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Dante: la Divina Commedia in prosa
Paradiso: canto I
La luce gloriosa di Dio, colui che è la causa prima e il motore di tutto il creato, penetra e risplende sull’universo, in misura maggiore in un luogo e minore in un altro (a seconda che la cosa creata è più o meno perfetta e quindi più o meno disposta ad accogliere in sé la luce divina).
La « proposizione» della terza cantica inizia - a differenza di quelle dell'Inferno e del Purgatorio, nelle quali Dante aveva avanzato in primo piano la sua persona - con la maestosa immagine di un Dio che guida l'universo come motore supremo, imprimendo (penetra) a ciascuna realtà creata una vita specifica e manifestandosi, nel suo intervento, non come potenza dominatrice, freddamente operante, ma come luce (risplende), che illumina amorosamente l'intimo delle sue creature. La sinfonia di luce, alla quale Dante aveva abituato il lettore nel paradiso terrestre, presentava un carattere ancora fisico, affondava le sue radici in una normale esperienza terrena, laddove essa diventa, fin dai primi versi del Paradiso, uno degli attributi principali di Dio, e l'unico mezzo adatto, secondo la puntuale affermazione del Busnelli, ad esprimere "visivamente" il mondo dello spirito e il graduale immergersi della creatura umana nella vita divina. Nella lettera che inviò a Cangrande della Scala, signore di Verona, per dedicargli la Commedia, il Poeta si preoccupò di precisare il significato di questi primi versi, esaminando i verbi penetra e risplende. Il "divinus radius" penetra "quantum ad essentiam", nel senso che ogni essere creato deriva - direttamente o indirettamente - da Dio e da Lui riceve la luce che giustifica ed illumina la sua esistenza, e risplende "quantum ad esse", nel senso che tale raggio è più attivo negli esseri creati da Dio con atto diretto (angeli, cieli, anima razionale dell'uomo), e meno attivo in quelli (animali e vegetali) creati con atto indiretto per mezzo di agenti secondari (XIII, 64).
Io fui nell’Empireo, il cielo che riceve in maggior quantità la luce divina, e vidi cose che colui al quale è consentito di ritornare da là in terra, non è capace, (poichè non se ne ricorda) né può (perchè ogni parola sarebbe inadeguata) descrivere;
La cosmologia di Dante è quella della Scolastica, che ha fatto propria la dottrina tolernaico-aristotelica: la terra occupa il centro dell'universo e intorno a lei ruotano nove cieli (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Cielo Stellato, Cielo Cristallino o Primo Mobile). Questi ultimi, di natura materiale, sono circondati dal cielo Empireo, che è pura luce (Paradiso XXX, 39) e nel quale ha la sua sede Dio; esso, inoltre, è perfettamente immobile, avendo conseguito il pieno appagamento nella visione perpetua della divinità (cfr. verso 122), laddove tutte le cose create tendono, in un moto continuo, al raggiungimento di Dio.
perchè avvicinandosi a Dio, che è oggetto del suo desiderio, la nostra mente si addentra così profondamente (nella sua conoscenza), che la memoria non può seguirla.
I versi 5-9 hanno il compito di introdurre il lettore nella mutata dimensìone spirituale della terza cantica, dove Dante vivrà un'esperienza religiosa di carattere mistico.
Trascesi i modi di una normale esistenza e superati i limiti posti ad ogni umana conoscenza, il Poeta si accosta e penetra nella vita trinitaria, percependo Dio e unendosi a Lui in uno slancio sublime di amore, nel quale la creatura perde coscienza di sé, occupata e dominata dalla presenza della divinità. Un'ulteriore testimonianza del fatto che Dante sta parlando dell'« excessus mentis », dell'« uscita da sé » propria dei mistici, è da cercarsi nel richiamo (versi 73-75) al passo di San Paolo, nel quale l'apostolo rivela di essere stato rapito al terzo cielo (il paradiso) e di aver udito "parole ineffabili, che non è dato all'uomo di poter esprimere" (Il Corinti XII 2-4). Accanto a questa e ad altre testimonianze dell'Antico e del Nuovo Testamento occorre ricordare che, nel Medioevo, la letteratura mistica latina vantava nomi quali quelli di San Bernardo, di San Bonaventura, di Riccardo di San Vittore, che continuavano e sviluppavano il filone mistico della letteratura patristica latina. "Visione" è il termine con il quale la Commedia è comunemente definita, e con esso si vuole sottolineare "il valore di assoluta verità che lo scrittore attribuisce alla sua materia: verità assicurata, quanto all'assunto pratico, dalla saldezza dell'ideologia; quanto alla concezione generale del tema, dalla fede religiosa, che gli permette di conferire all'esperienza dell'oltremondo una pienezza di realtà non inferiore e non diversa da quella con cui accoglie i dati dell'esperienza terrestre; e quanto infine ai particolari, dall'ampiezza e dalla minuzia degli elementi attinti a un patrimonio di cultura, unitariamente rivissuto nelle sue componenti classiche e medievali- (Sapegno).
Limitato al Paradise, tale termine ha un'accezione ancora più profonda, perché siamo di fronte alla « visione » del divino che prende possesso dell'umano, Da qui la preoccupazione, nel Poeta, di avvisare, fin dall'inízio, che quanto egli viene descrivendo è solo un tentativo di esprimere ciò che, per sua natura, è inesprimibile (vidi cose che ridire né sa né può chi di là su discende) : infatti la facoltà espressiva risulta inadeguata per queste altezze speculative (cfr. Convivio III, III, 15; Vita Nova XXI), e la memoria - che è facoltà più limitata rispetto a quella intellettiva non è in grado di ritenere perfettamente quanto la creatura ha visto e sentito nel momento di mistica unione con Dio (Epistola XIII, 78 e 83-84). Sulla difficoltà della traduzione del suo trasumanar (verso 70) nei termini sensibili e razionali del linguaggio, Dante ritornerà frequentemente nel corso della terza cantica: rilevare lo sforzo continuo di concretizzare un'esperienza che è al di sopra di ogni umana esperienza (Epistola XIII, 78), è compito che la critica, dal periodo romantico in poi, si è proposto come fondamentale.
Tuttavia quel tanto della visione del paradiso che io non ho potuto tesoreggiare nella mia memoria, sarà ora argomento della mia poesia.
O eccellente Apollo, riversa in me tanto della tua virtù poetica per l’ultimo lavoro (la terza cantica), quanta tu ne richiedi per concedere l’ambito titolo di poeta.
Terminata la « proposizione » inizia l'«invocazione», che proseguirà fino al verso 36. Il Poeta, secondo le regole retoriche codificate da una lunga tradizione, che ha origine nell'epica classica,chiede l'intervento delle divinità protettrici della poesia per l'ultimo lavoro, che conclude il poema sacro, rappresentandone anche il vertice artistico. Apollo era considerato, nell'antichità, guida e ispiratore dei poeti, che, in riconoscimento della loro grandezza, venivano incoronati di alloro. Quest'ultimo è amato dai poeti, che lo ritengono il traguardo piú ambito da raggiungere, e da Apollo, perché in alloro fu trasformata Dafne, la ninfa di cui il dio si era innamorato (cfr. Ovidio Metamorfosi 1, 452 sgg.).
Fino ad ora mi è stato sufficiente l’aiuto delle Muse; ma adesso mi è necessario affrontare l’ultimo argomento con il soccorso di entrambi.
Nell'Inferno (Il, 7; XXXII, 10) e nel Purgatorio (I, 9; XXIX, 40-41) era stato sufficiente l'aiuto delle Muse, rappresentanti le scienze umane e tutti i mezzi tecnici necessari ad una composizione poetica, laddove Apollo è simbolo della poesia stessa, la quale viene ispirata direttamente dal dio nel cuore del poeta. Le Muse avevano la loro sede sul Nisa (o Elicona), uno dei due gioghi del monte Parnaso, mentre l'altro, il Cirra, era occupato da Apollo. La prima cima, inoltre, rappresentava la filosofia, scienza riguardante le cose umane, la seconda la teologia, scienza riguardante le realtà divine. Per questo Apollo, "fuori della convenzione letteraria, è figuralmente Dio" (Mattalia), al quale il Poeta chiede sostegno.
Aringo era il termine indicante lo spazio dove si gareggiava nella lotta o nella corsa e, per estensione, la gara stessa.
Entra nel mio petto, e ispirami quella potenza d’ingegno di cui desti prova quando vincesti e scorticasti Marsia.
Il satiro Marsia osò sfidare Apollo ad una gara musicale, con il patto che il vincitore avrebbe potuto fare ciò che avesse voluto del vinto. Essendo stato superato nella prova, il satiro fu legato dal dio ad un albero e scorticato (Ovidio - Metamorfosi VI, 382-400).
O divina potenza, se ti concedi a me tanto che io possa esprimere la tenue immagine del paradiso che è rimasta impressa nella mia memoria,
mi vedrai venire al tuo diletto alloro, e incoronarmi poi di quelle fronde di cui l’arduo argomento e il tuo aiuto mi renderanno degno.
Così di rado, o padre (dei poeti), si colgono le foglie dell’alloro per il fatto che trionfi o un imperatore o un poeta, e ciò è colpa e vergogna dei pervertiti desideri degli uomini,
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