LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: sintesi e critica dei canti della "Divina Commedia"


Purgatorio: canto XXII

Già era rimasto dietro alle nostre spalle l'angelo, che ci aveva avviati (alla scala che porta) al sesto girone; dopo avermi cancellato dalla fronte la ferita di un altro P;

e per noi aveva proclamati beati quelli che rivolgono il loro desiderio alla giustizia, e la sua voce concluse la recitazione della beatitudine con "hanno sete", senza aggiungere altro.

Dante si riferisce al testo della beatitudine evangelica (Matteo V, 6) "Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur" ("Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché essi saranno saziati"); ma sembra che l'angelo si limiti a recitare solo una parte della beatitudine, finendo con la parola sitiunt ed omettendo l'esuriunt - che sarà cantato dall'angelo della sesta cornice e riferito ai golosi (canto XXIV, 151-154) - e l'ultima frase.

E io nel salire mi sentivo più leggiero che nei passaggi precedenti (tra una cornice e l'altra), tanto che senza alcuna fatica riuscivo a seguire i due spiriti che salivano rapidi la scala,

quando Virgilio cominciò a dire: « L'amore, che nasce dalla virtù, purché la sua fiamma appaia all'esterno, accende sempre un altro amore:

perciò dal momento in cui nel limbo dell'inferno scese fra noi Giovenale, che mi rivelò il tuo affetto per me,

Decimo Giunio Giovenale, poeta satirico latino, nato ad Aquino intorno al 47 d. C. e morto verso il 130, fu contemporaneo di Stazio e grande ammiratore della Tebaíde, come si rileva da una delle sue satire (VII, 82-88).

la mia benevolenza verso di te fu tale che mai una più grande strinse una persona ad un'altra non vista, sicché ora (per il desiderio di stare con te) mi sembreranno troppo brevi queste salite ai gironi superiori.

Ma dimmi, e da amico perdonami se la troppa franchezza allenta il freno del riserbo (nel chiedere), e come amico ormai parlami:

come poté albergare nel tuo animo l'avarizia, con tutta la sapienza di cui, per il tuo assiduo sforzo, fosti ripieno? »

Queste parole dapprima fecero sorridere Stazio; poi rispose: « Ogni tua parola per me è un caro segno d'amore..

Veramente si vedono spesso cose le quali, per il fatto che restano nascoste le loro vere cause, offrono falso argomento di dubbio.

La tua domanda mi fa certo che è tua opinione che io nell'altra vita sia stato avaro, forse perché mi trovavo nel girone degli avari.

Invece sappi che l'avarizia fu molto lontana da me (che caddi nel peccato opposto), e migliaia di mesi (lunari: lunazioni; infatti Stazio ha trascorso nel quinto girone più di cinquecento anni. Cfr. canto XXI, verso 68) hanno punito questa prodigalità.

Poiché nelle biografie di Stazio non vi è alcun cenno alla sua prodigalità, non si sa a quale fonte Dante abbia attinto per fare di lui un prodigo: forse ha interpretato nella forma più onorevole l'accenno di Giovenale (Satira VII, 86-87) alla grande povertà di Stazio, il quale era costretto a cercare nella poesia i mezzi per vivere: la povertà sarebbe stata il risultato di una precedente prodigalità.

E se non fosse che corressi la mia tendenza, quando compresi appieno quel passo dell'Eneide dove tu gridi, quasi crucciato contro la natura umana:

« O sacra fame dell'oro, perché non regoli tu nella giusta misura la brama dei mortali?", ora volterei i pesi e starei a sentire i miserabili scontri di ingiurie (tra gli avari e i prodighi nel quarto cerchio dell'inferno).

Stazio fa una libera parafrasi delle parole di Virgilio a proposito dell'assassinio di Polidoro ad opera di Polinestore (Eneide III, 56-57; cfr. anche Purgatorio XX, 114-115) : "Quid non mortalia pectora cogis auri sacra tames?" ("A quali delitti non spingi tu gli animi umani o maledetta fame dell'oro?"). Nel passo virgiliano sacra significa « esecranda » , « maledetta », senso che Dante non poteva ignorare, ma che sostituisce con quello odierno, perché il desiderio della ricchezza, quando osserva la misura, è buono ed è ugualmente lontano tanto dall'avarizia quanto dalla prodigalità. Quindi possiamo ritenere che Dante non abbia frainteso il testo virgiliano, come fraintese un altro passo dell'Eneide (1, 664-665) nel Convivio (II, V, 14), ma che piuttosto si sia preso la licenza di adattare liberamente le parole di Virgilio ai fini del suo episodio.
Una spiegazione quanto mai plausibile e stimolante del travisamento da parte del Poeta della lettera (e dello spirito) del testo virgiliano ci è fornita dal Montanari: "Dante credeva anche che ogni frase di un grande poeta (e tanto più di Virgilio, così paradossalmente divinizzato proprio nella figura del profeta sacrificato alla civiltà puramente naturale), fosse ricca di significati molteplici, come ricca di molteplici significati credeva ogni parola della Sacra Scrittura. È vero che qui non si tratterebbe di significati molteplici, ma addirittura opposti; non tuttavia contraddittori. Opposti sì, ma riferiti ad un'unica verità: che avarizia e prodigalità sono i due vizi ugualmente contrari (secondo la dottrina aristotelica del giusto mezzo) alla virtù del retto uso della ricchezza. La stessa frase che Dante sapeva significare detestazione dell'avarizia, poté essere da lui tradotta in detestazione della prodigalità, utilizzando l'ancipite significato di quid, di cogis e di sacra, e scoprendo proprio in tale possibilità di opposta traduzione una particolare ricchezza della sapienza poetica virgiliana".


Allora m'accorsi che le mani potevano allargarsi troppo nello spendere, e mi pentii tanto della prodigalità quanto degli altri peccati .

Quanti prodighi risorgeranno con i capelli tagliati (coi crini scemi) perché ignorano che questo è un peccato (per ignoranza), ignoranza la quale toglie loro la possibilità di pentirsi di questo peccato sia durante la vita che in morte !

I prodighi risorgeranno dal sepolcro, il giorno del Giudizio Universale, senza capelli (cfr. Inferno VII, 56-57).

E sappi che la colpa la quale si contrappone (rimbecca) in senso diametralmente opposto ad un peccato, qui in purgatorio viene espiata (suo uerde secca) insieme ad esso:

perciò, se io, per purificarmi, sono rimasto tra quella gente che piangendo espia l'avarizía, questo m'è toccato per il peccato ad essa contraria ».

E Virgilio, l'autore dei carmi pastorali (bucolici carmi: le Bucoliche), disse: « Quando tu cantasti la crudele guerra di Eteocle e Polinice, duplice causa di amarezza per la madre Giocasta »,

Dante accenna all'argomento della Tebaide. I due fratelli in lotta per la signoria di Tebe sono Eteocle e Polinice (cfr. Inferno XXVI, 53-54), nati, come Antigone e Ismene (canto XXII, 110-111), secondo il noto mito, dall'incestuosa unione di Giocasta col figlio Edipo. Eteocle e Polinice, che finirono con l'uccidersi a vicenda, furono per la madre duplice causa di dolore per la loro nascita e la loro morte.

« da quello che tu vi narri con l'assistenza della musa Clio, non appare che ti facesse ancora cristiano la fede, senza la quale non bastano le opere buone.

Clio era la musa della storia, invocata da: Stazio nella Tebaide (1, 41 e X, 630) come ispiratrice del suo poema.

Se le cose stanno così, quale divina illuminazione o quali ìnsegnamenti umani ti liberarono dalle tenebre del paganesimo, in modo da farti poi drizzare le vele per seguire (facendoti cristiano) San Pietro (pescator)?»

Virgilio si rivolge in tono particolarmente solenne (sottolineato dall'or iniziale e dalla compatta perifrasi dei versi 55-56, aulicamente nobilitante le fosche vicende che insanguinarono la stirpe di Edipo) a Stazio, premettendo alla sua domanda i titoli di gloria che l'autore della Tebaide si conquistò in terra col favore delle Muse (anche il richiamo all'attiva, creatrice presenza nell'animo di Stazio di un'ispirazione di origine sovrumana - Cliò - contribuisce alla nobiltà di questo eloquio). La terzina 61 traduce in termini di ardue metafore il senso della domanda rivolta dall'esiliato nel limbo all'anima ormai disposta a raggiungere la sua sede celeste. La luce indefettibile e sovrannaturale del sole è contrapposta ai bagliori che l'ingegno umano riesce, affidandosi alle sue sole forze, a far risplendere in terra (le candele), la conversione appare nella figura di un viaggio (il tema che si pone alla base dell'intero poema), di una navigazione (drizzasti... le vele) non esente da rischi (anche Ulisse drizzò le vele verso occidente, in una corsa disperata di retro al sol, ma, per non essersi saputo assegnare dei limiti, la sua navigazione si convertì in accelerazione vertiginosa - dei remi tacemmo ali - verso la catastrofe, in folle volo). L'immagine delle vele suggerisce un procedere impetuoso, cui ogni vento sembra arridere, quasi una sfida allo strapotere minaccioso di forze avverse; la medesima immagine suggellava il compiersi delle malefatte dei Capetingi, attraverso l'offesa arrecata da Filippo il Bello all'ordine dei Templari (porta nel Tempio le cupide vele; canto XX, verso 93). In tal modo l'evento intimo, costituito dal volgersi di una coscienza al vero, acquista proporzioni drammatiche e grandiose, si inserisce nello splendore e quasi nella ineluttabilità di uno spettacolo naturale: quello di una nave che isolata solca i deserti d'acqua, incurante delle tempeste, fedele al segno che ne illumina il cammino.

E Stazio rispose a Virgilio: « Tu per primo mi indirizzasti alla poesia avviandomi al monte Parnaso per bere alla fonte che sgorga dalle sue rocce, e tu per primo mi desti luce per trovar la strada che conduce a Dio.

Il Parnaso era un monte della Pocide, famoso come dimora di Apollo e delle Muse: dalle sue rocce zampillava la sorgente Castalia e bere alle sue fonti significava essere ispirati.

Hai fatto come chi cammina di notte, il quale porta il lume dietro e non giova a se stesso, ma rende, esperte del cammino le persone che vengono dietro a lui,

quando dicesti: "II mondo si rinnova; torna la giustizia e torna la prima età dell'oro e dell'umanità innocente, e dal cielo scende una nuova progenie".

Il passo che ha illuminato Stazio e che Dante riassume e traduce è quello famoso della quarta Egloga virgiliana (versi 5-7) : "magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna; iam nova progenies caelo demittitur alto ("una grande serie di secoli ricomincia da capo. Ritorna ormai anche la Vergine, ritorna il regno di Saturno; e dall'alto dei cieli è inviata ormai una nuova progenie"). I versi di Virgilio presagiscono e celebrano il ritorno all'età dell'oro sotto il regime di Augusto e alludono probabilmente alla nascita di Solonino, il figlio di Asinio Pollione, console nel 40 a. C.; ma fin dal IV secolo furono interpretati come una profezia più o meno consapevole della nascita del Redentore dalla Vergine Madre (la "Virgo" del testo virgiliano è Astrea, dea della giustizia) e della nuova era da Lui iniziata. Inoltre il mito classico di un'età felice e semplice (primo tempo umano) corrisponde alla narrazione biblica della felice e innocente vita di Adamo ed Eva prima del peccato originale. Queste interpretazioni fornirono il fondamento alla leggenda medievale di un Virgilio precristiano, accettata da Dante (Monarchia I, 11, 1-2; Epistola VII, 6) e qui portata alla massima significazione poetica e morale.
Il paragone contenuto nella terzina 67 aveva, ai tempi del Poeta, una lunga, solenne tradizione di allusioni simboliche, tutte derivanti dall'immagine biblica del "camminare nelle tenebre" che vengono rischiarate dalla luce di Dio. In esso culmina - e compiutamente si esprime - il senso del travolgente progredire per metafore, che, a partire dal verso 130 del canto XX, ha dapprima anticipato, poi via via commentato e interpretato il drammatico volgersi di Stazio ai valori supremi dello spirito: culturali in un primo tempo, quindi morali (l'insegnamento da lui ricavato dalla lettura dell'episodio di Polidoro), infine religiosi. Questa immagine si riallaccia tra l'altro intimamente - per ampiezza di risonanze che si rendono interpreti di un divenire storico (il senso dell'avvento del Cristianesimo nel mondo antico) - a quella del Cristo risorto (canto XXI, versi 7-9). Il Porena è del parere che la metafora del lume svolta nei versi 67-69 "è certamente la più alta e la più precisa per esprimere il misterioso, profondo legame che passa tra il mondo classico e il mondo cristiano... In verità l'avvento cristiano è un fatto nuovo e miracoloso; ma è anche una continuazione. C'è da una parte lo svolgersi naturale dell'una storia nell'altra e c'è dall'altra il fatto nuovo, la pura negazione del passato. Dante ha segnato forse con più profondità di ogni altro i punti del distacco, i limiti dell'antica sapienza, ma anche la confluenza e le necessarie integrazioni".


Per mezzo tuo diventai poeta, per mezzo tuo diventai cristiano: ma affinché tu veda meglio il disegno che ho abbozzato, cercherò di colorirlo (completando il discorso).

Il mondo era già tutto impregnato della vera fede, seminata dagli Apostoli, messaggeri dell'eterno regno di Dio:

e le tue parole che ho sopra citato s'accordavano con quelle dei predicatori della nuova fede; perciò io presi l'abitudine di frequentarli.

Essi poi mi si vennero rivelando tanto santi, che quando l'imperatore Domiziano li perseguitò, al loro pianto si unirono le lagrime della mia compassione;

Domiziano fu imperatore dall'81 al 96 d. C. Gli antichi scrittori cristiani gli attribuiscono una feroce persecuzione (la seconda dopo quella di Nerone), della quale però le fonti storiche pagane non fanno alcun cenno.

e finché rimasi di là sulla terra, io li aiutai, e i loro onesti costumi mi indussero a disprezzare ogni altra scuola (religiosa e filosofica).

E prima che scrivessi i versi nei quali conduco i Greci ai fiumi di Tebe (in aiuto di Polinice contro Eteocle), ricevetti il battesimo: ma per paura (della persecuzione) fui cristiano di nascosto,

Stazio accenna al libro IX della Tebaide, dove descrive l'arrivo dell'esercito greco, comandato da Adrasto, sulle rive dei fiumi Ismeno e Asopo, che scorrono vicino a Tebe.

continuando a lungo a mostrarmi pagano; e questa accidia mi costiinse a percorrere il quarto girone per più di quattrocento anni.

Tu dunque che mi hai tolto il velo che prima mi nascondeva il grande bene (della verità cristiana), di cui parlo, finché ci avanza ancora del tempo durante la salita,

dimmi dov'è Terenzio, nostra antica gloria, dimmi dove sono Cecilio e Plauto e Vario, se lo sai: dimmi se sono dannati, e in quale cerchio ».

Stazio chiede a Virgilio notizie di alcuni poeti latini: Publio Terenzio Afro (195-159 a. C.), antico rispetto a Stazio, è con Tito Maccio Plauto (254184 a. C.), autore di venti commedie, uno dei maggiori poeti comici latini del periodo arcaico: accanto a Terenzio e a Plauto vengono nominati Cecilio Stazio, un altro poeta comico latino, di cui non ci resta nulla, morto nel 168 a. C. e un Vario, che è quasi certamente il poeta epico e tragico Lucio Vario Rufo, contemporaneo e amico di Orazio e Virgilio, del quale curò l'edizione postuma dell'Eneide. Di lui parla Orazio nell'Ars poetica (versi 53-54), in un passo noto a Dante, dove a Cecilio e a Plauto vengono contrapposti i poeti contemporanei Virgilio e Vario.
Circa le motivazioni psicologiche di questa domanda rivolta da Stazio al "suo autore" e autore della sua conversione - domanda che smorza l'acme passionale in cui, come in un grido, era culminato il racconto della sua vita- osservazioni assai valide e penetranti sono state fatte dal Porena: "Con la rivelazione di Stazio circa la radice virgiliana del suo cristianesimo, l'apoteosi di Virgilio è compiuta. Virgilio non è salvo, ma è stato autore di salvazione, non è in paradiso, ma è stato largitore di paradiso, non ha conosciuto il vero Dio, ma l'ha fatto conoscere altrui. Ma via via che si compie l'apoteosi, si compie anche la tragedia. È certo un nobilissimo conforto aver portato nelle mani la fiaccola che ha rischiarato ad altre anime la via della Verità; ma in altro senso, è una terribile amarezza aver impugnata quella fiaccola, e per una cecità strana come il non veder se stesso, non averla veduta!... Sente Dante tutta la profonda, e direi terribile poesia di tale situazione?... tutto il Poeta fa sentire a Stazio: il quale, terminato il racconto di sé, quasi a non dar tempo a Virgilio di dolorose meditazioni, riconduce il discorso dalla fede alla poesia, per ritornare in quel regno dove Virgilio è sovrano: e, quasi come fosse lui l'esule, che anela notizie di un mondo a lui chiuso, domanda ove siano alcuni famosi poeti latini..."


La mia guida rispose: « Tutti costoro e Persio e io e molti altri assieme ad Omero (quel greco), che le Muse nutrirono più di qualsiasi altro poeta, siamo

Aulo Persio Flacco (34-62 d.C.), il noto poeta satirico, fu molto apprezzato nel Medioevo e le sue satire erano lette nelle scuole, ma Dante non lo cita mai altrove.

nel limbo, il primo cerchio dell'inferno (carcere cieco): spesso parliamo del monte Parnaso, dimora abituale delle nutrici dela nostra arte (le Muse).

Con noi sono anche Euripide e Antifonte, Simonide, Agatone e molti altri greci che un tempo meritarono di ornare la loro fronte con l'alloro.

Euripide (480-406 a. C.) , il terzo in ordine di tempo dei grandi poeti tragici greci dopo Eschilo e Sofocle, fu da Dante conosciuto soltanto attraverso gli scrittori latini. Antifonte è un altro poeta tragico greco (sec. IV a. C.), che forse Dante confonde con l'oratore Antifonte Ramnusio. Simonide è il famoso poeta lirico di Ceo (556-469 a. C.). cantore dei caduti alle Termopili e a Maratona. Agatone è un poeta tragico ateniese (448-400 a. C.).

Nello stesso cerchio si vedono, dei personaggi da te cantati, Antigone, Deifile e Argia, e Ismene, la quale è ancora piena di tristezza come fu in vita.

Virgilio conferisce una vita reale ai personaggi mitici della Tebaide e dell'Achilleide, ricambiando così le lodi che Stazio aveva fatto di lui e dell'Eneide. Antigone, figlia di Edipo, fu fatta morire dal tiranno Creonte perché contro la volontà di quest'ultimo aveva sepolto il cadavere del fratello Polinice, morto combattendo contro Eteocle. Deifile, figlia di Adrasto re di Argo, fu sposa di Tideo, uno dei sette re che combatterono contro Tebe (cfr. Interno XXXII, 130-131), e madre di Diomede. Argia fu sorella di Deifile e sposa di Polinice. Ismene fu sorella di Antigone ed anch'ella ebbe una vita infelice perché vide morire o mettere a morte le persone più care: il padre. la madre. i fratelli e il fidanzato Cirreo; fu condannata da Creonte e morì con Antigone.

Vi si vede Isifile, colei che indicò la fonte Langia: c'è pure la figlia di Tiresia e di Teti, e c'è Deidamia con le sue sorelle ».

Virgilio accenna a Isifile, figlia di Toante. diventata schiava di Licurgo, re di Nemea, la quale mostrò ai guerrieri greci che assediavano Tebe, la fonte Langia.
La sola figlia di Tiresia di cui si parli nella Tebaide è Manto, che Dante però ha posto nella bolgia degli indovini nell'inferno (Inferno XX, 52-93), dove ne parla troppo a lungo per supporre che qui la metta nel limbo per una semplice dimenticanza. I commentatori cercano di spiegare l'equivoco con varie ipotesi tutte probabili, ma nessuna decisiva: alcuni pensano che il quivi del verso 109 e l'evvi del 113 possano riferirsi non più al primo cinghio, ma a carcere cieco (verso 103) , all'inferno nel suo insieme; altri ritengono che Dante abbia aggiunto i versi su Manto, nel canto XX dell'Inferno, mentre correggeva l'Inferno stesso dopo la composizione del Purgatorio.
Deidamia, figlia di Licomede re di Sciro, fu amata da Achille nel periodo in cui l'eroe viveva nascosto in abiti femminili alla corte di Sciro per evitare di andare alla guerra di Troia.
Nell'incalzare dei tre termini del verso 103, dall'aspro, crudele, concretissimo cinghio, ai due successivi, già maggiormente sciolti in una scansione malinconica, carcere e cieco, Virgilio palesa per la prima volta quella tristezza che abbiamo sentito, lungo tutto l'arco del suo discorrere con Stazio, moderare il suo eloquio, conferirgli un tono alto e distaccato nella sua crepuscolare saggezza. L'enumerazione degli spiriti magni che condividono nel limbo il destino del mantovano è stata dal Momigliano giudicata una mera "appendice del limbo... arida, più di quella della fine del IV dell'Inferno, dove l'enumerazione è interrotta di quando in quando da una designazione solenne" È sfuggito evidentemente al critico che il culto dei beni eccelsi dell'intelligenza, e dei valori dominanti della cultura - assai più acuto in Dante che nelle generazioni di umanisti che lo seguirono, pur essendo in lui subordinato al culto dei valori della fede cristiana - si traduce qui in poesia, una poesia che, se rimane ardua da definire attraverso precisi riferimenti, circola tuttavia come linfa segreta nel chiuso di queste terzine, sottraendole all'aridità di un semplice catalogo per trasferirle in un clima di mito sereno e rapito.
Basti porre attenzione all'avvio di questa enumerazione - al verso 100 cioè, dove l'indicazione generica e altri assai, posta in chiusura di verso, alleggerisce il peso di ogni troppo circoscritto riferimento, trasportando la storia nel quadro aperto e aerato di una luminosa leggenda - e rilevare la designazione perifrastica (il che le Muse lattar più ch'altro mai ripropone il tema della fertilità educatrice delle opere di poesia, proclamata da Stazio nei riguardi dell'Eneide nel canto XXI, versi 97-98) di Omero poeta sovrano (Inferno IV, verso 88). Le considerazioni svolte dal Parodi su questo inclinarsi verso una sua più serena risoluzione del drammatico episodio della conversione di Stazio, appaiono illuminanti in proposito: "Dante, non pago di stare allato a Virgilio, in così familiare e tenera unione, per tanta parte del suo fatale viaggio, né di aver già veduto con lui, sulla soglia del nobile castello e dentro le settemplici mura, i signori dell'altissimo canto e gli spiriti magni, anelava ad una più compiuta illusione di rivivere un'ora di quel mondo meraviglioso e scomparso dei classici. Egli volle assistere al colloquio di Virgilio con un'anima colla quale potesse alfine liberamente espandersi, perché più vicina alla sua; volle veder sorgere intorno a loro, quasi corteggio adunato intorno ai due poeti maggiori, le ombre minori di Giovenale, di Terenzio antico e degli altri; volle, infine, rinnovare e compiere la già lontana e, nell'insieme, un po' fredda rappresentazione del nobile castello in una semplice e fresca intimità di vita familiare e presente, della quale fosse partecipe. È il più singolare e nuovo aspetto dell'« umanesimo» dantesco questa sua trasformazione sentimentale, per la quale l'ammirazione si fa desiderio ed amore, e dileguano i confini tra il presente e il passato, tra l'immaginazione e il ricordo, tra il vero e il sogno".

Entrambi i poeti se ne stavano ora in silenzio, di nuovo attenti a osservare intorno, essendo ormai liberi dalla fatica della salita e dell'ostacolo delle pareti (che prima impedivano la vista);

ed erano già passate quattro ore (ancelle) del giorno, e la quinta (sono trascorse le dieci del mattino) era al timone del carro solare e ne drizzava sempre verso l'alto la punta infuocata,

quando la mia guida disse: « Credo che dobbiamo volgere il nostro fianco destro verso l'orlo di questa cornice, girando così intorno al monte come siamo soliti fare ».

Così l'abitudine fu in quel momento la nostra guida nello scegliere la direzione, e prendemmo la via (del sesto girone) con meno timore di sbagliare per il consenso che ci diede l'anima eletta di Stazio.

Essi camminavano davanti, ed io dietro tutto solo, e ascoltavo i loro discorsi, che mi davano ammaestramenti nell'arte di poetare.

Ma presto interruppe i loro dolci ragionamenti la vista di un albero che trovammo in mezzo alla via, carico di frutti dal profumo buono e soave;

Vicino all'uscita del girone Dante scorgerà poi un altro albero (cfr. canto XXIV, 103-104; 116-117), germogliato da quello della scienza del bene e del male, posto da Dio nel paradiso terrestre (cfr. Genesi II, 9) . Si è discusso sul significato allegorico dell'albero che qui appare, ma sembra che tutti e due gli alberi posti da Dante nella cornice dei golosi abbiano la semplice funzione di suscitare fame e sete fisica nelle anime a tormento ed ammaestramento (cfr. canto XXIII, versi 61-69).

e come l'abete va restringendo la sua chioma di ramo in ramo verso l'alto, così quell'albero restringeva la chioma dall'alto in basso, credo, perché nessuno possa salirvi a cogliere i frutti.

Alla nostra sinistra, dalla parte in cui la parete rocciosa limitava il nostro cammino verso il monte, cadeva dall'alto della roccia un'acqua limpida e si spargeva sulla parte alta delle foglie.

I due poeti s'avvicinarono all'albero; intanto una voce tra le fronde gridò: « Di questo cibo avrete carestia ».

Una voce improvvisa e misteriosa grida esempi di sobrietà nel bere e di temperanza nel mangiare. Il primo esempio virtuoso è quello della Vergine Maria alle nozze di Cana (cfr. Giovanni II, 1-11), episodio già proposto per inculcare la carità (cfr. canto XIII, versi 28-29).

Poi continuò: « Maria pensava più a rendere decorose e complete le nozze, che alla sua bocca, la quale ora prega intercedendo in vostro favore.

E le antiche donne di Roma, per bere, s'accontentavano di acqua; e il profeta Daniele ricusò il cibo e acquistò la sapienza.

Secondo Valerio Massimo (Facta et dicta memorabilia II, I, 3) "l'uso del vino era ignoto anticamente alle donne romane". II profeta Daniele, dopo la conquista di Gerusalemme, fu inviato alla corte di Nabucodonosor, ma egli, per non contaminarsi, rifiutò di sedersi alla mensa reale e si astenne da determinati cibi e dal vino, accontentandosi di legumi ed acqua: in premio ebbe da Dio la sapienza e la capacità di spiegare i sogni (Daniele I, 3-20).

La prima età degli uomini che fu bella quanto l'oro, con la fame rese saporite le ghiande, e con la sete trasformò ogni ruscello in nettare.

Dante accenna all'età dell'oro dell'umanità primitiva (cfr. Inferno XIV, 106; Purgatorio XXVIII, 140), cantata nelle favole dei poeti (cfr. Ovidiò - Metamorfosi I, 89-112; Virgilio - Eneide VIII, 324-325). Per Dante l'antica età dell'oro non consisteva nell'abbondanza dei frutti e nella soavità dei cibi e delle bevande, secondo il mito dei fiumi che scorrevano latte e degli alberi stillanti miele, ma nella sobrietà e temperanza: la fame e la sete rendevano piacevoli i più semplici frutti della terra e l'acqua schietta delle fonti.

Miele selvatico e locuste furono il cibo che nutrì Giovanni Battista nel deserto; e per questo egli è glorioso e tanto grande

quanto vi è rivelato dal Vangelo ».

San Giovanni Battista nel deserto, secondo il racconto evangelico, si cibava di cavallette e di miele selvatico (Matteo III, 4; Marco I, 6). E il vangelo dice di lui: "Fra i nati di donna, non vi è nessuno più grande di Giovanni" (Luca VII, 28; cfr. Matteo XI, 11).



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