Purgatorio: canto V
Io mi ero ormai allontanato da quelle ombre (le anime dei negligenti), e seguivo le orme della mia guida, quando alle mie spalle, indicandomi,
una di esse gridò: « Osserva che il raggio del sole non si vede rilucere alla sinistra (Dante e Virgilio, mentre salgono, volgono le spalle a levante e il Sole, perciò, li colpisce a destra) di quello che sta sotto (Dante infatti segue Virgilio), e come sembra si comporti come un vivente!»
Quando udii queste parole volsi lo sguardo, e vidi le anime guardare con stupore me, solo me, e i raggi dei sole che erano interrotti (dal mio corpo).
Quella che ad una prima lettura può apparire come una zona poetica di passaggio o tutt'al più come un motivo preparatorio dell'intervento didascalico di Virgilio (versi 10-18), si arricchisce di risonanze profonde se consideriamo che nota caratteristica (poeticamente validissima) della seconda cantica è l'attenzione precisa con la quale il Poeta dispone già all'inizio la tonalità dominante del canto. Deciso è il movimento di Dante (e il già posto nel primo verso segna uno stacco quasi violento dal gruppo dei negligenti), ma altrettanto scattanti sono quel dito e quella voce che grida, colpita dalla vita presente nell'atteggiamento di Dante (e come vivo par che si conduca!), sul quale si ripercuote questa agitazione (li occhi rivolsi): è una breve rappresentazione drammatica che - ampliata dall'intervento di Virgilio e dalla corsa delle due anime (versi 28-29) che si trasforma in una corsa collettiva di tutte le altre (verso 42) - fa da prologo a quella ben più vasta e grave della seconda parte del canto.
« Perché, il tuo animo si lascia distrarre a tal punto » disse il maestro, « che rallenti i tuoi passi? che importanza può avere per te ciò che queste anime mormorano?
Vieni dietro a me, e lascia parlare la gente: comportati come una torre solida, la cui cima non si muove mai per quanto i venti possano soffiare;
poiché accade sempre che l'uomo nel quale continuamente un pensiero germoglia dall'altro, allontana da sé il raggiungimento della meta, in quanto l'impeto del nuovo pensiero indebolisce l'altro. »
Che cosa potevo rispondere, se non « Io vengo »? Così infatti risposi, un poco soffuso di quel rossore che talvolta (quando la vergogna non induce all'ira per essere stato colto in errore e quando la colpa non è troppo grave) rende l'uomo degno di essere perdonato.
Il rimprovero di Virgilio è apparso, ad alcuni critici, eccessivo ("ramanzina" alla quale Dante reagisce con il rossore di chi si accorge di essere bersaglio di un biasimo eccessivo, secondo il Mattalia, "rimprovero... sproporzionato a così lieve colpa", secondo il
Momigliano), troppo pedagogico, laddove il richiamo morale (che si congiunge in una stessa significazione con quello di Catone nel canto II e con, quello di Virgilio stesso nel canto
III) è il motivo lirico nel quale si trasforma il concetto teologico della fragilità dell'anima e della
necessità che la ragione (in questo caso Virgilio) sostenga la paziente attesa della Grazia. L'intensità con la quale Dante avverte questa verità è rivelata dalla potenza dell'immagine della torre, la cui cima sa opporsi anche ai venti più violenti, immagine di urto e di resistenza, mentre la espressione lascia dir le genti pare suggerire la fierezza dell'esule di fronte a quanto il mondo pispiglia.
Frattanto lungo la costa (del monte) in direzione trasversale (rispetto ai due poeti) avanzava un gruppo di anime che ci precedevano di poco, cantando il salmo « Miserere » a versetti alternati.
Quando si accorsero che non lasciavo passare attraverso il mio corpo i raggi del sole, il loro canto si trasformò in un « Oh! » lungo e fioco;
e due di loro, in qualità di messaggeri, corsero incontro a noi e ci chiesero: « Informateci della vostra condizione ».
Quelle che avanzano cantando il Salmo L, uno dei sette salmi penitenziali, sono le anime di coloro che perirono di morte violenta e che, pentitisi solo in punto di morte, devono restare nell'antipurgatorio probabilmente (Dante infatti non lo specifica) tanto tempo quanto vissero. La processione avanza lentissima, quasi i passi fossero scanditi dai tristi versetti del salmo, che sembrano ritmare anche lo stato d'animo di questi penitenti, quella cupa malinconia che dalle parole del canto si prolunga nell' « Oh! » lungo e roco. Dopo essersi ripercossa nella magica lentezza della terzina 22, troverà la tensione più acuta e nello stesso tempo più sconsolata nell'espressione noi . fummo tutti già per forza morti, con la quale le anime iniziano a rievocare la loro drammatica vicenda terrena. La stasi che sembrava stringere queste anime di perseguitati al monte, creando una raffigurazione da bassorilievo vicina a quella delle anime degli scomunicati (canto III, versi 70-72 e 91-93), è subito spezzata dall'ansiosa corsa di due di loro verso quel corpo che non dava loco... al trapassar de' raggi, e che pareva riportare in mezzo a loro la terra lontana e proprio attraverso quella realtà, il corpo, che in essi era stata colpita e umiliata.
E il mio maestro: «Voi potete ritornare e riferire a coloro che vi hanno mandato che il corpo di costui è ancora vivo.
Se essi si sono fermati perché hanno visto la sua ombra, come penso, hanno avuto una sufficiente spiegazione: lo accolgano con gentilezza, perché potrà essere prezioso per loro (chiedendo preghiere ai vivi, dopo essere ritornato nel mondo) ».
Lo Hatzfeld, commentando attentamente questo canto, trova che "la risposta di Virgilio in « stile sublime » è un capolavoro di solennità e di accorta disposizione. Vi è solennità perché Virgilio imita le parole che Cristo rivolge ai messaggeri di San Giovanni in un caso analogo (Matteo XI, 4: "Andate e riferite a Giovanni"), usa il verbo elevato ritrarre per « riferire », termine che all'epoca di Dante era riservato alle ambascerie, usa espressioni comuni nelle discussioni eucaristiche degli Scolastici (verso 33) ... L'accorta disposizione consiste nel rimandare fino all'ultimo dei sei versi ciò che è il fatto più importante per i messi, l'annunzio che Dante può aiutare i pellegrini, e ciò a sua volta viene comunicato con una velata circonlocuzione: esser può lor caro".
Non vidi mai stelle cadenti fendere il cielo sereno all'inizio della notte, né, al tramonto del sole, (vidi mai) lampi fendere le nuvole d'agosto tanto rapidamente,
Vapori accesi: poiché la scienza medievale riteneva che le stelle cadenti e i lampi avessero origine da una stessa causa, l'accensione dei vapori, essa li indicava con uno stesso termine.
che quelli non tornassero in minor tempo alla loro schiera; e, dopo esservi giunti, tornarono indietro con gli altri verso di noi come una schiera che si lancia in una corsa sfrenata.
« Queste anime che si accalcano intorno a noi sono numerose, e vengono per pregarti » disse Virgilio: « tuttavia tu continua a procedere e mentre cammini ascolta. »
« O anima che compi questo viaggio per purificarti con quel corpo al quale fosti legata fin dalla nascita » gridavano, « arresta un poco i tuoi passi.
Guarda se mai hai visto qualcuno di noi, in modo da riportare notizie di lui sulla terra: perché cammini? perché non ti fermi?
Noi un tempo fummo tutti uccisi con la violenza, e fummo peccatori fino all'ultirno istante della notra vìta: in punto di morte la grazia divina ci rese consapevoli dei nostri peccati,
in modo che, pentendoci (dei nostri peccati) e perdonando (i nostri nemici), morimmo riconciliati con Dio, che ci consuma col grande desiderio di vederLo. »
Il guizzare dei vapori accesi aveva evocato la pura visione di una notte stellata e di un sole al tramonto, ma
lungi dall'allontanare, l'attenzione del lettore dalla scena, ve la immerge totalmente, perché essa non può non seguire quella schiera tumultuosa e disordinata - dove prima c'era la compattezza e l'ordine di una processione che si accalca intorno a Dante (anche per lui non c'è respiro ìn questo canto: deve continuare quasi ansioso, quasi affannato di fronte a quell'ammonitore pur va del suo maestro). "L'ansia delle
anime che si esprime con tanta vivacità nei loro movimenti nell'intonazione della loro supplica, la quale è « gridata »
(venian gridandi), non detta, e ha un ritmo inesistente e affannoso (deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?), nasce naturalmente dal desiderio di essere ricordate nel mondo e aiutate con le preghiere ad affrettare l'espiazione, sicché più presto possano soddisfare a quella sete dì veder Dìo che le consuma (versi 56-57: Dio... che del disio di sé veder n'accora)." (Puppo) Tuttavia l'ispirazione profonda di questo canto, è da cercarsi nel tema poetìco del « corpo » che,
introdotto nei versi 25-26 e ripreso da Virgilio (verso 33), è svolto dalle anime nei versi 46-47, dove affiora la nostalgia del corpo dal quale furono staccate con la
violenza. Il dramma della separazione violenta dell'anima dal corpo, già svolto da Dante neIl'Inferno nel canto dei suicidi, dove si :trasformava nell'angoscia eterna degli uomini divenuti sterpi, percorre, naturalmente con una diversa tonalità, anche questo canto nel "sentimento vivo del destino del « corpo », del corpo involontariamente .abbandonato in una solitudine indifesa, esposto alle forze avverse della natura e del demonio" (Puppo). Questo motivo, che sembrerebbe legare in modo quasi carnale i penitenti al mondo (il Sapegno osserva che la tragedia di sangue, che concluse la loro esistenza agitata e peccaminosa e coincise con l'istante della loro conversione, crea, fra essi e il mondo, dei vivi un rapporto più stretto e doloroso", concorrendovi anche I'immagine di un dramma sempre presente alla memoria e il sentimento di non aver lasciato dietro di sé nessuno che li ami e preghi per loro"), è anche quello che li libera e li purifica: la loro vita, che fu peccaminosa, si riduce all'istante supremo della morte quando l'orrore del sangue - un orrore così straziante da ricordarlo ancora - portò con sé il desiderio struggente della pace e la forza del perdono. L'emblematica triade peccato-violenza-sangue, secondo la definizione del Mattalia, ci riporta al canto V dell'Inferno, ad altre anime che affermano: noi che tignemmo il mondo di sanguigno, ma "la tragica serie
consequenziale peccato-morte-dannazione, nell'attimo stesso di affondare nella tenebra infernale s'incurva, improvvisamente, prodigiosamente, verso l'alto: peccato-morte-salvazione.
Ed io « Per quanto vi osservi attentamente, non riconosco alcuno di voi; ma se voi desiderate qualcosa che io possa fare, o spiriti destinati alla salvezza,
ditemelo, ed io lo farò in nome di quella pace che debbo cercare attraverso i regni dell'oltretomba seguendo questa guida »
Ed uno di quegli spiriti cominciò a parlare: «Ciascuno di noi si fida del tuo servigio senza bisogno di giuramenti, a meno, che una impossibilItà indipendente impedisca dì realizzare il tuo proposito.
Perciò io, che parlo da solo davanti agli altri, ti prego, se mai tu possa vedere la Marca Anconetana (quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo: posto a sud della Romagna e a nord del regno di Napoli, governato nel 1300 da Carlo Il d'Angìò),
di essere generoso nelle tue richieste per me nella città, di Fano, cosicché per me si preghi da persone in grazia di Dio affinché possa espiare le mie gravi colpe.
Il penitente è Jacopo di Uguccione del Cassero, che nacque a Fano da
nobile famiglia. Partecipò nelle truppe guelfe alla battaglia dì Campaldino (1289); fu podestà di Bologna nel 1296-1297 e difese energicamente il Comune di fronte ai tentativi di Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara. Nel 1298 fu nominato podestà di Milano e, per evitare il territorio estense, raggiunse per mare Venezia, e attraverso il territorio di Padova si diresse verso Milano, ma fu raggiunto dai sicari di Azzo VIII nei pressi del castello, di Oriago sul Brenta e ucciso.
Nacqui in questa città, ma le ferite mortali dalle quali sgorgò il sangue nel quale risiedeva la mia anima (in sul quale io sedea: era pensiero comune, ai tempi di Dante, che il sangue fosse la sede dell'anima), mi furono prodotte nel territorio di Padova (in grembo alli Antenori: Antenore fu il troiano fondatore di Padova, secondo Virgilio - Eneide I, versi 247 sgg.).
là dove, io ritenevo di essere più sicuro (essendo fuori del territorio estense): fui ucciso per volere di Azzo VIII, che mi aveva in odio assai più di quello che fosse giusto.
Ma se io fossi fuggito verso Mira (borgo tra Padova e Oriago), quando fui raggiunto (dai sicari) nelle vicinanze di Oriago, sarei ancora nel mondo dei vivi.
Invece corsi verso una palude, e le canne palustri e il fango mi avvilupparono a tal punto, che caddi; e in quel luogo vidi il mio sangue formare in terra un lago »,
Il dramma della morte violenta si precisa in un trittico che assume man mano sfumature diverse e nel quale le "anime stesse, quanto più pure e sole, si allontanano da quel gorgo di sangue"(Apollonio). Jacopo è ancora preso dai ricordi terreni, la sua dignità di un tempo è ancora presente (io, che solo innanzi alli altri parlo), il suo linguaggio elaborato è quello del dignitario, tuttavia la sua terra è già sfumata in lontananza: basta un semplice aggettivo quel, per allontanare visivamente e sentimentalmente il paese che siede tra Romagna e quel di Carlo, laddove in Francesca l'espressione siede la terra dove nata fui (Inferno canto V, verso 97) costituisce come intensamente presente una lontananza di spazio e di tempo. La fisionomia del personaggio si precisa meglio a partire dal verso 73, perché in lui, come in Bonconte e in Pia, il punto vitale è "il modo della morte o il sentimento con cui essi la ripensano" (Momigliano). A un'impressione fortemente fisica quella che Jacopo ancora avverte, lo strazio della carne (li profondi fori), la corsa fino alla palude, l'urto contro le canne, il peso del fango che pare voglia attirarlo a sé, la caduta,
infine il rosso del sangue intorno, e tuttavia non c'è nessun accento d'odio verso il suo assassino (verso 77). La pace conquistata in punto di morte, che ha prima esaltato insieme con le altre anime, fa sì che contempli quel lago di sangue come "qualche cosa di estraneo, di staccato, quasi di materiale, che si adegua alla terra, mentre prima proprio in esso risiedeva quell'io che ora lo contempla distinto da sé" (Puppo).
Poi parlò un altro spirito: « Possa realizzarsi quel desiderio (il ricongiungimento a Dio) che ti porta verso l'alto monte del purgatorio, (in nome di questo augurio) cerca di aiutare il mio (che è identico al tuo) con preghiere efficaci !
Appartenni alla casata dei Montefeltro, sono Bonconte: Giovanna (vedova di Bonconte) o altri miei parenti non si preoccupano di me; per questo cammino fra costoro a fronte bassa ».
Bonconte da Montefeltro fu figlio di Guido, da Dante posto nell'inferno fra i consiglieri fraudolenti (canto XXVII, versi 19 sgg.), e come il padre fu acceso ghibellino. Ebbe molta parte nella cacciata dei Guelfi da Arezzo (1287) e nella sconfitta che gli
Aretini inflissero ai Senesi alla Pieve del Toppo (1288). Comandò i Ghibellini di Arezzo nella guerra contro Firenze, che culminò nella battaglia di Campaldino (1289), nella quale Bonconte morì; il suo corpo non fu più
ritrovato.
E io gli risposi: « Quale forza (umana o divina) o quale caso fortuito ti trascinò così lontano da Campaldino, che non si conobbe mai la tua sepoltura? »
Dante combatté nella battaglia di Campaldino fra i "feditori" a cavallo, ma nella parte guelfa. Di fronte al nemico di un tempo, una sola è la sua preoccupazione: sapere come Bonconte morì e quale fu la sua sepoltura. Mentre ci riportano al tema fondamentale del canto, quello della morte, le sue parole sono la logica conseguenza di quelle con cui il suo nemico si è presentato (io fui da
Montefeltro, io son Bonconte), scandendo "il distacco dal mondo terreno con le sue effimere determinazioni di luoghi, di titoli, di potenza"(Grabher), perché "ora gli resta solo quel che veramente non muore e cioè la sua interiore persona legata ancora al suo nome: io son Bonconte"; anche gli affetti terreni sono persi, ed egli si isola dagli altri in una solitudine che non è quella orgogliosa di un Farinata, ma quella dolente di chi medita intorno alla brevità dei beni mondani. Commentando questo incontro, il Puppo rileva che "al livello del purgatorio, dove entrambi si trovano nel faticoso cammino della perfezione, le antitesi politiche hanno perduto qualsiasi significato, come l'hanno perduto tutte le dignità e le distinzioni terrene... Fra Dante e Farinata poteva accendersi il duello delle affilate parole; non fra Dante e Bonconte".
« Oh! » rispose, « ai piedi dei monti del Casentino scorre nella valle un torrente chiamato Archiano, che nasce sull'Appennino sopra l'eremo di Camaldoli.
Arrivai, ferito alla gola, nel punto in cui esso perde il suo nome ('l vocabol suo diventa vano: perché si getta nell'Arno), fuggendo a piedi e insanguinando la terra.
Qui i miei occhi si velarono, e la mia voce si spense pronunciando il nome di Maria, e qui caddi e il mio corpo rimase inanimato.
La grandiosità della figura di Bonconte nasce non dallo scontro delle potenze infernali con quelle angeliche per il possesso della sua anima, ma dallo sfondo paesistico sul quale si distende non più la piccola palude di Jacopo, ma la lunga catena dei monti del Casentino, mentre lontano domina, nella sua superba solitudine, quasi simbolo ammonitore di una pace ottenuta solo nel distacco dal mondo, l'eremo di Camaldoli. La corsa affannosa di Bonconte, nel vano tentativo di salvarsi dall'odio dei nemici, non è nascosta subito dal fango, ma campeggia in tutto il piano, diventando qualcosa di epico: il suo sangue è "una striscia che riga la pianura con straziante evidenza" (Puppo), in contrapposto al lento allargarsi della pozza di sangue di Jacopo. Il paesaggio, prima così nitido e preciso, osservato quasi con gli occhi di un capo militare, ancora padrone di sé, si vela improvvisamente davanti a lui, mentre appare il lume del ciel, finché anche per lui "il cadere e il morire è tutt'uno. Non rimane che il peso inerte della carne; sola perché senz'anima; sola anche materialmente, un piccolo mucchio nella vasta campagna. I due versi precedenti costituiscono un'unità ritmica che si arresta sul caddi: poi, il rimanente del verso terzo ha suono martellato e solenne" (Bosco), segnando in tal modo "tre gradi della morte: il velarsi della vista, lo spegnersi sulle labbra della parola, il cadere".
Ti racconterò cose vere e tu le riferirai nel mondo dei vivi: l'angelo di Dio prese la mia anima, mentre il diavolo gridava: "Perché mi privi di quest'anima peccatrice, tu che sei un angelo del cielo?
Porti via con te l'anima di costui per una lagrimuccia che me la sottrae; ma userò per il corpo (dell'altro) un trattamento ben diverso!"
L'episodio di Bonconte s'inoltra nella parte più propriamente fantastica, dove il Poeta risolve in termini inventivi quella che era l'ipotesi comune intorno alla scomparsa di Bonconte, e di molti altri, dopo la battaglia di Campaldino: che i loro corpi fossero stati travolti dalle acque dell'Arno in piena.
La critica, concordemente accosta questo contrasto fra l'angelo e il diavolo (uno dei tanti "contrasti" della tradizione letteraria e figurativa del Medioevo) a quello fra San Francesco e il diavolo per l'anima del padre di Bonconte, Guido, nel canto XXVII dell'Inferno. Poiché la ricerca di simmetria ha un suo profondo valore in Dante, nella convergenza o divergenza di significati, occorre rilevare - d'accordo col Sapegno - che mentre quel primo contrasto voleva indicare l'inutilità di un lungo periodo di penitenza, se esso è interrotto da un peccato senza pentimento, questo sottolinea come un solo attimo di penitenza basta a salvare un'anima, essendo il giudizio di Dio indipendente dalla opinione umana.
Tu sai con chiarezza come nell'aria si raccoglie il vapore acqueo che si trasforma di nuovo in acqua, non appena sale nella regione fredda del cielo.
Sopraggiunse il diavolo che desidera soltanto il male con il suo intelletto, e provocò il vapore acqueo e il vento con quel potere che gli proviene dalla sua natura.
Poi, non appena giunse la notte, coperse di nebbia la valle (di Campaldino) dal monte Pratomagno alla Giogaia di Camaldoli; e provocò nel cielo un così grande ammasso di vapori,
che l'aria satura di nubi si convertì in acqua: cadde la pioggia e quella parte di essa che la terra non riuscì ad assorbire si raccolse nei fossi;
e quando raggiunse i torrenti, si convogliò verso l'Arno (fiume real: secondo l'espressione usata nel Medioevo per indicare i fiumi che sfociano in mare) con tanta velocità, che nessun ostacolo potè trattenerla.
L'Archiano in piena trovò il mio cadavere alla sua foce, e lo spinse nell'Arno, e sciolse dal mio petto la croce
che avevo fatto delle mie braccia quando mi aveva sopraffatto il dolore del pentimento: mi voltò lungo le rive e sul fondo; poi mi coperse e mi nascose con i suoi detriti. »
Poiché é la voce di Bonconte che racconta, la lunga inserzione scientifica, se pare diminuire momentaneamente il grado di tensione, testimonia il distacco con cui il penitente osserva l'ultimo giorno della sua. vita. La salma diventa ara "il punto, prospettico di convergenza del fantastico e grandioso quadro della bufera ..." (Mattalia); contro di essa si getterà il movimento che, iniziato con ritmo. dapprima lento, (mosse il fummo e 'l vento), assumerà man mano, nelle diverse fasi, un impeto travolgente (si converse.. cadde... venne... si convenne si, ruinò ... ), finché troverà la sua preda. C'è un accanimento al quale hanno concorso le forze naturali e quelle savrannaturali, laddove contro Manfredi (al cui episodio ci riporta la scena della tempesta e dell'oltraggio fatto al corpo) era soprattutto il cieco odio di una povera umanità che ignorava la misericordia divina. Dapprima l'anima distingue separato da sé il suo corpo gelato, chiuso nella maestà della morte, ma, quando l'acqua lo ghermisce trascinandolo con sé, "improvvisamente essa si identifica con questo, dice voltommi; dice mi coperse e cinse. Torna dunque alla fine esplicito l'accoramento di Bonconte per fl misero corpo: accoramento per la cieca crudeltà degli uomini" (Bosco).
« Quando sarai tornato nel mondo, e ti sarai riposato del lungo cammino », disse un altro spirito dopo il secondo,
«ricordati di Pia: Siena mi diede i natali; la Maremma mi diede la morte; (come morii) lo sa colui che prima mi aveva dato l'anello nuziale
prendendomi in moglie. »
Nei versi 135-136 Dante allude a una sola cerimonia: la promessa dì prendere in moglie e la consegna dell'anello, mentre le nozze vere e proprie erano celebrate
più tardi in casa dello sposo. Parla Pia, una senese appartenente forse alla famiglia dei Tolomei. Sposò Nello d'Inghiramo dei Pannocchíeschi, signore del castello della Pietra in Maremma. Secondo alcuni antichi commentatori sarebbe stata uccisa dal marito che voleva sposarsi con Margherita Aldobrandeschi, secondo altri sarebbe stata uccisa per una sua infedeltà, secondo altri ancora per sospetto di infedeltà.
Se tuttavia la critica romantica ha creato il mito dì una Pia vittima innocente, contrapposta alla peccatrice Francesca, non è inutile ricordare che Dante la pone fra coloro che furono peccatori infino all'ultima ora.
L'apparizione di questa figura, nella quale la preghiera sicura di sé di Jacopo e quella più incerta e sofferente di Bonconte, si purifica nella dolce preoccupazione per Dante (quando tu sarai... riposato della lunga via), avviene dopo che il crescendo ritmico della bufera si era placato in uno di quei versi (verso 129) che il Bosco definisce "definitivi" e che "così caratteristicamente suggellano in Dante un motivo drammatico", segnando nella "sinfonia lo stacco tra il terzo tempo, così mosso e drammatico, e il quarto, un pianissimo elegiaco". Ma anche se, sempre secondo l'analisi del Bosco, la poesia dei due episodi precedenti è « fatto », perché è soprattutto costituita dal paesaggio, dal gesto, dal colore, è "un
visibile parlare e soffrire", non si possono dissolvere le parole di Pia in una semplice suggestione musicale, come tende a fare anche il Momigliano. Il verso 134 ha una sua forza interiore che ripropone ancora una volta il tema del distacco (disfecemi) innaturale dell'anima dal corpo, anche se il movimento drammatico dei due episodi precedenti "si contrae e si smorza nell'ultimo, che da questa smorzatura musicale acquista il suo fascino poetico" (Puppo), anche se Pia, più ancora che Jacopo e Bonconte, vela la sua vita e la sua morte, e, nell'accenno a colui che fu causa della sua fine, accanto al perdono, fa vibrare pur sempre un sentimento di amore.
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