LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto VII

Salve , o santo Dio degli eserciti, che rendi più luminosi con la tua luce i beati splendori di questi regni! ”

Lo spirito di Giustiniano si allontana cantando un inno nel quale parole latine si uniscono a parole ebraiche, secondo un uso liturgico abbastanza comune (per esempio, nel Sanctus della messa), che trova i suoi antecedenti in alcuni passi della Sacra Scrittura. Osanna, termine ebraico di saluto e di applauso, è gia stato usato da Dante nel Purgatorio (XI, II, XXIX, 51) e sarà ripetuto ancora nel Paradiso (VIII, 29; XXVIII, 118, XXXII, 135). Come sabaoth, è termine ebraico anche malacoth, che è grafia errata, usata in alcuni codici del Prologus galeatus di San Gerolamo, di mamlacòth. Per quanto riguarda il contenuto della terzina è naturale, secondo il Porena, che Giustiniano, rappresentante di quell'Impero che fu splendido di armi e di sapienza, illustre egli stesso per opera d'armi e di sapienza... inneggi al Dio degli eserciti e della sapienza: ché sapienza è quello splendore con cui Dio illumina le anime beate del regno celeste.

Così, volgendosi al ritmo del suo canto mi parve che cantasse quell’anima, sulla quale si raccoglie una duplice luce:

Sopra la qual doppio lume s'addua: secondo alcuni, la luce della sua beatitudine è la luce di Dio. Secondo altri è il fulgore di carità che aumenta in Giustiniano dopo aver risposto a Dan, te. Tuttavia entrambe queste interpretazioni si adattano a tutte le anime del regno celeste, mentre qui Dante vuole distinguere il grande imperatore dagli altri beati, come ha già fatto per Costanza (Paradiso III, 109-111) e come farà per Arrigo VII (Paradiso XXX, 133-137). 11 doppio lume sarà quindi costituito da quello della dignità imperiale e da quello della beatitudine, oppure indicherà la gloria militare e la gloria legislativa di Giustiniano.

Dopo la grandiosa visione storico-religiosa che ha occupato tutto il canto VI, il VII si apre con un mirabile scorcio di quella poesia costruita con immagini di luce, con suggestioni di suoni e di danza, che è la cornice entro la quale il Poeta viene svolgendo i temi dottrinali-morali-politici del Paradiso. L inno religioso della prima terzina, in cui la durezza di alcuni termini (sabaòth, malacòth) non impedisce il gioioso effondersi degli altri nei quali il suono diventa luce (superillustrans, claritate, ignea), anticipa l'argomento e la terminologia del canto: il mistero della redenzione, il mistero, cioè, dell'amore di Dio per gli uomini, si snoderà attraverso modulazioni e variazioni sul tema della luce (gamma d'amor... ardendo in sé, sfavilla.. I'ardor santo ch'ogni cosa raggia... lume suo). Quest'ultimò, inoltre, riempie della sua presenza le due terzine successive a quella di apertura, soprattutto i versi 7-9: le faville che si velano di sùbita distanza, sono una delle più immediate e candide sensazioni di beato regno di tutta questa cantica: versi, si direbbe, zampillati dalla fantasia di Dante in un momento di magica facilità inventiva" (Momigliano). L'immagine di queste faville che si muovono a ritmo di danza è più efficace di qualsiasi effusione sentimentale: l'intensità e il ritmo della vita interiore di queste anime è espressa attraverso l'intensità di una luce e il ritmo di una danza. Dopo la breve interruzione dei versi 10-12, dove il tema consueto del dubbio si risolve nella drammatica ripetizione di un verbo (dille) l'atmosfera di rapimento estatico con la quale si è aperto il canto continua anche nei versi seguenti, dove l'espressione assonna "è una delle più stupende suggestioni di rima di tutto il poema: senza questa parola, il momento raffigurato in questi sei versi... perderebbe quasi tutta la sua poesia" (Momigliano). Questo verbo, infatti, sempre usato da Dante per descrivere uno stato di estasi, richiama al lettore i momenti di lirico abbandono della Vita Nova, quando il Poeta confessava il suo smarrimento di fronte al fulgore di Beatrice e ricrea lo stesso sentimento di commozione, per cui anche le ardue spiegazioni dottrinali di Beatrice diventano dolci stille, una "eco della sua voce nell'anima di Dante" ( Momigliano) .

Beatrice non permise a lungo che io rimanessi in questo atteggiamento, e incominciò, illuminandomi di un sorriso tale, che renderebbe felice perfino chi si trovasse in mezzo alle fiamme:

“ Secondo quello che io, senza possibilità d’errore, penso, ti rende perplesso il fatto che (come) una giusta vendetta abbia potuto meritare una giusta punizione;

Beatrice, con riferimento diretto alle parole di Giustiniano (canto VI, versi 92-93), definisce i termini del dubbio di Dante: se la crocifissione di Cristo fu la giusta vendetta con la quale venne placata l'ira di Dio verso gli uomini dopo il peccato originale, come poterono gli Ebrei ( con la distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito) essere giustamente puniti come i responsabili della morte del Messia?

ma io libererò subito la tua mente (da questo dubbio); e tu ascolta, perché le mie parole ti faranno dono di una grande verità.

Il discorso che qui Beatrice introduce è il più lungo fra quelli da lei pronunciati in tutto il poema e occupa quasi tutto il canto VII, il più arduo, forse, dei canti dottrinali della Commedia, non solo perché " l'elemento dottrinale si presenta più scarno, più grezzo, ossia più a nudo, più appariscente che non nei canti dottrinali del Purgatorio, quali il XVIII e il XXV, ma anche e perfino più " scolastico", si vuoi dire di scuola, più esclusivamente dedicato all'ammaestramento di Dante e con ciò all'istruzione del lettore, che nessun altro dei canti dottrinali della prima metà del Paradiso..." (Elwert). Dopo il luminosissimo prologo, infatti, ogni personaggio scompare, e anche Dante non interviene più direttamente, poiché è Beatrice che si incarica di esprimere i suoi dubbi ( cfr. versi 55 e 124 ) . Non si incontrano schiere d'anime, non si odono canti né si scorgono luci: manca ogni riferimento all'ambiente in cui si svolge l'impegnata dimostrazione di Beatrice, quasi il Poeta voglia evitare che un fatto o uno spettacolo distraggano la sua attenzione e quella del lettore dall'argomento centrale. Infatti questa rinuncia ad ogni elemento visivo o patetico non può essere casuale nel Poeta: di fronte ai più grandi misteri della fede, che egli si appresta a trattare, quali la creazione, il peccato originale, la redenzione di Cristo, l'immortalità dell'anima, Dante esige "una lettura lenta, parola per parola, e una continua e incessante tensione dell'attenzione per seguire il ragionamento ininterrotto" (Elwert).

Alla fine non si potrà negare, come vorrebbero invece molti critici, che la solennità del canto non nasce solo dai grandi temi svolti, ma dall'"emozione sottile del pensiero, come verità posseduta", dal "piacere, proprio, del pensiero esatto, gustato ed espresso" (Getto). Il Poeta ha il sentimento dello sforzo che la sua intelligenza compie per esporre sistematicamente e chiaramente i dogmi di fede: la sua non è sola una dura ascesi spirituale, ma anche una travagliata ascesi mentale, " vagheggiata dalla fantasia e liricamente tradotta nel [suo] canto" (Getto). Da questo punto di vista risulta illuminante un'osservazione dell'Elwert: "Se si pensa bene, ciò equivale a dire che la stessa chiarezza nell'esposizione del pensiero può suscitare nel lettore un senso di piacere, e, se non erro, è proprio questo piacere che Dante non solo ha saputo ma ha voluto dare ai suoi lettori, anzi la quasi assenza di ogni allettamento extra-intellettuale in questo canto mi convince che Dante abbia voluto creare questa sensazione allo stato puro".

Per non aver sopportato di porre alla propria volontà quel freno che tornava a suo vantaggio, Adamo l’uomo creato direttamente da Dio, condannando se stesso ( con il peccato originale),condannò tutta la sua discendenza,

per cui la natura umana, malata spiritualmente, per molti secoli giacque immersa nel peccato, finché al Verbo di Dio piacque discendere nel grembo di Maria,

dove congiunse alla propria natura divina, in unità di persona, la natura umana, che (con il peccato) si era allontanata dal suo Creatore e fece ciò solo per virtù ed opera dello Spirito Santo.

La redenzione è opera di tutta la Trinità: Dio Padre (fattore), Cristo, il Figlio e Verbo di Dio ("il Verbo si è fatto carne"; (Giovanni I, 14), Spirito Santo, l'etterno amore che procede dal Padre e dal Figlio. I versi 28-33 ricalcano un passo del Convivio ( IV, V, 3 ): " Volendo la 'nmensurabile bontà divina l'umana creatura a sì riconformare, che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissime consistorio de la Trinitade, che 'l Figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia".

Ora rivolgi la tua attenzione a quello che ti dimostrerò.

La natura umana quando fu unita a Dio, com’era all’atto della creazione, fu senza la macchia del peccato originale e buona;

ma, staccatasi per sua colpa da Lui, fu cacciata dal paradiso terrestre, perché si era allontanata dalla verità e da ciò che costituiva la sua vera vita ( cioè da Dio).

Perciò se si valuta la pena della croce in rapporto alla natura umana assunta da Cristo, nessuna pena colpì mai con altrettanta giustizia;

se ( invece ) si considera la persona che la patì, nella quale questa natura umana si era congiunta (alla natura divina), nessuna pena fu mai così ingiusta .

Poiché Cristo, incarnandosi, assunse la natura umana corrotta dal peccato originale, tale natura, con la sua morte, subì la giusta punizione per l'errore commesso da Adamo. Ma poiché Cristo, oltre che uomo era anche Dio, la sua condanna a morte fu un atto di empietà, meritevole, come tale, della più grande punizione.

Perciò da un medesimo atto ( la crocifissione ) derivarono effetti diversi, poiché la morte di Cristo piacque a Dio e ai Giudei; per questa morte la terra tremò e il cielo si aperse.

A Dio ed ai Giudei piacque una morte: con la morte di Cristo, Dio, nel momento stesso in cui puniva l'uomo, lo salvava aprendogli le porte della salvezza eterna ( 'l ciel s'aperse), mentre i Giudei condannarono colui che si era proclamato figlio di Dio. Secondo un'altra interpretazione, invece, i Giudei vollero la morte di Cristo perché, desiderando il male per il male, non esitarono "a fare patire pena a persona innocente" (Lana), cosicché, di fronte a tale empietà, la terra tremò ( cfr. Matteo XXVII, 51: "et terra mota est" ) .

(Dopo quello che ti ho detto) ormai non ti deve più sembrare difficile da capire, quando si afferma che una giusta punizione fu poi punita dal tribunale della giustizia divina.

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

Ma ora vedo che la tua mente, passando da un pensiero all’altro, è rima, sta chiusa dentro un dubbio, dal quale aspetta ansiosamente di essere liberata.

Tu pensi: “Capisco chiaramente ciò che ho udito; ma mi rimane incomprensibile perché Dio, per redimerci, abbia scelto proprio questo modo (la passione di Cristo)”.

Questa decisione, fratello, è nascosta agli occhi di coloro il cui intelletto non è stato cresciuto e nutrito dalla fiamma dell’amore di Dio ( perché solo essa può avvicinare l’uomo al mistero divino che è mistero d’amore).

Tuttavia, poiché intorno a questo problema molto ha cercato la mente umana, ma poco è riuscita a capire, ti spiegherò perché questo modo ( quello, cioè, della passione di Cristo) è stato ritenuto da Dio il più adatto ( per punire e nello stesso tempo salvare gli uomini ).

La divina bontà, che respinge lontano da se ogni sentimento contrario all’amore, ardendo in se stessa (del fuoco della carità), lo irradia intorno a se in modo da diffondere (su tutte le creature) le sue eterne bellezze.

Ciò che deriva direttamente da Dio è eterno, perché rimane indelebile l’impronta divina quando è suggellata (sulle creature). .

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

Ciò che discende direttamente da Lui è perfettamente libero, perché non è soggetto all’influsso dei cieli.

(Ciò che è creato direttamente da Dio, essendo dotato di incorruttibilità e di eternità) è più conforme a Lui, e perciò gli è più gradito poiché lo splendore divino che irraggia ogni cosa, risplende più intensamente in quella che più gli assomiglia.

Di tutte queste doti ( immortalità, libertà, somiglianza a Dio ) si avvantaggia (sulle altre cose create) l’uomo; e se una sola di queste sue proprietà gli viene a mancare, egli necessariamente decade dalla sua condizione di privilegio e di perfezione.

Solo il peccato però lo priva di questa libertà (facendolo schivo delle passioni), e lo rende dissimile da Dio; per la qual cosa egli poi si illumina della luce divina, e non ritorna più nella sua dignità originaria, se non riempie il vuoto prodotto dalla colpa nell’anima con un’adeguata espiazione che si contrapponga al cattivo diletto (sperimentato nell’atto di peccare).

La natura umana, quando peccò tutta nel suo progenitore, fu privata di questi doni che costituivano la sua dignità, così come venne privata del paradiso terrestre; né essi, se tu esamini con la necessaria sottigliezza, si potevano recuperare in altro modo senza passare per una di queste due vie; o che Dio perdonasse solo per un atto di misericordia, o che l’uomo da se stesso riparasse al suo folle errore.

Volgi ora attentamente lo sguardo nell’infinita profondità delle decisioni divine, tenendoti stretto, quanto più puoi, al mio ragionamento.

L’uomo, chiuso nei limiti di essere finito, non avrebbe mai potuto offrire adeguata riparazione al suo peccato, perché, ritornando all’ubbidienza, non poteva umiliarsi dopo la colpa originale tanto quanto aveva voluto innalzarsi allorché aveva disubbidito a Dio; e questo è il motivo per cui l’uomo fu escluso dalla possibilità di riparare da solo al suo peccato.

Perciò era necessario che Dio reintegrasse l’uomo nella pienezza del suo stato primitivo per mezzo della misericordia o della giustizia, usando una delle due oppure entrambe.

Ma poiché ogni opera è tanto più gradita a colui che la compie, quanto più dimostra la bontà dell’animo da cui è nata,

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

la divina carità, che imprime il suo suggello sull’universo, si compiacque, per risollevarvi dal peccato, di procedere per entrambe le vie.

Tra il primo giorno (quello della creazione) e l’ultima notte (quella del Giudizio Universale ) non ci fu né ci sarà mai un’azione così alta e magnifica, compiuta secondo misericordia o secondo giustizia:

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

perché Dio si mostrò più generoso nell’offrire se stesso per rendere l’uomo capace di risollevarsi, che non se Egli avesse perdonato il peccato solo per un atto della sua misericordia;

e tutti gli altri modi ( di redenzione ) sarebbero stati inadeguati a soddisfare la giustizia divina, se il Figlio di Dio non si fosse abbassato ad assumere la natura umana.

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

Ora per appagare completamente ogni tuo desiderio (di sapere), torno indietro a chiarirti un punto del mio ragionamento, affinché, riguardo ad esso, tu possa comprendere la verità come la comprendo io.

Tu ti chiedi: “Vedo che l’acqua, il fuoco, l’aria e la terra e tutti i corpi composti dalla varia unione di questi elementi sono soggetti a corruzione, e hanno una breve vita; eppure anche queste cose sono state create da Dio, per cui, se ciò che è stato detto (cfr. verso 68) è vero, esse dovrebbero essere immuni da corruzione”.

Fratello, gli angeli e i cieli, la regione pura nella quale tu ti trovi, possono dirsi, e tali sono veramente, creati da Dio nella pienezza del loro essere;

ma gli elementi che tu hai nominato e quelle cose che sono costituite dal loro vario comporsi prendono la loro forma da una causa seconda.

La materia prima di questi elementi fu creata direttamente da Dio;

creato direttamente fu anche il principio informatore in questi cieli che ruotano intorno a quegli elementi e ai loro composti,

La luce e il moto dei cieli estraggono l’anima sensitiva degli animali e quella vegetativa delle piante dalla materia che in potenza è disposta a ciò;

ma la somma bontà di Dio infonde direttamente nell’uomo l’anima intellettiva, e la fa innamorare di se in modo che poi senta sempre il desiderio del suo Creatore.

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

E dal fatto che ciò che è creato direttamente da Dio non è soggetto a corruzione puoi dedurre anche la verità della risurrezione dei corpi, se tu consideri come si fece il corpo umano.

La giusta punizione del peccato d'origine con il sacrificio di Cristo fu, a sua volta, punita da Dio, il quale mosse Tito a distruggere Gerusalemme, dove si era perpetrato il grande oltraggio alla natura divina di Cristo. I commentatori antichi e alcuni fra i moderni ritengono che l'espressione giusta corte alluda direttamente a Tito, ma, come obietta il Porena, Tito "era strumento inconsapevole della punizione degli Ebrei; mentre la corte presuppone un giudizio, una giustizia, una chiara coscienza di compierla; e tutto ciò non poté essere che in Dio".

 



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