LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto III

« Attraverso me si entra nella città dolorosa, nel dolore che mai avrà termine, tra le anime dannate.

Ossessiva e agghiacciante si ripete nella prima terzina "la stessa idea, come presente immobile, eterno, ripetizione di se stesso: dolore e sempre dolore, quel luogo e sempre quel luogo" (De Sanctis) .

Dio, mio eccelso creatore, fu mosso dalla giustizia: sono opera del Padre (la divina potestate), del Figlio (la somma sapienza) e dello Spirito Santo ('I primo amore).

Prima di me non fu creata nessuna cosa se non eterna, e io durerò fino alla fine dei tempi. Abbandonate, entrando, ogni speranza ».

Se non etterne: le cose create per essere eterne, prima dell'inferno, sono i cieli, gli angeli, la materia ancora informe.

Vidi questa sentenza dal minaccioso significato. incisa in cima a una porta; per cui mi rivolsi a Virgilio: « Maestro, ciò che essa dice per me è terribile ».

Ed egli, da persona perspicace qual era: « A questo punto occorre abbandonare ogni esitazione; ogni forma di pusillanimità deve ora sparire.

Siamo giunti dove ti dissi che avresti veduto le anime doloranti che hanno perduto la speranza di vedere Dio ».

Il ben dell'intelletto: secondo Aristotile, il vero e, quindi, la verità suprema, Dio.

Ivi echeggiavano nell'aria senza luce gemiti, pianti e acuti lamenti, tanto che (udendoli) per la prima volta ne piansi.

Differenti lingue, orribili pronunce, espressioni di dolore, esclamazioni di rabbia, grida acute e soffocate, miste al percuotersi delle mani l'una contro l'altra

creavano nell'aria buia, priva di tempo, una confusione eternamente vorticante, così come (rapida vortica) la sabbia quando soffia un vento turbinoso.

Il Mazzoni ha ravvisato una suggestiva rispondenza tra il contenuto di questa similitudine e la sua struttura sintattica: "La rena si avvolge a spirale crescendo rapida dall'inerzia al moto culminante, per quindi ricadere dal moto culminante all'inerzia: non altrimenti troviamo nella descrizione del Poeta un salire dal meno al più, e un ridiscendere dal più al meno".

E io che avevo la testa attanagliata dall'orrore, esclamai: "Maestro, che significano queste grida? che gente è questa, che appare così sopraffatta dal dolore ?"

E Virgilio: "Questa infelice condizione è propria delle anime spregevolì di quelli che vissero senza meritare né biasimo né lode.

Gli ignavi non possono, a rigore, essere inclusi fra i dannati, non avendo essi trasgredito in modo esplicito la legge morale. Questo è il motivo per cui Dante li colloca al di qua del fiume Acheronte, in quel vestibolo dell'inferno che l'autore dell'Eneide aveva assegnato agli insepolti.
Ma la concezione eroica ed intransigente che il Poeta ha del nostro compito in terra, conferisce alla sua parola vigore eccezionale nell'atto in cui li addita alla nostra riprovazione. Così ha osservato il Croce: ."la vera loro punizione sono i versi che li fustigano in eterno: questi sciaurati, che mai non fur vivi...; che visser senza infamia e senza lodo...; a Dio spiacenti ed a nimici sui...: che fece per viltate il gran rifiuto...; non ragioniam di lor, ma guarda e passa".
Il disprezzo di Dante per coloro che per viltà si astennero dall'agire, disprezzo che il Poeta manifesta con estrema violenza, "è correlativo alla simpatia, in lui così viva sempre, per i magnanimi, per coloro cioè che, in bene o in male, seppero imprimere una potente impronta nella storia del loro tempo" (Sapegno).


Sono mescolate alla malvagia schiera degli angeli che (in occasione della rivolta di Lucifero) non si ribellarono né rimasero fedeli a Dio, ma fecero parte a sé.

Perché il loro splendore non ne sia offuscato, i cieli li tengono lontani da sé, né in sé li accoglie la voragine infernale, perché i colpevoli (gli angeli che parteggiarono per Lucifero) avrebbero di che vantarsi rispetto ad essi " .

Ed io: "Maestro, cosa riesce loro così insopportabile, da farli prorompere in così disperati lamenti?" Rispose: "Te lo dirò in pochissime parole.

Costoro non possono sperare in un completo annullamento del loro essere (cioè nella morte dell'anima) e (d'altra parte) la loro vita senza scopo è tanto miserabile, da renderli invidiosi di qualsiasi altro destino.

Il mondo non lascia sussistere alcun ricordo di loro; Dio non li degna né della sua pietà né di una sentenza di condanna non parliamo di loro, ma osserva e va oltre ".

E io, guardando con maggiore attenzione, scorsi un vessillo che girava correndo così velocemente, da sembrare incapace di una qualsiasi forma di quiete;

e dietro ad esso avanzava una tale moltitudine, quale mai avrei immaginato fosse stata annientata dalla morte.

Le pene dell'inferno e del purgatorio riflettono, nella Divina Commedia, la razionalità della giustizia divina. Tra esse e il peccato che colpiscono c'è sempre una stretta relazione, il cosiddetto contrappasso: questa punizione in alcuni casi si manifesta per analogia, in altri, invece, per contrapposizione, come qui, per gli ignavi. "... indegno di riposo è chi non milita, chi non arrischia, chi non combatte. Dopo la vittoria ci si riposa, e dopo la sconfitta; o anche dopo il cammino: e costoro non vollero vincere, temerono di perdere, non si mossero mai. Vadano dunque eternamente, camminando rapidi, senza saper neppure quale insegna sia quella che li precede; e poi che per nulla mai si scaldarono, prorompano ora in accenti d'ira; poi che per nulla mai gemerono, versino ora lamenti e lagrime; poi che per nulla mai rischiarono una goccia di sangue, stillino sangue. Lagrime e sangue, che furono da loro negati al servigio delle cause umane, e di quella di Dio, scendano a impinguare i vermi che brulicano ai loro piedi con tormentoso fastidio" (Mazzoni).
L'infinita moltitudine degli ignavi riecheggia, qui, un passo della Sacra Scrittura: "Degli stolti il numero è infinito" (Ecclesiaste 1, 15). Scrive il Momigliano: "il mondo, dunque, secondo Dante è fatto soprattutto di ignavi, di una folla amorfa e grigia, su cui emergono quelli che vivono con infamia o con lode".


Dopo aver ravvisato qualcuno nella folla, vidi e riconobbi l'anima di colui che per pusillanimità rifiutò il trono papale (fece per viltà il gran rifiuto).

L'eremita Pier da Morrone, eletto papa nel 1294 col nome di Celestino V, dopo cinque mesi rinunciò al pontificato.
Gli succedette, sulla cattedra di Pietro, Bonifacio VIII, il quale, nel conflitto divampato a Firenze fra le due fazioni dei Guelfi, i Bianchi e i Neri, favorì questi ultimi. In seguito al prevalere dei Neri, Dante, che era andato a Roma in missione ufficiale presso il papa, non poté più tornare nella sua città (1302).


Compresi allora d'un tratto e fui sicuro che questa era la turba dei vili, sgraditi a Dio non meno che ai suoi nemici (i diavoli).

Questi miserabili, che vissero come se non fossero vivi (in quanto non seppero affermare la loro personalità), erano nudi, continuamente punti da mosconi e da vespe che si trovavano lì.

Esse rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lagrime, era succhiato ai loro piedi da vermi nauseabondi.

E dopo aver spinto il mio sguardo più in là, vidi sulla riva di un gran fiume una folla; perciò interpellai Virgilio: "Maestro, consentimi

di apprendere chi sono queste genti, e quale consuetudine le fa apparire così ansiose di passare sull'altra riva, come intravedo attraverso la debole luce".

Osserva il Momigliano, a proposito della scena che qui inizia: "Il tema direttivo della seconda parte del canto è questa lividità sconfinata e minacciosa, dentro cui s'inquadra così bene l'immagine autunnale delle anime che si staccano dalla riva come foglie morte dall'albero. Tutta la vita della scena spira dalla livida palude, da questa tinta, da questo tragico barlume dell'orizzonte, che Dante accenna solo e che pure si stende dovunque come il colore che evapora naturalmente da quell'affollarsi di dannati che hanno lasciato ogni speranza. Perfino il terremoto che chiude il canto, è in armonia con quella tinta di corruccio che ne domina lo sfondo".

Virgilio mi rispose: « Le cose ti saranno note (conte: conosciute) quando fermeremo i nostri passi presso il doloroso fiume Acheronte ».

Allora, con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che il mio discorso gli riuscisse fastidioso, cessai di parlare finché arrivammo al fiume.

Questo, come altri atteggiamenti di umiltà di Dante nei confronti del maestro, rischia di apparire eccessivo rispetto al motivo che lo ha determinato, se lo si limita al suo significato più ovvio.
In realtà, Virgilio, nelle prime due cantiche, non è un personaggio al pari degli altri, come d'altronde non è nemmeno solo un'allegoria, un semplice simbolo. Per capire il rapporto che si stabilisce nel corso del poema tra Dante e Virgilio, occorre tener presente che in quest'ultimo si incarnano, per Dante, le più eccelse qualità della poesia, quasi un traguardo di perfezione nella cui contemplazione egli si perde. Non si tratta di un sovrassenso meccanicamente imposto alla lettera (come potrebbe essere la ragione, o la filosofia, o - sul piano politico - l'idea imperiale, cui di volta in volta la figura di Virgilio è stata ricondotta, con scrupolo forse eccessivo, dagli interpreti), ma di un senso più vasto del significato letterale, che da quest'ultimo continuamente trabocca. La trascendenza come poesia: ecco quello che il personaggio di Virgilio incarna agli occhi di Dante. Il poeta latino - avverte il Montanari "è la persona viva che ha rivelato a Dante il più alto valore della poesia: di una poesia che sia capace di assorbire nella propria forma non solo la ragione umana che si esercita sulle cose visibili, ma l'aspirazione dell'uomo a varcare le soglie di quel cammino invisibile senza del quale l'uomo non può raggiungere il suo ultimo destino". Solo un sentimento religioso può dettare parole come quelle che la reverenza per il maestro ha ispirato a Dante.


E (dopo essere qui giunti) ecco dirigersi alla nostra volta, su un'imbarcazione, un vecchio, canuto (bianco per antico pelo), che gridava: « Sventura a voi, anime malvage !

Non illudetevi di poter più vedere il cielo: vengo per traghettarvi sull'altra riva nel buio eterno, nel fuoco e nel ghiaccio.

E tu che, ancora in vita, ti trovi con loro, allontanati dalla turba dei già morti». Ma dopo aver visto che non me n'andavo,

continuò: « Attraverso vie e luoghi di imbarco diversi giungerai alla riva, che non è questa, da dove sarai traghettato (per passare): una barca più leggiera ti dovrà trasportare ».

Caronte è il primo dei custodi infernali che i due poeti incontrano nel loro viaggio. La sua figura è desunta, come altre della prima cantica, dal libro VI dell'Eneide, in cui è narrata la discesa di Enea nell'oltretomba. Ma su qualunque argomento Dante si soffermi, sia esso tratto dall'osservazione diretta della realtà o invece rivissuto sulle pagine degli autori a lui cari, gli imprime i tratti della sua poesia: essenzialità, concisione, vigore drammatico ed espressivo. A proposito dei mostri passati dalla mitologia classica nell'inferno dantesco, il Momigliano osserva: "hanno tutti un'imponenza che, fusa con l'aspetto minaccioso e mostruoso, tradisce in questi guardiani sotterranei la espressione d'una potenza superiore intesa a flagellare il regno del peccato. Tutti hanno una gagliarda, quasi tutti una monumentale, violenza di atteggiamenti e di movimenti, e condensano in sé la disperata vitalità che è il carattere dominante dell'Inferno".
Caronte sa che Dante è destinato a salvarsi: l'anima del Poeta, dopo la morte del suo corpo, sarà tra quelle che si raccoglieranno alla foce del Tevere, per essere trasportate in purgatorio da un vasello snelletto e leggiero (Purgatorio II, 41) , ossia dal più lieve legno cui accenna Caronte.


E Virgilio gli disse: « Non te n'avere a male, o Caronte: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole (è la decisione divina presa nel cielo Empireo, dove tutto ciò che è voluto può avere immediata attuazione), e non chiedere altro ».

Vuolsi così colà dove si puote: Dante non nomina mai Dio parlando con i custodi infernali, ma la perifrasi è esplicita nell'indicare Colui che ha decretato il suo viaggio nell'al di là.
Un motivo più intimamente poetico può tuttavia rendere ragione di questa formula, che verrà ripetuta tale quale o con lievi modifiche in occasione di altri incontri con i guardiani infernali. "Se infatti Virgilio avesse risposto semplicemente che questo era voluto da Dio, Caronte non sarebbe stato colpito come da quel tortuoso intrico di parole, che lo circuiscono tremende e misteriose, incidendo, ossessionanti, la volontà e la potenza del Cielo..." (Grabher)
Il Sapegno scorge invece in questo procedimento "un certo schematismo e una certa meccanicità d'invenzione", destinati a sparire col progressivo maturare, in senso drammatico e mosso, dell'arte del Poeta.


Da questo istante si calmarono le gote ricoperte di fluente barba del traghettatore del buio fiume (livida palude: livido è, per antonomasia, il colore della morte), che aveva intorno agli occhi cerchi di fuoco.

Quinci fuor quete le lanose gote: Caronte ha cessato di parlare. Dante non si sofferma. tanto sull'aspetto auditivo di questo silenzio, quanto su quello visivo. "Infatti le parole di Caronte, nella loro violenza, specialmente iniziale (guai a voi ecc.) hanno scomposto la plastica di quel volto, facendo sobbalzare l'antica e copiosa canizie. Appena Caronte tace; ciò che più colpisce Dante, fisso con stupore e terrore nel volto del vecchio, è il ricomporsi del volto stesso, nella sua compostezza plastica. Ecco perché il Poeta dice: fuor quete le lanose gote; e lanose, richiamando il vello degli animali, aggiunge qualcosa di bestiale a quella che, nel Caronte virgiliano, è solo una « abbondante, incolta canizie »." (Grabher)

Ma quelle anime, che erano affrante e inermi, trascolorarono e batterono i denti, non appena ebbero udite le crudeli parole:

maledicevano Dio e i loro genitori, il genere umano e il luogo e il tempo (in cui erano state generate) e l'origine della loro stirpe e della loro nascita.

La bestemmia è, tra le manifestazioni dei dannati, forse la più tipica. Privati della possibilità del pentimento, all'ingresso dell'inferno, essi sfogano, in questa incalzante e grandiosa maledizione, che ha per oggetto il creato nei suoi principii di vita e di generazione (Dio e lor parenti... e 'l seme), la loro rabbia cieca e impotente.
Ma la bestemmia solo apparentemente può sembrare in loro una manifestazione di rivolta; in realtà essi, come automi, riflettono una volontà che li trascende, glorificano, sia pure negativamente, Colui che le loro imprecazioni invano bersagliano.
"Il dannato stesso è parola di Dio, esercita un ministerium, è inviato al vivente per ammonizione salvifica." (Montanari)
Qui, sulla riva dell'Acheronte, i reprobi sono impazienti di varcare la livida palude. La paura che incutono in essi i prossimi tormenti infernali è vinta dal desiderio di eseguire i comandi di Chi giustamente li ha dannati, e perciò ogni bestemmia, pronunciata da loro, assume tragici riflessi.


Poi si adunarono tutte insieme, piangendo dirottamente, sulla riva del fiume del male che aspetta tutti coloro che non temono Dio.

II demonio Caronte, con occhi fiammeggianti, facendo loro segni, le accoglie tutte (nella barca); percuote col remo chiunque tarda (ad obbedirgli).

Caron dimonio, con occhi di bragia: il virgiliano "stant lumina flamma " (Eneide VI, 300) - precedentemente riprodotto da Dante (che 'ntorno allí occhi avea di fiamme rote) "con una di quelle immagini stilizzate, quasi di pittura pregiottesca, che erano dello stile lirico" (Sapegno) - viene qui interpretato nel senso di una più intensa espressività e di un maggiore realismo: con occhi di bragia. Domina su tutta la scena il muto cenno del nocchiero, che basta da solo a far salire le anime nella barca.

Come in autunno le foglie si staccano l'una dopo l'altra (dal ramo), finché questo vede sparsa a terra tutta la sua veste frondosa,

allo stesso modo la corrotta progenie di Adamo si precipita da quella riva, anima dopo anima, a un cenno (di Caronte), come il falco (auge!) al richiamo (del falconiere).

La similitudine delle foglie che si staccano dall'albero è già in Virgilio (Eneide VI, 305-312), a significare la sterminata turba dei defunti. Dante la ricrea conferendole movimento drammatico e un che di ineluttabile (come auge! per suo ríchiarno) che sottolinea la perdita, nei trapassati, di qualsiasi forma di libero arbitrio. La similitudine in Dante, pur nella sua immediatezza e nel suo realismo, si carica sempre di accenti morali.

Avanzano così sull'acqua buia, e prima che questa moltitudine sia sbarcata sulla riva opposta, un'altra già s'accalca nel punto d'imbarco.

« Figlio mio », spiegò cortesemente Virgilio, « tutti coloro che muoiono in stato di peccato (nell'ira di Dio) si radunano qui (venendo) da ogni luogo della terra:

e sono (spiritualmente) disposti a varcare il fiume, poiché la giustizia di Dio li stimola, in modo che il timore (delle pene) si converte in loro nel desiderio (di affrontarle).

Di qui non passano mai anime virtuose: e perciò, se Caronte si lamenta della tua presenza, puoi ben comprendere ormai quale significato hanno le sue parole.»

Appena Virgilio ebbe finito di parlare, la terra buia tremò con tanta violenza, che il ricordo (la mente: la memoria) dello spavento provato m'inonda ancora di sudore.

Dalla terra bagnata dalle lagrime dei dannati uscì un vento, che si convertì in un lampo sanguigno il quale mi fece perdere i sensi;

Nel Medioevo si credeva che i terremoti fossero provocati da masse aeriformi compresse nelle viscere della terra. L'origine dei lampi era attribuita al subitaneo erompere di vapori.

e caddi come chi cede al sonno.



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