Purgatorio: canto VIII
Era ormai l'ora (l'ultima della sera) che fa tornare un senso di nostalgia nel cuore dei naviganti e ne riempie l'animo di commozione ricordando il giorno nel quale hanno detto addio alle persone care;
era l'ora che fa sentire più struggente l'amore al pellegrino che ha appena abbandonato la sua terra, mentre ode il suono lontano d'una campana che sembra piangere il giorno che muore,
quando io cominciai a non udire più la voce di Sordello e il canto dei principi e cominciai a fissare una delle anime che, levatasi in piedi, chiedeva con un cenno della mano che tutte l'ascoltassero.
Quasi a creare l'atmosfera affettiva degli incontri che caratterizzeranno il canto, la rappresentazione si apre con un preludio di toccante malinconia, nel quale la musicalità del ritmo, con gli affetti immediati che sommuove, dà pienezza perfetta e congruente alla rappresentazione del momento lirico. Sta per compiersi la prima giornata del pellegrino nel secondo regno, preannunciata dalla nitida aurora, arricchita via via da profondi motivi consolatori, che hanno fatto definire questa, primo giorno, il giorno del pathos, della commozione (Fergusson) : dal canto solitario di Casella e da quello, corale, dei penitenti, ai discorsi di Virgilio sul limite della ragione e sul valore della preghiera, all'incontro con Sordello. L'esordio illumina subito la struttura poetica del canto, mediante la sua costruzione per via di similitudini, dove il richiamo immediato, nella serena presenza della natura, alla figura del viandante, riporta la situazione, perseguita fin qui come oggetto di rappresentazione, verso la figura del Poeta, recuperando la dimensione soggettiva, anche se, ancora una volta, il sentimento in Dante vuole tradursi in concreto dato sensibile, in segni visibili, che lo Eliot giudica "chiare immagini visive". L'intenso definirsi, nella figura dei marinai e del
pellegrino, dello stato d'animo dell'esule, che riassume nell'evidenza facile di quelle due rappresentazioni la meditazione morale del canto e il suo inquieto svolgimento, riguarda sì Dante (e lo dimostrerà la profezia dell'esilio che chiuderà il canto), ma anche le anime della "valletta fiorita", perché è "dolcezza e tristezza di ricordi, su cui indugia il cuore che vorrebbe e ancor non sa staccarsi appieno dalle cose della terra; è timore di oscure e
malvagie insidie, che si placa nella certezza di un soccorso trascendente; è inquieta nostalgia di pace e di felicità, che si tempera nella penitenza e si raffina nella preghiera" (Sapegno). C'è infatti un perfetto parallelismo tra la situazione psicologica del marinaio e del pellegrino, e quella di Dante e delle anime che intonano il « Te lucis ante »: sono stati emotivi, in situazioni diverse ma affini, che sorgono in rapporto all'ora della sera, che predispone al raccoglimento e alla tenerezza degli affetti. Così il giorno del distacco dai propri cari non è « giorno » come spazio temporale (lo stesso giorno), ma è quale soggettivamente si qualifica per i naviganti in quanto ricordo, che fa affiorare e prendere contorno l'immagine della partenza. Il giorno della partenza nota il Pagliaro - può essere ormai lontano nel tempo, ma non lo è nella coscienza dei naviganti, poiché la suggestione dell'ora riesce ad annullare quella lontananza e a fare sì che esso torni a essere presente con tutta la commozione di quei saluti; per il peregrin il rintocco lontano di una campana è un richiamo alla solidarietà degli affetti, un invito a raccogliersi nella dolce tranquillità dei sentimenti familiari: al mutarsi del desiderio di arrivo in desiderio di ritorno, corrisponde qui un intenerimento che penetra nel cuore come una fitta (punge), improvvisamente, come improvviso si era alzato il suono della squilla.
Essa congiunse ed elevò al cielo le mani, rivolgendo lo sguardo intento verso l'oriente, nell'atteggiamento di chi dice a Dio: "Nient'altro mi preme".
Dalle sue labbra l'inno «Te lucis ante» uscì con tale devota e modulata dolcezza, che mi rapì in estasi;
poi tutte le altre anime dolcemente e con devozione la seguirono cantando tutto l'inno, tenendo gli occhi fissi alle sfere celesti.
« Te lucis ante terminum » ("Prima che finisca il giorno...") è l'inno attribuito a Sant'Ambrogio e cantato durante « compieta », l'ultima delle ore canoniche (indicata dal suono della squilla): vi si invoca l'aiuto di Dio contro i sogni cattìvi e l'assalto del demonio durante la notte. Si apre una vera e propria officiatura liturgica attraverso il gesto ieratico di quell'anima volta verso oriente (secondo l'uso antico della preghiera cristiana), che impera per cenni, iniziando l'inno corale degli altri penitenti, che continua, senza soluzioni, nello stesso ritmo spirituale, il canto della « Salve, Regina ». Di quest'anima Dante non rivela né il nome né la dignità che ebbe nel mondo, perché "è un'annegata nella brama di Dio, E' lo spasimo verso la luce, è il terrore della notte che avanza... L'uomo della terra ascolta, tratto fuori di sé, l'armonia di quelle voci; ma tutto è una fascinatrice armonia intorno a lui: l'ora e la luce dell'azzurro tramonto, e il gesto di quell'anima e la compostezza degli oranti, e il loro sguardo levato ai cieli, in una umile e trepida attesa" (Donadoni).
O lettore, qui aguzza bene gli occhi della tua intelligenza a ciò che veramente voglio sìgnificare, poiché il velo (che copre il senso nascosto di quanto ora segue) è così sottile che certamente non ti costerà fatica il penetrarlo esattamente.
Finito il canto, io vidi quella nobile schiera di anime guardare intensamente verso l'alto, pallide ed umili, come chi aspetta qualcosa;
e vidi uscire dall'alto del cielo e scendere in basso due angeli, ciascuno con una spada fiammeggiante, tronca e priva della punta.
Erano verdi come foglioline appena spuntate le vesti che essi portavano fluenti, percosse e agitate dal vento delle verdi ali.
Uno degli angeli venne a posarsi poco più in alto di noi, l'altro invece scese sulla sponda opposta (della valletta), in modo che le anime furono racchiuse tra loro due.
Scorgevo distintamente la loro testa bionda; ma nel fulgore del volto l'occhio si smarriva, come ogni facoltà sensitiva si confonde di fronte a un oggetto superiore alle sue capacità,
«Vengono entrambi dal cielo Empireo, dove sta Maria» disse Sordello «per far la guardia alla valle, a causa del serpente che verrà da un momento all'altro.»
L'invito che Dante rivolge al lettore è stato generalmente interpretato come un'esortazione a cogliere il significato emblematico dell'apparizione dei due angeli sulla sponda della "valletta" e del serpente che verrà vie via. Ma non giustificando questo solenne richiamo la facilità con cui quell'allegoria (la tentazione che la preghiera respinge invocando l'intervento divino) si può interpretare, già Pietro di Dante avvisava che essa celava una profondità maggiore di quanto potesse apparire ad una prima lettura. Infatti tali anime, essendo salve, non possono più temere di peccare, ma, poiché la seconda cantica vuole essere l'esplicazione della vita dell'anima che inizia la sua ascesa, esse rappresentano, allegoricamente, la condizione di quelle creature che in terra hanno appena cominciato la loro penitenza e che quindi sono ancora soggette alla tentazione.
Se l'esercito di quei principi, muti, pallidi nell'aspettazione del miracolo ("si ricordi - osserva il Mattalia - dai canti precedenti, con quanta facilità le anime del Purgatorio impallidiscono per un'emozione: è la loro caratteristica: un'umbratile emotività"), è immagine di grande delicatezza, di grande vigore rappresentativo è quell'uscir dell'alto dei due angeli, grandiosi nelle loro linee, possenti nelle loro masse, pieni di quell'austerità che contraddistingue le apparizioni degli angeli danteschi, dal messo celeste che apre le porte della città di Dite all'angelo
nocchiero, a quello che siederà davanti alla porta del purgatorio (canto IX, versi 78 sgg.). Il Donadoni nota con molta acutezza che gli angeli di Dante si confonderanno con l'uomo solo quando l'uomo si sarà innalzato fino ad essi, compiendo tutta la sua purificazione. Bene il Signorelli, traducendo i primi undici canti del Purgatorio nei monocromati affreschi della cattedrale di Orvieto, ha saputo ritrarre l'attimo di esaltazione energetica delle due creature angeliche, le quali si abbattono fulmineamente, come sparvieri, sull'acuminato piedistallo di due pinnacoli, anche se solo la pittura del Beato Angelico avrebbe potuto ritrarre, nelle sue tinte lievi e smorzate, la dolce luce del crepuscolo, che rende "vago" e "sfumato" questo momento poetico.
Secondo l'Anonimo Fiorentino il verde degli abiti e delle penne degli angeli indica "la etternità della speranza, la quale si figura verde", le due spade simboleggiano "la giustizia e la misericordia di Dio". ma sono senza punta per dimostrare "che non con rigore di giustizia [Dio] condanna senza misericordia, né con misericordia senza giustizia", il rosso che le affoca ricorda "l'ardore della carità con la quale sono menate". Altri commentatori ritengono invece che i due angeli rappresentino le due supreme potestà in terra, l'Impero e la Chiesa.
Perciò io, che non sapevo da che parte (sarebbe venuto il serpente), mi guardai intorno, e tutto gelido per la paura, mi strinsi al fianco del mio fidato maestro.
Poi Sordello soggiunse: « Ora scendiamo nella valle in mezzo alle grandi ombre, e parleremo ad esse: sarà loro assai gradito vedervi».
Credo di esser disceso soltanto di tre passi. e mi trovai in basso, e vidi un'ombra che guardava con insistenza verso di me, come se mi volesse riconoscere.
In quel momento l'aria già si faceva buia, ma non tanto che a breve distanza non lasciasse scorgere chiaramente ciò che prima rendeva invìsibile.
Egli si portò verso di me, e io andai verso di lui: o nobile giudice Nino, quanta gioia provai quando vidi che non eri tra i dannati!
Ugolino o Nino Visconti appartenne a una nobile
famiglia guelfa di Pisa e fu nipote del conte Ugolino della Gherardesca (Inferno, canto XXXII, versi 125 sgg.). Fu bandito più volte da Pìsa, finché riuscì ad impadronirsi della signoria della città con Ugolino (1285); costretto all'esilio dopo la vittoria dell'arcivescovo Ruggieri, fece parte di molte leghe guelfe contro la sua città, dove rientrò nel 1293. Si ritirò infine nel giudicato di Gallura, in Sardegna, dove morì nel 1296. Dante ebbe forse
occasione di conoscerlo fra il 1288 e il 1293, quando Nino Visconti fu spesso a Firenze.
Nessuna affettuosa espressione di saluto fu risparmiata fra noi; poi egli chiese: « Da quanto tempo sei giunto nell'antipurgatorio attraverso l'oceano? »
« Oh! » gli risposi, « sono giunto questa mattina attraverso l'inferno, e sono ancora vivo, sebbene, facendo questo viaggio, io cerchi di guadagnare la vita eterna».
All'udire la mia risposta, Sordello e Nino si ritrassero come chi è colto da improvviso smarrimento.
Sordello si volse a Virgilio e Nino Visconti a uno che stava seduto lì accanto, gridando: « Su, Corrado! vieni a vedere quale mirabile cosa Dio volle per grazia speciale ».
La figura di Nino Visconti, prima ancora di rivelare la sua complessa ricchezza di motivi psicologici, si apre nel sentimento dell'amicizia (che più di ogni altro sembra adeguarsi all'ambiente della seconda cantica, dove le passioni si sono estinte e sopravvivono gli affetti gentili e delicati) attraverso l'appassionata insistenza del bel salutar e l'affettuosa sollecitudine per la sorte dell'amico (versi 56-57), che risponde alla prima manifestazione di gioia di Dante (versi 53-54). Ma anche la comune esperienza dell'esilio arricchisce questo incontro, essendo "anche Nino esule dalla patria senza colpa, anche Nino non mai disperato di potervi, quando che fosse, rientrare. Vinto, non domato, dal destino, era poi morto esule... Dante vede in
Nino, più che un amico, un fratello, perché, fra quanti vincoli stringono l'uomo all'uomo, niuno ve ne ha di più saldo di quello costituito da sventure virilmente patite per comuni ideali" (Steiner),
Poi, rivolto a me, disse: « Per quella particolare gratitudine che tu devi a Dio che tiene così occulte le ragioni ultime del suo operare, che non esiste possibilità per l'uomo di giungere mai a comprenderle.
quando ritornerai sulla terra, di' a Giovanna che preghi per me il cielo dove vengono esaudite le invocazioni delle anime innocenti.
Non credo che sua madre mi ami più, dopo che passò a seconde nozze (trasmutò le bianche bende: le vedove portavano veli bianchi su vesti nere), anche se accadrà che, infelice!, debba rimpiangere il suo primitivo stato vedovile.
Dal suo esempio facilmente si comprende quanto poco duri in una donna il fuoco dell'amore, se di continuo non sia tenuto acceso dalla vista o dalla presenza dell'amato.
Giovanna, l'unica figlia di Nino Visconti, aveva solo nove anni nel 1300; sposò poi Rizzardo da Camino, e, rimasta vedova nel 1312, visse dal 1323 al 1339, anno della sua morte, a Firenze. La moglie di Nino fu Beatrice d'Este, figlia di Obizzo Il, la quale nel 1300 si risposò con Galeazzo Visconti, signore di Milano, che, dopo essere stato scacciato dalla città nel 1302, trascorse il resto della vita in esilio fra gravi difficoltà. A queste tristi vicende alludono le parole di Nino al verso 75, anche se Beatrice, dopo la morte del secondo marito, poté rientrare a Milano, quando il figlio Azzo riconquistò la città.
La spiritualizzazione a cui il Poeta ha saputo innalzare la prima parte del canto ottavo attraverso la similitudine iniziale, l'intensità della preghiera corale, l'intervento di potenze sovrannaturali e l'accento posto sul tema della amicizia, nell'incontro con Nino, prima che su altre realtà terrene, attenuano la rievocazione di motivi umani che altrimenti graverebbero sull'anima con il peso di un dolore troppo crudo. Il mondo di là dalle larghe onde, per le lontane acque, riportatogli dall'arrivo dell'amico, per Nino non significa l'eco di lotte politiche o di battaglie, ma la presenza di un mondo più intimo e suo, fatto delle immagini di persone che gli furono e gli sono ancora care. "E se anche il cuore ha una dolorosa certezza, umanamente vuole ancora illudersi che un simile oblio non possa esser vero. Beatrice, la moglie, non è più tale per
Nino; è solo la sua madre, la madre di Giovanna; eppure egli premette quel non credo, che vorrebbe salvare un'ultima speranza, non credo che la sua madre più m'ami. E spiega il perché di tale oblio velando la cosa - le seconde nozze di Beatrice - in un particolare esteriore che ne attenua la crudezza: poscia che trasmutò le bianche bende, ed ha, ultimo bagliore d'una tenerezza non sopita, un senso di pietà anche per lei mutevole, fragile creatura che fa soffrire, anche dopo la morte, soffrendo anche lei com'è destino degli uomini: le quai convien che, misera!, ancor brami." (Grabher)
L'insegna del biscione intorno alla quale i Milanesi sogliono porre il campo in tempo di guerra, quando sarà scolpita sul suo sepolcro non lo renderà così bello, come l'avrebbe reso il gallo di Gallura ».
Lo stemma dei Visconti (una vipera con in bocca un bambino) non darà alla tomba di Beatrice quell'onore che le avrebbe conferito l'immagine del gallo, stemma dei Visconti pisani, che indicava anche il loro possesso del giudicato di Gallura. Varie sono le interpretazioni intorno al paragone fra i due stemmi, perché secondo alcuni esso è solo una critica al fatto che Beatrice non si è mantenuta fedele al marito morto, secondo altri si risolve in un biasimo per la donna che da una famiglia guelfa è passata ad una famiglia ghibellina, quale quella dei Visconti di Milano. Probabilmente Dante intende alludere all'uno e all'altro motivo.
Così parlava Nino, avendo impresso sul volto, quel giusto sdegno che senza eccedere gli ardeva nel cuore.
I miei occhi, avidi di novità, si volgevano con insistenza al cielo, sempre verso il polo dove le stelle girano più lente, allo stesso modo che i raggi di una ruota (si muovono più lenti) nella parte più vicina all'asse.
E la mia guida mi domandò: « Figliolo, che cosa quardi lassu? » Io gli risposi: « Guardo quelle tre piccole luci che illuminano tutto quanto il polo antartico ».
Perciò egli replicò: « Le quattro stelle luminose che vedevi stamattina sono già scese sotto l'orizzonte, e queste sono salite al loro posto ».
Le tre stelle che illuminano il polo antartico, simboleggiano, secondo tutti i più antichi commentatori, le tre virtù teologali, e sostituiscono le quattro che erano apparse nel cielo del purgatorio al mattino (canto I, verso 23), indicanti le quattro virtù cardinali: le prime riguardano la vita contemplativa e perciò sono più adatte durante la notte, le seconde la vita attiva, che si svolge durante il giorno. Meglio però l'interpretazione proposta dal Sapegno, secondo la quale "nel punto in cui culmina la lotta dell'anima per liberarsi da ogni legame colla terra, diventa più urgente la necessità del soccorso delle virtù soprannaturali".
Mentre Virgilio parlava, ecco che Sordello lo attirò a sé dicendo: «Vedi là il nostro avversario»; e indicò col dito il punto dove guardare.
Dal lato dove la valletta non è chiusa da alcuna sponda, c'era un serpente, simile forse a quello che diede a Eva il frutto, causa di tante amarezze.
Il serpe maligno veniva strisciando tra l'erba e i fiori, volgendo il capo ora a destra ora a sinistra, e leccandosi il dorso come una bestia che si liscia (con la lingua il pelo).
Non riuscii a vedere, e perciò non posso dire, come spiccarono il volo i due angeli; ma vidi bene l'uno e l'altro dopo che si furono mossi.
Al solo udire il rumore delle verdi ali che fendevano l'aria, il serpente fuggì, e allora gli angeli si voltarono, ritornando con volo concorde in alto ai loro posti di guardia.
La scena, nella quale il simbolo, come avviene in Dante nei momenti di maggiore felicità creativa, diventa cosa viva, ha una singolare efficacia rappresentativa nel movimento sinuoso e viscido che rappresenta, nella loro essenzialità, il corpo e il moto della mala striscia. Essa assume un ritmo drammatico nell'irrompere rapido e improvviso dei due angeli, che si placa altrettanto improvvisamente quando, con la stessa potenza di volo dispiegata nella discesa, risalgono alle poste, ricostituendosi nella loro imperiosa immobilità.
L'anima che s'era accostata al giudice Nino, quando questi l'aveva chiamata durante tutto l'assalto (degli angeli contro il serpente) non si era per nulla distolta dal guardarmi.
« Possa la grazia divina che ti è guida verso l'alto, trovare nella tua libera volontà tanta corrispondenza, quanta ne occorre per salire fino alla vetta del monte smaltata di verde »
cominciò a dire, « se hai notizie certe della Val di Magra (in Lunigiana) o dei paesì vicini, dimmele, poiché un tempo io ero potente in quei luoghi.
Mi chiamai Corrado Malaspina; non sono Corrado Malaspina il vecchio, ma da lui sono disceso: alla mia famiglia e alla sua potenza portai un amore che qui si purifica d'ogni scoria. »
Corrado Malaspina il giovane, morto nel 1294, fu nipote di Corrado il vecchio, capostipite dei Malaspina dello Spino secco, che dominarono la Lunigiana. Dante fu in Lunigiana nel 1306 (perché il suo nome appare in un documento di tale anno, allorché dai marchesi Franceschino, Moroello e Corradino ebbe l'incarico di porre fine ad alcune controversie con il vescovo di Luni) e fu legato da grande amicizia con Moroello, marchese di Giovagallo, al quale indirizzò l'Epistola
IV.
« Oh! » gli dissi, « non sono mai stato nei vostri paesi; ma vi può essere un luogo in tutta Europa dove essi non siano noti?
La fama che onora la vostra casata, esalta i signori e gli abitanti di tutta la regione, in modo tale che viene conosciuta anche da chi non è ancora passato per quei luoghi.
E vi giuro, così possa io salire fino alla vetta del monte, che la vostra nobile famiglia continua a fregiarsi delle virtù della liberalità e della prodezza.
L'abitudine alla virtù e l'indole naturale la pongono in una condizione così privilegiata, che, per quanto la cattiva guida del Papa e dell'Imperatore faccia deviare il mondo dalla retta via, essa sola continua nella strada della perfezione e disprezza il male. »
Ed egli: « Ora va; il sole non tornerà sette volte in quel tratto dell'eclittica che la costellazione dell'Ariete (con la quale il sole è ora in congiunzione) copre e cavalca con tutte e quattro le zampe ripiegate (cioè non passeranno sette anni),
che questa gentile opinione (sulla mia famiglia) ti sarà fissata nella mente con argomenti più persuasivi che non siano i discorsi della gente,
a meno che non si arresti il corso dei decreti divini».
Nell'atmosfera di sospeso silenzio, seguita all'assalto del serpente, si prepara la severa grandezza dell'ultima scena: Corrado Malaspina, che non aveva mai distolto gli occhi dal privilegiato viandante (versi 110~111), "come a penetrare, con uno sguardo lungo, intenso e silenzioso, nelle profondità del doloroso tempo che per quel vivente si apparecchiava" (Sacchetto), è l'eletto a rappresentare, nella "valletta fiorita", il principe ideale, l'esponente degno di quella famiglia, che, fra i grandi d'Italia e d'Europa, si pone come quella che sola va dritta e 'l mal cammin dispregia, il nobile signore che ha realizzato, secondo il giudizio del Sacchetto, con la esemplarità della sua vita e l'assolvimento pieno della sua missione, il sogno generoso di Dante.
Si stacca dalla schiera dei principi raccolti nella valletta... Non lo hanno sfiorato le accuse scagliate dal Poeta contro i mali reggitori della terra. E, durante l'assalto del serpente, è apparso persino sdegnoso di seguirne la vicenda, come a sottolineare che egli si poneva al di sopra delle suggestioni esercitate dalla cupidigia, radice di ogni male. Né ha cessato di guardare insistentemente il Poeta. E ciò non tanto perché intorno a costui fosse lo stupore del gran privilegio per cui attraversava, vivente, il regno dei morti, quanto perché egli era colui che avrebbe, con la sua non peritura parola, celebrato nella gloria della sua casa quelle virtù che, sole, avrebbero restituito al genere umano la promessa e la certezza di un ordine migliore." (Sacchetto) E nella profezia
dell'esilio è il ricordo della Val di Magra, "una delle poche regioni di cui Dante abbia conservato un ricordo puro, senza veleno, un'acuta nostalgia, senz'ombra di amaritudine... sopra tutto lo ha consolato, in essa, l'ospitalità schietta del nobile signore che lo ha accolto, e della cui casa, celebrata in tutta Europa per il retto uso della borsa e della spada, c'è appunto, in questo canto, l'elogio alto e commosso" (Sacchetto). Perciò il preannuncio severo e solenne dell'esilio è consolato dal dono di quella gentilezza e di quella cortesia che lo salveranno dalla disperazione.
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