LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto VI

Quando si divide e si scioglie il gruppo dei giocatori nel gioco dei dadi, il perdente resta solo e addolorato, tentando e ritentando nuove gettate, e malinconico cerca di imparare (a far meglio per il futuro)

mentre tutti g li spettatori se ne vanno col vincitore; c'è chi gli va innanzi, e chi lo sollecita tirandogli l'abito alle spalle, e chi gli si raccomanda standogli di fianco:

ma il vincitore non si ferma, e porge orecchio ora a questo ora a quello; colui al quale tende la mano (dandogli qualche cosa), non insiste più; e in tal modo egli si difende dalla ressa.

Il Poeta allude a un gioco di dadi diffusissimo. benché vietato dagli statuti comunali, nel secolo XIV in tutta Italia (e in molte parti d'Europa), consistente nell'indovinare in anticipo i numeri che risultavano dalla combinazione di tre dadì gettati su un tavoliere, mentre intorno ai giocatori si affollavano i curiosi: una scena alla quale Dante avrà tante volfe assistito sulla piazza del Mercato Vecchio di Firenze. Questa osservazione dal vero spiega il realismo dal ritmo vivace e incalzante di questa similitudine, staccando decisamente l'esordio del canto VI dal tono mestamente elegiaco con il quale terminava il canto precedente, La differenza tonale ha fatto osservare al Gentile che "la tragedia scende fino alla farsa", e al Momigliano che "I'immagine è lavorata come un pezzo a sé, con una scarsa aderenza al contesto". Tuttavia se la mescolanza di stili (tante volte osservata nell'Inferno) si giustifica con la libertà di cui il Poeta deve disporre per realizzare di volta in volta la sua ispirazione, la sua presenza anche nel Purgatorio non può essere motivo di stupore, anche perché "in Dante la preoccupazione della sintonia che diremo interna, qualitativa, delle comparazioni non è costante né preminente" (Mattalia). Inoltre, considerando l'importanza che il Poeta conferisce sempre.agli esordi dei canti, non si può non vedere nella similitudine della zara il contrappunto alla solennità dell'episodio di Sordello e nello stesso tempo il richiamo al tema fondamentale della seconda cantica, la richiesta di preghiere: richiamo tanto più importante in quanto proviene da coloro che furono vittime della malvagità del mondo e che ora sono uniti al mondo solo dal sacro legame della preghiera.

Così mi trovavo io in mezzo a quella fitta schiera, guardando verso di loro ora a destra, ora a sinistra, e promettendo (di fare quanto ciascuno mi chiedeva) me ne liberavo.

Tra quelle anime c'era l'Aretino che fu ucciso ferocemente da Ghino di Tacco, e l'altro (Guccio dei Tarlati) che annegò mentre inseguiva i nemici.

Dante inizia la rassegna delle anime dei morti violentemente con la figura di Benincasa da Laterina (nel territorio di Arezzo), famoso giureconsulto del XIII secolo. Mentre era vicario del podestà di Siena, condannò a morte uno zio e un fratello di Ghino di Tacco, un senese divenuto famoso "per la sua fierezza e per le sue ruberie" (Boccaccio - Decamerone X, II, 5), il quale si vendicò uccidendo Benincasa in una sala dei tribunale a Roma.
L'attro ch'annegò correndo in caccia è Guccio dei Tarlati da Pietramala, appartenente a una famiglia ghibellina di Arezzo, vissuto nella seconda metà dei '200; mori annegando nell'Arno, mentre combatteva contro i fuorusciti guelfi della famiglia dei Bostoli.


Qui pregava con le mani tese Federigo Novello, e qui c'era Gano, il quale dette al padre, il virtuoso Marzucco, l'occasione di mostrare la sua forza d'anímo.

Federigo Novello dei conti Guidi fu ucciso nel 1289 o nel 1291 presso Bibbiena da uno dei Bostoli.
Quel da Pisa fu, secondo gli antichi commentatori, Farinata, figlio di Marzucco degli Scornigiani, e venne assassinato da un pisano suo concittadino; secondo gli ultimi studi si tratterebbe invece di Gano, un altro figlio di Marzucco, che fu fatto uccidere dal conte Ugolino nel 1287. Marzucco era entrato l'anno prima nell'ordine francescano, e dimostrò la sua forza d'animo sia nell'accettazione serena di quel dolore, sia nella decisione con la quale si oppose ad ogni tentativo di vendetta da parte dei suoi consorti: "e così ordinò poi che si fece la pace, ed elli volse baciare quella mano che avea morto lo suo figliuolo" (Buti).

Vidi il conte Orso e vidi pure colui che ebbe l'anima divisa dal suo corpo per odio e per invidia, com'egli diceva, e non per colpa commessa;

voglio dire Pierre de la Brosse (Pier dalla Broccia); e riguardo a ciò, mentre è ancora in vita, la regina di Brabante provveda (in tempo a purificarsi del male commesso), onde per questo non vada a far parte di una moltitudine peggiore (di quella di cui fa parte Pierre de la Brosse, cioè fra i falsi accusatori della decima bolgia).

Orso degli Alberti, figlio del conte Napoleone, fu ucciso nel 1286 dal cugino Alberto, figlio del conte Alessandro. Continuava in tal modo la catena di odi e di vendette sanguinose che era iniziata con i padri di Orso e Alberto, che Dante ha posto nella Caina (Inferno XXXII , 41 sgg.).
Pierre de la Brosse, nato da umile famiglia, divenne medico alla corte di Francia al tempo di Luigi IX e di Filippo III l'Ardito, dal quale fu nominato gran ciambellano. Allorché nel 1276 morì misteriosamente il primogenito di Filippo, Luigi, egli accusò Maria di Brabante, seconda moglie del re, di esserne responsabile per potere, in tal modo, assicurare il trono al proprio figlio Filippo il Bello. Attiratosi l'odio della regina, due anni dopo, durante la guerra tra la Francia e Alfonso X di Castiglia, fu accusato di tradimento e condannato a morte. Secondo alcuni antichi commentatori, invece, la regìna lo avrebbe accusato di avere tentato di sedurla. Dante lo considera innocente e vittima, come Pier delle Vigne, dell'invidia, morte comune, delle corti vizio (Inferno XIII, 60).


Quando fui libero da tutte quelle anime che mi pregavano soltanto perché inducessi altri a pregare per loro, in modo da affrettare la loro purificazione,

io dissi a Virgilio: « Sembra, o maestro, che in un passo del tuo poema tu neghi esplicitamente, che la preghiera possa mutare un decreto divino;

e queste anime soltanto per questo pregano: la loro speranza sarebbe dunque vana, oppure non mi è ben chiaro il tuo testo? »

Ed egli mi rispose, « La mia espressione è chiara; e la speranza di costoro non è fallace, se si medita bene con la mente sgombra da erronee opinioni;

poiché la sublime altezza del giudizio divino non s'abbassa per il fatto che l'ardore di carità (di chi prega per costoro) porti a perfezione in un momento solo quell'espiazione a Dio dovuta da chi ha in questo luogo la sua dimora;

e in quel passo dove feci questa affermazione, la mancanza dell'espiazione non poteva essere corretta con la preghiera, perché essa era da Dio (essendo fatta da pagani).

Dante ricorda la risposta che la Sibilla diede a Palinuro, il quale la pregava di essere traghettato oltre l'Acheronte pur non avendone diritto, in quanto era insepolto: "cessa di sperare che i decreti divini possano essere piegati con la preghiera" (Eneide canto VI, verso 376). Questa affermazione gli pare in contrasto con l'atteggiamento delle anime invocanti preghiere che possano modificare la legge divina, mentre Virgilio chiarisce il dubbio: la preghiera nel mondo pagano non era indirizzata al vero Dio, perciò essa non poteva offrire alcun aiuto, né sopperire ad alcuna mancanza (nel caso di Palinuro la mancanza di sepoltura), mentre la preghiera cristiana soddisfa quanto richiede la sentenza divina, la quale resta immutabile, ma permette, con la sua misericordia, che venga completato, attraverso questo foco d'amor, il riscatto che è dovuto dall'anima del peccatore. Digressione oziosa secondo alcuni critici (Momigliano), secondo altri invece (Mattalia), è un interessante documento storico-culturale: esso infatti testimonia la lettura in chiave allegorica che veniva fatta delle opere classiche nel Medioevo, allorché gli interpreti, con squisite sottigliezze, cercavano "il punto d'incontro e di sutura tra la « favola » e la lettera del testo interpretato, e le verità «cristiane» che dall'una e dall'altro s'intendeva ricavare". Tuttavia questi versi costituiscono un'opaca pausa meditativa condotta secondo uno stanco modulo didascalico (el par che tu mi nieghi... la mia scrittura è piana) che il Poeta tenta faticosamente di risollevare con la preziosità espressiva del verso 37, nella ricercata contrapposizione di cima a s'avvalla, riuscendo forse meglio a determinare il suo pensiero nell'improvviso lampeggiare di quel foco damor che dalla terra sembra innalzarsi per muovere chi qui si stalla.

Tuttavia non devi fermare il travaglio della tua mente di fronte a un dubbio così arduo, se non te lo dirà colei che farà da tramite tra la verità (sovrannaturale) e il tuo intelletto:

non so se mi comprendi; io intendo parlare di Beatrice: tu la vedrai in alto, sulla vetta di questo monte, sorridente e felice».

E io gli dissi: « Sìgnore, camminiamo più in fretta, perché ora non sento più la fatica come prima, e vedi ormai che il monte (essendo le prime ore del pomeriggio) proietta la sua ombra ».

Egli rispose: « Continueremo ormai a salire finché dura il giorno, quanto più potremo; ma la realtà è diversa da quello che tu giudichi.

Virgilio, che aveva terminato la sua spiegazione esortando il discepolo a completare la chiarificazione offertagli dalla ragione con quella che farà Beatrice, quale simbolo della teologia, anticipa quasi una visione paradisiaca (versi 47-48), davanti alla quale Dante assume un atteggiamento "così schietto e ingenuo che ha qualche cosa dell'infantile", compiendo "lui le parti che di solito fa Virgilio, stimolando alla fretta... affermando anche di non sentir più la fatica di prima, il che non è vero o è un effetto tutto psicologico dell'idea di veder Beatrice" (Porena). Con questo tratto umanissimo il Poeta dissipa la durezza narrativa dei versi precedenti, incentrando nella sua figura quello slancio d'ascesa che si manifesterà come desiderio di ordine morale e come forza di missione profetica nell'episodio di Sordello. Questa particolare prospettiva giustifica la dimensione strutturale e poetica della rassegna delle anime (versi 13-24), che, ben lontana dal voler "glorificare talune illustri casate toscane", come invece ritiene il Novati, profilava "a poco a poco l'immagine di una società profondamente corrotta, in cui è venuto meno ogni senso di ordine e di giustizia: prepotenza di tiranni e di briganti, guerre di comuni e di partiti, smania di dominio e di ricchezza che acquisce fino al delitto le rivalità familiari, invidie e calunnie cortigiane" (Sapegno), spingendo il Poeta "a riprendere in esame le cause profonde di questa ingiustizia e di questo disordine sociale".

Prima che tu giunga sulla vetta, vedrai sorgere più volte, il sole, che ora già si nasconde dietro la costa del monte, cosicché tu non interrompi più i suoi raggi (proiettando la tua ombra).

Ma vedi là quell'anima che sta tutta sola e che guarda insistentemente verso di noi: essa ci mostrerà la via più breve ».

Quella che appare è l'anima di Sordello da Goito (nel Mantovano), nato da una famiglia di nobìltà campagnola all'inizio del '200. Fu il più famoso fra i trovatori italiani e Dante nel De Vulgari Eloquentia (I, XV, 2) loda grandemente la sua poesia. Dapprima visse alla corte di Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona, la cui moglie, Cunizza da Romano, celebrò nei suoi versi. Tra il 1224-1226 rapì o favorì la fuga di Cunizza dalla casa del marito, e fu costretto a riparare nella Marca Trivigiana; ma dovette ben presto, in seguito, ad altre non chiare vicende, rifugiarsi alla corte di Raimondo Berlinghieri, in Provenza. Passò poi al servizio di Carlo d'Angiò, seguendolo nella spedizione in Italia contro Manfredi e ricevendo in feudo alcune località dell'Abruzzo. Morì intorno al 1270.
Uno dei motivi principali per cui Dante lo ha scelto come protagonista dell'episodio che si apre, è da vedersi in due componimenti poetici di Sordello, il Compianto per la morte di ser Blacatz, in cui sottopone a severo e spregiudicato giudizio i re e i principi del suo tempo, e il poemetto Ensenhamen d'onor, nel quale rimprovera quei ricchi e quei potenti che si sono allontanati dalle leggi di cortesia e di virtù proprie del mondo cavalleresco. A buon diritto perciò, isolata dalle altre anime della "valletta fiorita", la sua figura in questo canto può offrire l'occasione di criticare il disordine politico del mondo e nel canto successivo la sua voce può indicare e giudicare i potenti della terra.


Ci avviammo verso di lei: o anima lombarda, come te ne stavi altera e sdegnosa e com'eri dignitosa e grave nel muovere i tuoi occhi!

Essa non ci diceva nulla, ma ci lasciava avanzare, seguendoci solo con lo sguardo attento come un leone quando si riposa.

Soltanto Virgilio le si avvicinò, pregandola che ci indicasse la strada migliore per salire; ed essa non rispose alla sua domanda,ma chiese notizie sulla nostra patria e sulla nostra condizione; e mentre la mia dolce guida cominciava a dire: « Mantova ... », quell'ombra, tutta solitaria e raccolta in se stessa,

si levò dal luogo dove stava prima protendendosi verso di lui, dicendo: « O mantovano, io sono Sordello, della tua stessa terra! »; e si abbracciavano l'un l'altro.

Tutta la critica romantica ha visto in Sordello la figura stessa dell'Alighieri, ardente di amor di patria, cercando nell'atteggiamento e nel gesto del trovatore mantovano l'atteggiamento e il gesto del Poeta fiorentino. Ma se grande fu la simpatia "che Dante, poeta ed esule, errabondo di corte in corte, dovette sentire per questo poeta, protagonista di una fortunosa vicenda biografica, uomo di corte e pur ardito giudice di re e principi" (Mattalia), evidenziare i punti di contatto non significa dimenticare la sapientissima costruzione poetica della sua figura. La solitudine e il silenzio del paesaggio al tramonto - secondo l'osservazione del Momigliano - si legano con la solitudine e il silenzio di Sordello, accrescendone la solennità, avvertendo che la vita del personaggio procede tutta da una concentrazione spirituale, da una tensione (o anima lombarda, come ti stavi altera e disdegnosa), la quale, chiude nell'intimo questa immagine statuaria "più sbozzata forse che accuratamente scolpita" (Novati) e che rivelerà la sua violenza nel gesto improvviso, animando esteriormente il suo dramma. Il Croce ha definito Sordello il Farinata del Purgatorio, puntualizzando la stessa imponenza fisica e la stessa grandezza morale e politica, ma "in Farinata non c'è raccoglimento bensì un imporsi per mezzo di sentimenti umani violenti, e un proceder per spigoli del discorso e un intervallar frequente di pause... qui è una solennità pacata che irradia una luce la quale ha in sé una forza nascosta d'attrazione; la poesia di Sordello si scioglie in un impeto di calore affettivo, il quale è il termine di quella sua chiusa interiorità che l'ha fatta maestosa. Per questo il moto espressivo ha una caratteristica apertura, ed entro questo tono il canto si sviluppa nell'invettiva all'Italia, che è oratoria retta da sostenutezza sentimentale ed espressiva" (Malagoli).

Ahi, schiava Italia, albergo di dolori, nave senza pilota nel mezzo d'una immane tempesta, non più signora di popoli, ma luogo di turpitudine!

Quell'anima nobile lì, nel purgatorio, fu così pronta a far festa al suo concittadino, solo al sentire il dolce suono del nome della sua terra;

mentre ora dentro i tuoi confini non sanno stare senza guerra i tuoi abitanti, e quelli che sono chiusi entro le mura e il fossato (d'una stessa città) si dilaniano l'un l'altro.

Guardati, infelice, intorno cominciando dalle coste del mare che ti circonda, e osserva poi il tuo territorio interno, e vedi se ti riesce di trovare una regione sola che goda pace.

Termini pregnanti di significato politico o giuridico e metafore di larga analogia, espressioni di pacata dolcezza e immagini di aspra violenza contraddistinguono la prima parte dell'invettiva, che secondo il Gentile si svolge in quattro motivi: "apostrofe all'Italia lacerata dalle fazioni, dimentica delle sacre leggi pacificatrici dell'Impero (versi 76-96); apostrofe all'imperatore tedesco distratto, immemore, negligente del suo divino mandato (versi 97-117); invocazione di Dio, che solo conosce le ragioni e i fini del disordine politico e sociale che permette (versi 118-126); invettiva ferocemente sarcastica contro Firenze: la grande inferma (versi 127-151)".
L'aggettivo serva richiama molteplici passi della Monarchia, dove il concetto di servitù, nel campo morale, è legato al peccato, nel campo politico, alla mancanza di leggi, essendo veramente libero solo chi vive secondo la legge morale e politica. Già nel Convivio (IV, IV, 5) la nave è figura della comunità, dello Stato, in cui un potere supremo unifica le funzioni e le suddivisioni dei singoli, mentre in una glossa del COrpus luris Civilis (la famosa raccolta di leggi fatta fare da Giustiniano) l'Italia viene chiamata "non provincia sed dornina provinciarum, non semplice provincia, ma prima fra tutte le province. Dopo il primo furore biblico, lo sguardo del Poeta ritorna al gruppo di Virgilio e di Sordello, uniti dal vincolo dell'amor di patria anche nell'oltretomba, mentre in Italia ogni comunità civile si è sfaldata, effetto ultimo e più grave del disordine politico che dilaga nella penisola. Balza evidente da questa requisitoria "la idea e il sentimento di patria, come elemento primo e assoluto di fusione o di conciliazione o di caldi incontri, al di sopra di ogni distinzione e considerazione. A Farinata Dante, per il convegno di Empoli, ha perdonato in parte Montaperti, pesando sulla giusta bilancia il bene e il male, ma non ha forse dimenticato di esserne stato accolto col moto sopraccillare di nobilesco disdegno proprio di chi ama segnare, socialmente e politicamente, le distanze. Si può osservare che l'esempio offerto da Virgilio e Sordello è di amor patrio regionale o municipale, non nazionale, come amarono vedere gli interpreti dell'Ottocento: la requisitoria di Dante, in effetti, che per questo riprende e inquadra in una prospettiva più ampia il motivo politico del VI canto dell'Inferno, (dramma di Firenze), corre sul binario-motivo del disordine generale dovuto alla carenza dell'autorità imperiale, estesosi fino ad alterare e dissociare le fibre delle collettività comunali, E dall'indicazione delle cause generali (carenza dell'autorità imperiale degradazione, apportatrice di confusione, del magistero spirituale della Chiesa) la spietata e dura diagnosi procede, esemplificando, fino a concludersi con l'amaro-sardonico elogio dì Firenze, esempio quintessenziale di feroce lacerazione e di instabilità politica. Altro e diretto punto di raccordo col VI dell'Inferno" (Mattalia).


A che è servito che Giustiniano ti abbia aggiustato il freno del vivere civile (con le leggi) se ora non hai in sella l'imperatore (che fa osservare le leggi)? Senza questo freno oggi la tua vergogna sarebbe minore (perché un popolo senza leggi non è colpevole della sua anarchia).

Ahi, gente di Chiesa, che dovresti dedicarti solo a opere di pietà, e lasciar sedere l'imperatore sulla sella (a esercitare l'autorità civile), se comprendi rettamente quello che Dio ti ha prescritto,

osserva come questa cavalla è diventata ribelle per il fatto che non è guidata e domata dagli speroni dell'imperatore, da quando hai preso in mano la sua briglia.

La missione che Dante si è proposto è una missione di salvezza spirituale e insieme di salvezza terrena, essendo la prima, nel suo pensiero, legata alla seconda, cioè alla efficiente ricostituzione dell'impero, che, solo, può garantire all'umanità la pace e la giustizia di cui essa ha bisogno al fine di conseguire la felicità temporale: questa, eliminando ogni odio e divisione e aiutando l'uomo ad esplicare le sue virtù, crea le premesse della felicità eterna. Giustiniano (imperatore d'Oriente dal 527 al 565), riordinando il diritto romano nel suo Corpus Iuris (base di tutta la dottrina giuridica del medioevo), e costituendolo fondamento di ogni vivere civile, aveva voluto essere "lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa!" (Convivio IV, IX, 10). Quello, però, che ha concorso grandemente alla rovina dell'autorità imperiale è stato l'intervento in campo temporale della Chiesa, che ha violato l'ordine esplicito di Cristo (Matteo XXII, 21; Giovanni XVIII, 36).

O Alberto d'Asburgo, che abbandoni a se stessa questa cavalla divenuta indomita e selvaggia, mentre dovresti inforcare i suoi arcioni,

scenda dal cielo una giusta punizione sopra te e la tua stirpe, e sia una punizione inaudita e chiara, e tale che il tuo successore ne concepisca timore!

Perché tu e il padre tuo, tutti presi dalla cupidigia degli interessi della Germania, avete tollerato che l'Italia, il giardino dell'impero, fosse devastata.

Alberto I d'Asburgo fu imperatore dal 1298 al 1308 e assorbito, come un tempo il padre Rodolfo I, dalle preoccupazioni del regno tedesco, trascurò la situazione politica italiana, sempre più complessa e caotica. Su di loro il Poeta invoca la vendetta divina che, nell'interpretazione della maggior parte dei commentatori, si sarebbe abbattuta con la morte precoce di Rodolfo, figlio primogenito di Alberto (giugno 1307) e con la morte dello stesso Alberto (ucciso nel giugno 1308), il cui successore fu Arrigo VII.

Vieni a vedere, o uomo senza interesse, i Montecchi e i Cappelletti, i Monaldi e i Filippeschi: quelli ormai vinti, e questi pieni di timore!

Vieni, o uomo crudele, vieni a vedere le umiliazioni e le dìfficoltà della tua nobiltà, e poni rimedio alla sua rovina; e vedrai Santafiora come è tranquilla!

Vieni a vedere la tua Roma che piange nella sua solitudine e vedovanza, e giorno e notte invoca: « 0 mio re, perché mi abbandoni? ».

Vieni a vedere come la gente d'Italia si vuol bene! e se non vi è alcun sentimento di pietà verso di noi che ti possa commuovere, vieni a cogliere la vergogna del discredito (che ti sei procurato con il tuo disinteresse).

Dante presenta in sintesi la situazione di colei che dovrebbe essere, in quanto culla della civiltà romana e sede della cattedra di Pietro, il giardin dell'Europa. Non si sa se il Poeta indichi in questi versi famiglie della stessa città in lotta fra loro o famiglie ghibelline di città diverse. Secondo le ultime ricerche storiche, tuttavia, il nome di Montecchi e di Cappelletti indicava nel '300 non le due famiglie veronesi nemiche, ma il partito imperiale e quello ante imperiale, il primo già battuto, il secondo ormai incapace di dominare i signori delle diverse città. Mentre questa è la situazione nell'Italia settentrionale, nell'Italia centrale, a Orvieto, ferve la lotta fra i Monaldi guelfi e i Filippeschi ghibellini, ormai prossimi alla rovina, che ha già fatto scomparire, di fronte all'incalzare dei Comuni. tutte le famiglie che reggevano feudi imperiali (versi 109-110), fra le quali anche gli Aldobrandeschi, signori di Santafiora, nella zona di Monte Amiata.
La degradazione dell'Italia è totale e trascina con sé anche, Roma, la città imperiale,, la cui immagine di desolazione e di abbandono richiama un versetto delle Lamentazioni di Geremia (I, 1) sulla distruzione di Gerusalemme.


O Cristo che sulla terra fosti per noi crocifisso, se ciò mi è permesso, ti chiedo: la tua giustizia si è rivolta altrove?

Oppure nell'abisso della tua sapienza permetti, tutto questo in preparazione di qualche bene totalmente inaccessibile al nostro intelletto?

Poiché le città d'Italia sono tutte piene di tiranni, e qualsiasi villano che diventa capo di una fazione assume di fronte all'impero atteggiamento di un Marcello (appartenente al partito pompeiano e console nel 50 a. C., fu acerrimo nemico di Cesare).

Tu Firenze mia, puoi proprio esser lieta di questa digressione che non ti sfiora, grazie al tuo popolo che s'ingegna per il tuo bene.

All'indignazione e al pathos sottentrano nuovamente l'ironia e il sarcasmo; come se, toccando di Firenze e accostandosi alla ragione più intima e segreta della sua pena, il Poeta si sforzasse di allontanare da sé ogni impulso di compassione e dì giustificazione; ma alla fine la pietà, lungamente trattenuta, prevale e l'invettiva torna a risolversi in elegia." (Sapegno)

Molti (in altre città) hanno in cuore il senso della giustizia, eppure lentamente si manifesta, per non essere espresso sconsideratamente; invece il tuo popolo ha sempre la giustizia sulle labbra.

Molti (altrove) rifiutano le cariche pubbliche; invece il tuo popolo senza essere chiamato risponde sollecito, grìdando: « Io sono pronto ad accettare il grave peso delle cariche!»

Ora rallegrati, perché ne hai proprio motivo, tu sei ricca, tu sei in pace, tu sei saggia! I fatti dimostrano la verità che io affermo.

Atene e Sparta, che fecero le antiche leggi ed ebbero una civiltà tanto elevata, riguardo a una ordinata vita civile fecero appena un insignificante tentativo

in confronto di te che decidi provvedimenti tanto ingegnosi e fragili, che quello che escogiti in ottobre non giunge alla metà di novembre.

Quante volte, in questi ultimi anni hai cambiato leggi, moneta, cariche e costumi e hai rinnovato (secondo il prevalere delle fazioni e il susseguirsi degli esili) i tuoi cittadini!

E se ti ricordi bene e non sei completamente cieca, ti scoprirai somigliante a quell'inferma che non riesce a trovare riposo nemmeno giacendo sulle piume,

e voltandosi e rivoltandosi sui fianchi, cerca invano di fare schermo al suo dolore.



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it