Paradiso: canto
VIII
I popoli pagani con loro danno ritenevano che
il bel pianeta Venere diffondesse con i suoi raggi l’amore sensuale,
volgendosi nel terzo epiciclo;
per la qual cosa le genti antiche, chiuse nell’errore
del paganesimo, non solo adoravano la dea Venere con sacrifici
e con invocazioni accompagnate da voti,
ma rendevano onore anche a Diana e Cupido, a
quella come madre di Venere, a questo come figlio; e raccontavano
che Cupido si era seduto in grembo a Didone;
Secondo la mitologia classica,
Venere, dea dell'amore e della bellezza ( chiamata Ciprigna perché
nata nel mare di Cipro e perché in quest'isola essa era particolarmente
venerata), aveva la sua sede nel terzo cielo. Temo epiciclo: gli
astronomi medievali, per spiegare le diverse posizioni assunte
dai pianeti, ritenevano che ciascuno si muovesse, oltre che da
oriente verso occidente, anche da occidente verso oriente, in
un cerchio minore, il cui centro cadeva sulla circonferenza del
primo (epiciclo: cerchio su cerchio). Mentre secondo gli antichi
il pianeta Venere diffondeva, con la sua influenza, l'amore sensuale
nel mondo, secondo il pensiero medievale esso dà origine a un
amore benefico e positivo. Infatti gli intelletti motori del terzo
cielo, "naturati de l'amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione,
connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno
d'amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore
virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore,
secondo la loro disposizione. E perché li antichi s'accorsero
che quello cielo era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere
figlio di Venere" (Convivio II, V, 13-14). A quest'ultimo, come
a Diana, che generò Venere da Giove, gli antichi estendevano le
preghiere e i sacrifici offerti in onore della dea della bellezza.
Riguardo a Cupido, Dante ricorda quanto narra Virgilio nell'Eneide
( I, 657-722 ): Venere inviò Cupido, sotto le sembianze del piccolo
Ascanio, figlio di Enea, a sedere in grembo alla regina Didone,
per infiammarla d'amore per l'eroe troiano.
e da Venere, dal nome della quale inizio questo
canto, trae il nome la stella che il sole contempla come un innamorato
ora mentre essa si trova alle sue spalle, ora mentre si trova
davanti a lui.
Il pianeta Venere, a causa
del suo doppio movimento, alla sera appare dietro il sole (con
il nome di Espero), al mattino davanti ad esso (con il nome di
Lucifero). Riguardo al verso 12, molti critici considerano il
sole soggetto, altri complemento oggetto. La prima interpretazione
è quella più esatta dal punto di vista astronomico e quella più
aderente alla situazione poetica, la quale, in tal modo, viene
a trasformare in senso fantastico l'elemento scientifico, umanizzando
l'immagine dei due astri nel rapporto affettivo fra Venere e il
Sole.
lo non mi accorsi
di salire in esso; ma mi resi conto di esservi giunto quando vidi
la mia donna farsi più bella.
E come nella fiamma
si vede la scintilla, e come in due voci (che, cantando insieme,
sembrano una sola) si distingue l’altra voce, se una sta ferma
su una nota e la seconda si alza e si ad bassa, così nella luce
del pianeta Venere scorsi altre luci muoversi in giro più o meno
veloci, in proporzione, credo, alla maggiore o minore intensità
della loro visione di Dio.
Da una fredda
nube non discesero mai venti, visibili o no, tanto veloci, che
non apparissero ritardati (nel loro procedere) e lenti a chi avesse
veduto quelle luci divine affrettarsi verso di noi interrompendo
la danza circolare prima iniziata nel cielo degli alti Serafini;
Secondo la scienza medievale
di derivazione aristotelica i venti si formano quando i vapori
caldi e secchi, salendo nella terza regione dell'aria, si scontrano
con le nubi fredde. I venti visibili sarebbero i fulmini e le
stelle cadenti, e quelli invisibili i venti propriamente detti.
Secondo alcuni interpreti, invece, i primi rappresenterebbero
i venti che spostano le nubi nel cielo e sollevano la polvere
in terra. Gli alti Serafini sono le intelligenze motrici del Primo
Mobile, il nono cielo, quello più vicino all'Empireo. Le anime
che si sono staccate dall'Empireo per scendere nel terzo cielo
hanno cominciato la loro danza nel Primo Mobile, perché è il primo
corpo celeste dotato di movimento dopo il ciel sempre quieto (Paradiso
1, 122).
e all’interno di quelle luci che apparvero davanti
alle altre risuonava la parola “ Osanna ” con tanta dolcezza,
che mai poi rimasi senza il desiderio di riudire quel canto.
Poi una di queste si avvicinò di più a noi ed
essa sola cominciò a parlare: “ Tutti siamo pronti a soddisfare
ogni tuo desiderio, affinché tu tragga da noi motivo di gioia.
Noi ci muoviamo con il coro angelico dei Principati
nello stesso cerchio e con lo stesso movimento eterno e con lo
stesso desiderio di Dio;
ad essi tu un tempo, quando eri nel mondo, ti
rivolgesti con questa canzone: “ Voi che ‘stendendo il terzo ciel
movete”; e siamo così pieni d’amore, che, per compiacerti, non
ci sarà meno dolce (rispetto alla danza e al canto) fermarci un
poco (con te)”.
I Principati sono le intelligenze
angeliche che presiedono al terzo cielo, dove si trovano le anime
che in terra, per influsso di Venere, sentirono con particolare
intensità l'amore. Trascinate dapprima al male, esse seppero poi
indirizzare questa loro inclinazione verso il bene. " Voi che
'intendendo il terzo ciel movete" (voi che solo con la vostra
intelligenza fate muovere il terzo cielo) è la prima canzone del
Convivio ed è commentata nel secondo libro, Tuttavia lì era riferita
ai Troni, mentre nel Paradiso, Dante, secondo la gerarchia celeste
attribuita al grande scrittore mistico greco del V secolo, lo
Pseudo-Dionigi l'Areopagita, pone nel terzo cielo i Principati.
Dopo che i miei occhi si furono rivolti a Beatrice
per chiedere umilmente il permesso di parlare, ed ella li rese
paghi e certi del suo consenso, ritornarono allo spirito che con
tanta generosità si era offerto (di soddisfare ogni mio desiderio
), e le mie parole, pronunciate con tono di profondo affetto,
furono: “Deh, chi siete?”
Come lo vidi farsi più grande in ampiezza e fulgore
per il nuovo gaudio che, quando gli rivolsi la parola, si aggiunse
a quello che già provava come anima beata!
Diventato più luminoso, mi disse: “ Il mondo
mi ebbe poco tempo con se; e se fossi vissuto di più, si sarebbe
evitato molto male, che invece avverrà. La letizia, che si diffonde
intorno a me e mi ricopre come fossi un baco fasciato dal suo
bozzolo, mi nasconde ai tuoi occhi.
Assai mi amasti, e ben ne avesti ragione, perché
se io fossi rimasto (più a lungo) in terra, ti avrei mostrato
molto più che le fronde del mio affetto (offrendoti anche i suoi
frutti ) .
Mi aspettavano come loro signore a tempo debito
( dopo la morte di mio padre) la Provenza, che si stende lungo
la riva sinistra del Rodano a sud del luogo in cui esso riceve
le acque del Sorga, e quella parte d’Italia fatta a modo di corno
che protende i suoi borghi di Bari, Gaeta e Catona a partire dal
punto nel quale il Tronto e il Verde sfociano in mare.
Carlo Martello passa in
rassegna le terre che un giorno avrebbero dovuto essere sue, rimpiangendo
con voce accorata non il fiore degli anni o la potenza di cui
non poté godere, ma il bene che egli non poté compiere per i suoi
popoli (e se più fosse stato, molto sarà di mal, che non sarebbe:
fin dal l'inizio la sua figura è apparsa ripiegata su questa dolorosa
meditazione) e per coloro che gli furono cari (s'io fossi giù
stato, io ti mostrava di mio amor pia oltre che le fronde). "La
splendida rassegna... di tutte le terre che gli destinavano la
loro corona, a lui arridenti nel fascino incantevole delle loro
città, dei loro fiumi, dei loro promontori, dei loro vulcani e
dei loro mari, non muove da vana ostentazione, né è soltanto un
espediente per il palesamento della sua persona, ma vuole riuscire
soprattutto una dimostrazione convincente dei limiti che avrebbe
potuto raggiungere la sua volonterosa operosità di regnante, non
meno che la sua regale magnificenza verso Dante, qualora esse
avessero potuto esercitarsi..." (Rossi-Prascino) Dopo la Provenza
lo sguardo di Carlo Martello si volge al regno di Napoli, visto
come un triangolo i cui punti estremi sono costituiti da Bari
(a est), Gaeta ( a ovest), Catona ( a sud). S'imborga: molti critici
intendono "ha come borghi", e quindi "ha come punti estremi",
altri, invece, accettano l'interpretazione del Buti: "s'incittadinesca,
e hae per borghi, cioè per cittadi', poiché " borgo " ha come
significato originario quello di "città". Altri interpreti hanno
pensato che " borgo " significa in questo momento "castello" ,
" fortezza", ricordando che anche Catona un tempo costituiva una
grande piazzaforte come Bari e Gaeta. Il Liri o Garigliano e il
Tronto segnavano il confine fra il regno napoletano e il Lazio
e le Marche.
Mi
risplendeva già sulla fronte la corona d’Ungheria, la terra che
il Danubio bagna dopo essere uscito dal territorio germanico.
E la bella Sicilia, che si vela di caligine nel tratto di costa
fra il capo Passaro e il capo Faro presso il golfo di Catania,
che è investito dallo scirocco più che da altri venti,
non per colpa di Tifeo ma per le emanazioni sulfuree del terreno,
avrebbe tuttora atteso i suoi re legittimi, che sarebbero discesi
attraverso me da Cario e da Rodolfo,
se il malgoverno, che sempre rattrista i popoli soggetti, non
avesse mosso la popolazione di Palermo a ribellarsi al grido:
“Morte, morte ( ai Francesi ) !”
La
geografia medievale, seguendo le affermazioni di Orosio, riteneva
che 1'Italia si protendesse da nord-ovest a sud-est e fosse bagnata
a sud-ovest dal mar Tirreno e a nord-est dall'Adriatico, con il
quale veniva confuso il mar Jonio, Può stupire che il Poeta rappresenti
tutta la costa orientale della Sicilia ( chiamata, con termine
greco, Trinacria per le sue tre punte ) avvolta da una densa nebbia,
ma Dante potrebbe riferire le informazioni esagerate di chi, stando
sulla riva calabrese, ha visto per qualche giorno quella parte
della Sicilia annebbiata dal fumo dell'Etna in attività. Tuttavia,
come sempre, quando è possibile, Dante preferisce sostituire la
spiegazione scientifica (emanazioni sulfuree) del fenomeno naturale
a quella offerta dalla fantasia o dal mito. Così respinge la leggenda,
raccolta da Ovidio (Metamorfosi V, 352,356) e da Virgilio (Eneide
III, 570-582), secondo la quale quei vapori sarebbero causati
dall'agitarsi del gigante Tifeo, che, dopo essere stato fulminato
da Giove, fu sepolto sotto l'Etna. La bella Trinacria non poté
essere governata né da Carlo Martello né dai suoi figli, discendenti
per parte di padre da Carlo I d'Angiò e per parte di madre da
Rodolfo I d'Asburgo, la cui figlia Clemenza era andata sposa a
Carlo Martello nel 1287, quando entrambi erano ancora fanciulli.
Infatti il dominio angioino nell'isola ebbe termine con la rivolta
popolare dei Vespri Siciliani (marzo 1282) contro il malgoverno
di Carlo I, allorché, narra il Villani (Cronaca VII, 61), il popolo
di Palermo corse " ad armarsi gridando: " Muoiano i Franceschi
"". Dante, pur non legittimandola, non condanna la ribellione
violenta contro la autorità, quando questa opprime il popolo.
Inoltre egli non ebbe mai una parola di lode per gli Angioini,
da lui sempre accusati di avidità e di ingiustizie. Cosi, pur
salvando Carlo I (cfr. Purgatorio VII, 113) forse per la sua liberalità,
non cessò mai, come in questo caso, di mettere in rilievo i molteplici
aspetti negativi della sua azione di governo. Mentre lo sguardo
di Carlo Martello dominava, nella gloria del cielo di Venere,
tutte le terre sulle quali avrebbe dovuto regnare, la sua visione
del mondo si incideva con la chiarezza e la calma profonda di
chi contempla le cose ad una ad una, nella lontananza di una raggiunta
serenità. Ma quando egli prende in esame la situazione della sua
famiglia e dei suoi popoli, muta il tono della voce e le sue parole
si alzano per accusare e deplorare: l'anima che si era presentata
inebriata d'amore divino (verso 38), partecipante della vita dei
Principi celesti (versi 34-35), emette un giudizio senza appello
sulla sorte della sua dinastia, dà sfogo al proprio sdegno con
accenti severi e solenni, assurge alla dignità dell'exemplum,
diventando simbolo del monarca ideale che incarna " valore " e
" cortesia", che si oppone alla mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti 73-74).
E se mio fratello
prevedesse le conseguenze del malgoverno, già allontanerebbe da
se l’avida povertà dei Catalani, perché non gli potessero nuocere;
poiché bisogna
veramente che da parte sua, o da parte altrui, si provveda affinché
il suo regno già gravato (dalla sua cupidigia) non venga oppresso
da nuovi pesi.
L'ammonimento
di Carlo Martello, che si trasforma in amara profezia (e se...),
è rivolto al fratello Roberto, che successe al padre Carlo II
sul trono di Napoli nel 1309. L'avara povertà di Catalogna: Roberto
d'Angiò, con il fratello Lodovico, visse dal 1288 al 1295 in Catalogna
come ostaggio presso il re d'Aragona per riscattare il padre Carlo
II, che era stato sconfitto e fatto prigioniero nella battaglia
navale di Napoli del giugno 1284 ( cfr. Purgatorio XX, 79 ) .
Qui fece amicizia con molti nobili e cavalieri catalani; ritornato
a Napoli, li condusse con se, assegnando loro incarichi civili
e militari (cfr. Villani - Cronaca VIII, 82; IX, 39; X, 17) nei
quali essi mostrarono tutta la loro ingorda cupidigia.
La sua indole,
che derivo avara da antenati liberali e generosi, avrebbe bisogno
di funzionari tali che non si preoccupassero soltanto di riempire
le loro borse ”.
Non
è possibile riferire la natura larga al padre di Roberto, Carlo
II d'Angiò, che Dante, attraverso l'invettiva di Ugo Capeto, ha
già accusato di avidità (cfr. Purgatorio XX, 80-81 ); occorre
quindi pensare agli antichi rappresentanti della dinastia angioina.
Dal contrasto tra la nobiltà di un tempo e la corruzione del presente
il discorso acquisisce una forza ideale: la visione di Carlo Martello
non sembra più limitarsi ai mali della sua famiglia, perché attraverso
l'avara povertà di Catalogna e la sua mala segnoria l'accusa si
rivolge alla degradazione morale-politica ( i due termini in Dante
sono sempre sinonimi) del tempo.
“ Poiché io credo
che la profonda gioia che mi danno le tue parole, o mio signore,
in Dio, principio e termine di ogni bene, tu la veda con la stessa
chiarezza con la quale io la sento in me, tale gioia mi è più
gradita;
e mi è cara anche
per un altro motivo, perché tu la vedi guardando direttamente
in Dio (cosi come fanno tutti i beati).
I
versi 88-90 non possono essere considerati una ripetizione di
quanto è già stato affermato nei tre precedenti, perché il Poeta,
dopo essersi compiaciuto che Carlo Martello veda la sua alta letizia
in Dio con la stessa chiarezza e completezza di chi prova quel
sentimento, si compiace che essa sia veduta proprio attraverso
Dio.
Mi hai reso felice,
ma ora chiarisci un mio dubbio, poiché, con le tue parole, mi
hai spinto a chiedermi in che modo da un seme dolce possa derivare
un frutto amaro (cioè: in che modo possano discendere da una nobile
stirpe rappresentanti degeneri).
” Io gli dissi
queste cose; ed egli mi rispose: “ Se riuscirò a dimostrarti una
verità fondamentale, tu potrai volgere gli occhi all’oggetto della
tua domanda così come ora gli volgi le spalle (cioè: capirai il
problema del quale, per il momento, non riesci a renderti conto).
Dio, il Bene che
muove e rende lieti i cieli attraverso i quali tu sali, fa si
che la sua provvidenza diventi, in questi grandi corpi celesti,
virtù ( capace di influire sul mondo sottostante ).
I
versi 97,111 possono essere considerati una breve appendice alla
teoria delle influenze celesti da Dante svolta nel canto secondo
del Paradiso. Data la premessa (la provvidenza divina si trasforma
nei cieli in virtù operante), la conclusione è evidente: gli effetti
prodotti dai corpi celesti con le loro influenze sono voluti e
guidati da Dio, e tendono ad un fine giusto e razionale, stabilito
ab esterno dalla volontà divina. Da questa conclusione Carlo Martello
dedurrà una verità particolare: il fine dell'uomo, fissato da
Dio, è la convivenza sociale (versi 115-116) . Alcune battute
di questo dialogo fra l'anima beata e il Poeta "tenderebbero a
dar movimento scenico alla dissertazione dottrinale", ma lo schematismo
delle domande e delle risposte "non trasforma, come avviene di
solito in questa cantica, il freddo raziocinare in dramma dell'intelletto,
cui partecipa il sentimento" (Pézard).
Nella
mente divina, di per se perfetta, non solo si provvede all’esistenza
delle molteplici nature terrene, ma anche a quanto è loro utile:
per
tale motivo tutto ciò che è generato dall’influenza dei cieli
è disposto secondo un fine prestabilito da Dio, come una freccia
lanciata verso il suo bersaglio.
Se
così non fosse, i cieli che tu attraversi produrrebbero effetti
tali, che non sarebbero opere ordinate e razionali, ma disordine
e distruzione;
tuttavia
ciò e impossibile, se le intelligenze motrici di questi cieli
non sono difettose, e se non è difettoso il primo intelletto (
Dio ), che, in questo caso, non le avrebbe create perfette.
Vuoi che ti illumini maggiormente questa verità che ti ho enunciata?
” Ed io: “ No certamente, perché so che è impossibile che la natura
venga meno al fine che si è prefissa”. Perciò egli rispose:
“ Ora dimmi: sarebbe peggio per l’uomo sulla terra, se non vivesse
in convivenza con gli altri? “ Sì ” risposi, “ e di questa verità
non chiedo dimostrazione”.
“ E potrebbe l’uomo essere cittadino (cioè far parte di un’organizzazione
civile), se ciascuno nel mondo non vivesse in condizione diversa
(rispetto a quella degli altri ), esercitando funzioni diverse?
No certo, se Aristotile, il vostro maestro, vi insegna esattamente.
”
Aristotile, "maestro de
l'umana ragione" (Convivio IV, II, 16) e "dignissimo di fede e
d'obedienza" (Convivio IV, VI, 5 ), afferma in molti passi delle
sue opere che l'uomo è creato non per vivere isolatamente, ma
per fare parte di un consorzio civile, nel quale occorre, quindi,
non solo una differenziazione di attitudini naturali, ma anche
una differenziazione di compiti e uffici. Tale posizione di Aristotile,
fatta propria da tutta la Scolastica, ritorna frequentemente in
Dante (Convivio IV,IV, 1-2; IV, XXVII, 3; Monarchia I, V; II,
VI).
Cosi venne svolgendo
le sue deduzioni fino a questo punto poi concluse: “ Dunque (se
gli uomini devono assumersi compiti differenti) è necessario che
( in ciascuno di voi ) siano diverse le attitudini dalle quali
siete indotti a compiere uffici diversi:
per la qual cosa
uno nasce (con l’attitudine del legislatore, come) Solone, e un
altro ( con quella del condottiero, come) Serse, uno (con la vocazione
del sacerdote, come) Melchisedech e un altro (con quella dell’arte,
come) Dedalo, l’artefice che, volando nell’aria, perse il figlio.
Solone fu un famoso legislatore
ateniese (c. 638 - c. 558 a. C.); Serse, figlio di Dario re dei
Persiani, nel V secolo a. C. guerreggiò a lungo con i Greci; Melchisedech,
re di Salem, fu il sacerdote che benedisse Abramo ( Genesi XIV,
18 sgg.); Dedalo (ritenuto nel Medioevo il più grande artista
dell'antichità) fu rinchiuso da Minosse, re di Creta, nel labirinto;
da li fuggi dopo aver costruito ali di cera per se e per il figlio
Icaro. Ma quest'ultiimo si avvicinò troppo al sole: le ali di
cera si sciolsero e il giovinetto precipitò in mare (cfr. Inferno
XVII, 109-lll).
Con il loro movimento circolare i cieli , che
imprimono nelle creature il suggello della loro influenza, svolgono
saggiamente la loro opera (distribuendo fra gli uomini attitudini
diverse), ma (nel fare ciò) non distinguono tra casa e casa, tra
famiglia e famiglia.
Di qui accade che Esaù si differenzia da Giacobbe
già al momento del concepimento, e che Romolo discende da un padre
di così umile condizione, che se ne attribuisce la paternità a
Marte.
Esaù e Giacobbe, per quanto
gemelli, furono molto diversi fra di loro, perché l'uno fu di
indole bellicosa, l'altro di carattere mite. I Romani, per nobilitare
la nascita di Romolo, il cui padre era ignoto, diffusero la credenza
che egli fosse stato generato dal dio Marte.
La natura dei figli sarebbe sempre simile a quella
dei padri, se la provvidenza divina (per mezzo delle influenze
celesti) non vincesse (la naturale tendenza per cui il figlio
assomiglia al padre).
Ora la verità che tu non vedevi ti è davanti
agli occhi: ma affinché sappia che mi è dolce intrattenermi con
te, voglio aggiungerti un corollario.
Sempre la disposizione naturale, se trova discordanti
da se le condizioni esterne, fa cattiva prova, come ogni seme
che venga gettato in un terreno non adatto.
E se il mondo laggiù tenesse conto delle inclinazioni
poste dalla natura in ciascuno e le seguisse, avrebbe sempre gente
valente (adatta, cioè, ad eseguire i compiti affidati dalle influenze
celesti ).
Ma voi costringete alla vita religiosa chi è
nato per la vita militare, ed eleggete re chi è adatto a far prediche:
per questo il vostro cammino è fuori della retta via ”.
Fate re di tal ch'e da
sermone: tutti i commentatori antichi sono concordi nel ritenere
questo verso un'allusione da parte di Carlo Martello al fratello
Roberto diventato re di Napoli nel 1309. Egli diede cattiva prova
in campo politico, ma divenne famoso, al suo tempo, per cultura
letteraria e teologica.
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