante riesce a trasformare il concetto del loro gran numero, in un'immagine: una pioggia di angeli; tutta l'aria piena di angeli precipitanti".

Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: "Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire e penetrato in questo regno.

Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui ".

Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi.

Come nei cerchi superiori, anche all'ingresso del sesto il cammino dei due poeti è ostacolato dalle potenze infernali. Ma i difensori della città di Dite sono - come abbiamo già detto dotati di intelligenza oltre che malvagi. Assai più difficile sarà averne ragione. Mentre Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, simboli di cieco furore, si trovavano disarmati e impotenti di fronte all'intelligenza, simboleggiata da Virgilio, i demoni posti a custodia dei cerchi inferiori del regno di Lucifero sono in grado di opporre ragione a ragione, intelligenza a intelligenza: il male non si configura in loro nelle sue forme più vistose e brutali, come disordinato imperversare degli istinti, ma si nasconde insidiosamente dietro le apparenze di un vivere disciplinato. Qui appunto è il grande pericolo che Dante e Virgilio devono fronteggiare: a sbarrare il cammino loro prescritto in cielo trovano non la natura deforme, ma una città. L'intelligenza al servizio del male ha nelle mura di Dite la sua prima, indimenticabile espressione visiva. La scena drammatica che qui comincia e si svilupperà per buona parte del canto seguente ha un significato allegorico ( la ragione che vuole il bene non può trionfare su quella indirizzata al male senza il soccorso della Grazia ), ma, come ha rilevato il Croce, "ne ha uno altresì effettivo e poetico, che tutta l'informa e la rende per se comprensibile e chiarissima".


Questo significato fa "tutt'una cosa con lo svolgimento stesso della scena: è la tensione che si prova tra le difficoltà e gli ostacoli, la fiducia che si avvicenda con la sfiducia e pur la vince, nella lotta del giusto contro l'ingiusto, della virtù contro l'iniquità, del diritto contro la forza".

" Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare " dissi " in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui). "

E Virgilio, che mi aveva condotto li, mi disse: "Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto.

Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con lasperanza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’inferno (nel mondo basso)".

Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza.

Dante è in ansia per l'esito del colloquio di Virgilio coi diavoli, anzi ha già cominciato a disperare: è la prima volta che i ministri di Satana osano ribattere alle parole del suo maestro; e ribattono con una proposta terribile, in tutto degna della loro natura: Virgilio resti prigioniero nelle loro mani e Dante sia pur libero di tornarsene indietro, ammesso che ne sia capace. Virgilio lo rincuora, ma Dante continua a dubitare della potenza della sua guida, pur sentendo che in essa sono riposte tutte le sue speranze di salvezza. Da ciò quella ricchezza di espressioni affettuose verso il maestro, in cui e tutto il suo timore e il desiderio insieme di confidente abbandono.

Non potei udire quello che disse loro: ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura.

Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti.

Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: "Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore! ".

Anche in questo suo mesto ritorno dal colloquio con i guardiani della città del male Virgilio è, non meno che nell'episodio di Filippo Argenti, personaggio vivo e umanissimo. Egli non è il maestro che impartisce la verità dall'alto, ma partecipa all'azione e si getta allo sbaraglio per trarre in salvo il suo discepolo. Le qualità del suo animo non sono didascalicamente enunciate, ma risultano da tutti i suoi atti.

E rivolto a me: "Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso.

Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata.

In questa terzina è evidente l'allusione alla discesa di Cristo nel regno dei dannati: il Redentore, dopo la sua morte, liberò dal limbo le anime dei Patriarchi dell'Antico Testamento, scardinando la porta dell'inferno, esterna (men secreta) rispetto a quella di Dite.

Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione,

colui ad opera del quale la città ci sarà aperta".





2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it