LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto XXII

Sopraffatto dallo stupore (per il grido dei beati ), mi volsi verso la mia guida, come fanciullo che ricorre sempre alla madre, colei nella quale ha maggior fiducia;

e Beatrice, come madre che subito viene in soccorso al figlio pallido e ansioso con le sue parole, che sogliono tranquillizzarlo,

mi disse: “ Non ti ricordi che sei in paradiso ? e non sai che in paradiso tutto è santo, e che tutto quello che qui si fa deriva da carità ardente ?

Ora, dopo che il grido dei beati ti ha tanto sconvolto, puoi comprendere quanto più ti avrebbero sconvolto il loro canto e lo splendore del mio sorriso (cfr. canto XXI, versi 58-60 e 4-12);

e se tu avessi potuto capire la preghiera contenuta in quel grido, già ti sarebbe svelata la punizione divina che vedrai prima della tua morte.

Il grido innalzato da tutti i beati del cielo di Saturno dopo l'invettiva di Pier Damiano contro i moderni pastori, ha invocato la punizione divina su coloro che sono causa della degenerazione morale della Chiesa. Benvenuto, il Buti e il Landino ritengono che nei versi 13-15 ci sia un allusione all'episodio di Anagni (Purgatorio XX, 86), mentre per il Del Lungo la vendetta prossima sarà quella che colpirà Clemente V, il pontefice che trasferì la sede papale ad Avignone. Tuttavia Dante sembra lasciare volutamente indeterminata l'espressione dei versi 14-15, la quale rientrerebbe, dunque, come tante altre del Paradiso, nell'atmosfera di speranza e di attesa della renovatio universale che caratterizza la terza cantica.

La spada della giustizia divina non colpisce né troppo presto né troppo tardi, eccetto che nel giudizio di colui che, desiderando la punizione divina o temendola per se, l’aspetta ( con ansia ) .

Ma osserva ormai gli altri beati, perché vedrai anime molto famose, se rivolgi lo sguardo così come ti dico ”.

Rivolsi gli occhi, come Beatrice desiderava, e vidi un numero infinito di piccole sfere che illuminandosi a vicenda splendevano più intensamente.

Io ero nello stesso stato d’animo di colui che reprime in sé lo stimolo del desiderio, e non osa domandare, tanto teme di eccedere i limiti della discrezione;

e la più grande e la più luminosa di quelle gemme si fece avanti, per appagare il mio desiderio rivelandomi il suo nome.

La seconda anima del cielo di Saturno è quella di San Benedetto. Nato a Norcia (Umbria) nel 480, iniziò i suoi studi a Roma, ma a quattordici anni si ritirò a vita eremitica prima a Enfide (oggi Affile) e poi in una grotta presso Subiaco. La fama della sua santità si diffuse ben presto e i monaci del vicino convento di Vicovaro lo vollero nel 510 come loro superiore. Tuttavia, a causa della severità della disciplina da lui imposta, i suoi confratelli tentarono, poco dopo, di avvelenarlo. Ritornato alla vita eremitica raccolse in breve un gran numero di discepoli, per i quali costruì a Subiaco dodici monasteri. In Campania, a Montecassino, dopo aver distrutto un tempio di Apollo che sorgeva nel luogo ed aver convertito la popolazione pagana, fondò nel 528 il celebre monastero. Qui mori nel 543.
Redatta a Montecassino, la sua Regola imposta la vita cenobitica sulla preghiera e sul lavoro (ora et labora), innalzando lo studio e il lavoro alla dignità della preghiera, cosicché, proprio nel periodo delle invasioni barbariche, i monaci benedettini svolsero una funzione importantissima in campo culturale (conservando e copiando codici, salvarono molto del patrimonio letterario antico) e in campo economico (lavorando la terra e bonificando zone paludose, salvaguardarono l'agricoltura).


Poi dentro la luce che l’avvolgeva udii: “Se tu conoscessi, come conosco io, la carità che arde in noi, avresti espresso il tuo pensiero ( senza timore di essere inopportuno ).

Ma affinché tu, indugiando ( a parlare), non debba ritardare il raggiungimento della tua alta meta ( la visione di Dio nell’Empireo), risponderò alla domanda soltanto pensata che tu esiti così tanto ( a tradurre in parole).

La drammatica tensione che si era venuta accumulando alla fine del canto precedente con l'invettiva di Pier Damiano per erompere nel grido improvviso, maestoso, terribile dei beati, si prolunga nell'esordio del canto XXII. Il tuono che ha scosso la volta del settimo cielo è ormai passato, ma "seguita ad esser presente nel suo effetto, che è oppression di stupore, e nel suo contrario, un gran silenzio intorno allo smarrito silenzio del Poeta" ( Chiari ) . La potenza di quel grido e l'assolutezza di questo silenzio non sono che immagini sensibili della sproporzione fra la dimensione umana di Dante e la misura divina dei beati, fra il cielo e la terra e questa distanza torna ad essere dichiarata nella quattro terzine iniziali: nell'immagine del fanciullo che cerca protezione (si noti l'abile scelta lessicale: un diminutivo, pargola e due aggettivi di notevole forza significante , palido, e - anelo - che fissano drammaticamente uno stato d'animo d'incertezza e di ansia), nel rapido accorrere della madre, nelle parole di Beatrice che sottolineano l'esistenza di questa sproporzione. Ma dopo il severo accenno alla prossima vendetta di Dio sui suoi indegni ministri e il minaccioso balenio della spada vindice (ancora il divino che sovrasta l'umano), ecco un sorridente invito a riprendere contatto, senza timori, con la luce e la carità dei beati, uno dei quali previene la domanda di Dante per non ritardargli neppure di un attimo la visione di Dio. E' interessante notare l'insistenza con la quale il Poeta, nei due canti dei contemplanti (canto XXI, versi 61 sgg.), ritorna sul tema dell'alta carità che lega le anime fra di loro e le sospinge verso il pellegrino. Il Chiari così commenta: "la nota della carità ha vibrato fin dal primo etereo apparire della prima creatura di paradiso, e...Dante non ora soltanto tace aspettando l'incoraggiamento o il permesso, tuttavia sembra che il Poeta abbia voluto istituire "un segreto rapporto... tra le tante tacite ma rapite sospensioni di questi canti dei contemplatori e un più palpitante ardore di carità che investe le anime e dalle anime su di lui si riversa e da lui alle anime torna. Come se Dante anche con questi mezzi avesse voluto creare in sé e nel lettore una immagine viva del contemplare, quale egli sentiva che potesse e dovesse essere. Profondità, cioè, intensa del sentire, ma tutta interiormente espressa in un solitario colloquio tra Dio e l'anima ".

La vetta di quel monte sulle cui pendici sorge Cassino, fu un tempo frequentata da popolazioni immerse nelle false credenze del paganesimo e restie (ad accogliere la vera fede);

Il borgo di Cassino sorge alle pendici del monte Cairo, sulla cui vetta si trovava un venerato tempio di Apollo, che San Benedetto fece abbattere (dell'antica acropoli restano ancora oggi grandiose rovine ) per edificare, al suo posto, una cappella dedicata a San Giovanni Battista.

ed io sono colui che per primo diffuse in quei luoghi il nome di Cristo, colui che portò sulla terra la verità che ci innalza alla beatitudine eterna;

e risplendette sopra di me tanta grazia divina, che riuscii ad allontanare gli abitanti dei borghi circostanti dall’empio culto pagano che aveva attratto a sé tutto il mondo.

Questi altri spiriti luminosi furono nella vita tutti dediti alla contemplazione, accesi di quell’ardente carità che produce pensieri e opere sante.

Qui si trova Macario, qui si trova Romualdo, qui si trovano quei benedettini che rimasero fedeli alla vita del chiostro tenendosi stretti, con saldo cuore, alla regola ”.

Non sappiamo se Dante intenda riferirsi a Macario d'Alessandria, discepolo di Sant'Antonio e fondatore del monachesimo orientale, morto nel 404, oppure a Macario l'Egiziano, morto nel 391, dopo aver condotto vita eremitica nel deserto libico. Poiché essi vennero spesso confusi, il Porena conclude che è probabile che anche Dante li confondesse. E' certo, tuttavia, che il Poeta abbia voluto accostare, alle figure del monachesimo occidentale, un insigne rappresentante del monachesimo orientale.
Romualdo nacque a Ravenna dalla nobile famiglia degli Onesti verso il 952 e morì nel 1027. Entrato nell'ordine benedettino e costatatane la corruzione, divenne fiero sostenitore della riforma monastica, creando, sull'antico ceppo di San Benedetto, l'ordine eremitico dei Camaldolesi, così chiamato dal monastero di Camaldoli, il più celebre fra quelli fondati da San Romualdo.


Ed io a lui: “ La carità che dimostri rivolgendomi la parola, e la benevola espressione che vedo e osservo nello aspetto luminoso di voi tutti,

hanno accresciuto la mia fiducia così come fa il sole con la rosa quando essa (al calore dei raggi) si apre in tutta la sua pienezza.

Perciò ti prego, e tu, padre, dimmi se sono degno di ottenere una grazia tanto grande, affinché possa vederti nella tua figura umana, liberata (dalla luce che la fascia)”.

Per cui egli rispose: “ Fratello, il tuo alto desiderio sarà soddisfatto nell’ultimo cielo ( nell’Empireo, sede di Dio e reale dimora dei beati ), dove tutti desideri e perciò anche il mio ( che è quello di accogliere la tua richiesta) trovano il loro appagamento,

Là ciascun desiderio e compiuto, giunto alla sua pienezza e senza difetti; solo in quest’ultimo cielo ogni parte è perfettamente immobile,

perché (esso) non è nello spazio, e non ha i poli celesti intorno a cui girare; e la nostra scala sale fin lassù, per cui si sottrae così alla tua vista.

L'Empireo è il cielo della perfetta quiete, essendo pienamente appagato dalla visione di Dio, che ha sede in esso, laddove tutti gli altri cieli esprimono con un movimento più o meno intenso, a seconda della distanza, il desiderio di ricongiungersi a Lui ( cfr. Paradiso 1, 122; Convivio II. III, 8). L'Empireo, a differenza degli altri cieli, non esiste nello spazio, ma solo nella mente divina, nella quale fu "formato" (Convivio II, III, 11).
Nostra scala infino ad essa varca: la contemplazione mistica, di cui la scala di Saturno è simbolo, unisce dunque direttamente gli spiriti contemplativi a Dio, mentre colui che non è pervenuto al grado di spiritualità proprio della mistica dovrà completare tutta la sua ascesa prima di godere la visione beatificante di Dio. Solo allora ogni desiderio potrà essere appagato.
L'interpretazione che il Montanari offre riguardo alla richiesta di Dante e alla risposta di San Benedetto è degna di nota: "Questo desiderio respinto può sembrare una divagazione un po' arbitraria nell'insieme del disegno: ma non lo è strutturalmente, poiché rappresenta concretamente le impazienze umane nell'elevazione ascetico-mistica (cfr. Purgatorio VI, 49 sgg.), né tanto meno poeticamente poiché libera il colloquio da ogni schematicità catechistica e si sviluppa attorno ai bellissimi versi 55-57: la confidenza con cui Dante si rivolge al Santo per un desiderio non intellettuale ma affettuosamente sensibile ( vedere il Santo con i tratti corporei che ebbe in terra) dice meglio di ogni esplicita descrizione come l'anima di Dante si senta elevare ed espandere nell'amore".


Il patriarca Giacobbe, quando la scala gli apparve così piena di angeli (che salivano e scendevano) ne vide la cima protendersi fino all’ultimo cielo.

Per quanto riguarda il riferimento biblico cfr. canto XXI, nota alla terzina 31.

Ma, per salirla, oggi nessuno alza i piedi da terra, e la mia regola è rimasta solo per sciupare la carta (dove viene trascritta).

Per procedere sulla strada della contemplazione, secondo la regola benedettina è necessario il distacco dai beni terreni, che nessuno dei moderni seguaci di San Benedetto si sforza di attuare. Dopo l'inno all'Empireo, nel quale la scientifica rappresentazione dell'ultimo cielo si era alla fine animata, come nota il Chiari, della concreta ebbrezza del tendere ad esso e del possederlo e si era conclusa con quel gran volo d'angeli (verso 72 ), si propone, stridente, un contrasto: "La perfezione dell'Empireo suggerisce il ricordo di ciò che fu la sua nostalgia già sulla terra per San Benedetto e, per contrasto, richiama il pensiero dei troppi che per molto tempo non hanno ascoltato il dolcissimo invito del cielo. Ma intanto le parole del Santo aggiungono, ora, qualche particolare di più alle parche notizie biografiche dette di sopra, qualche particolare della intima religiosità che ispirò e accompagnò le opere del Santo. Nei versi precedenti era dato più risalto alle opere e indirettamente alla bellezza della idea che le ispirò e le illuminò; qui è per sommi capi esposto tutto il complesso del programma pensato e vissuto e attuato con tanta convinzione, con tanto ardore, con tanto intimo gaudio".

I monasteri che solevano essere rifugio di santa vita sono diventati spelonche di ladroni, e le tonache monacali son simili a sacchi pieni di farina guasta .

Ma la più grave usura (frutto del denaro dato a prestito) non offende tanto profondamente la volontà di Dio, quanto l’avidità delle rendite ecclesiastiche che travia l’animo dei monaci,

perché tutto ciò che la Chiesa custodisce, appartiene ai poveri che chiedono la carità in nome e per amore di Dio, non ai parenti degli ecclesiastici o ad altre persone che è preferibile non nominare ( concubine e figli naturali ).

San Bonaventura aveva affermato che le decime spettano di diritto ai poveri (Paradiso XII, 93) e San Benedetto ribadisce con forza quel concetto, ampliandolo: tutto è della gente che per Dio dimanda, perché il pontefice non è "possessore" dei beni della Chiesa, ma "dispensatore" di essi ai poveri (Monarchia lIl, X, 17).

La natura umana è cosi debole, che giù nella terra un buon proposito iniziale (quale fu quello offerto dalla Regola di San Benedetto) non dura neppure per il periodo che va dalla nascita della quercia al suo fruttificare ( periodo che è di circa venti anni ).

San Pietro diede inizio alla comunità della Chiesa senza possedere né oro né argento, ed io diedi inizio al mio ordine con le preghiere e i digiuni, e San Francesco con la umiltà.

Tre esemplificazioni in tre versi scanditi e martellati per presentare le earatteristiche evangeliche della Chiesa: San Pietro la fondò senza bisogno di beni terreni (Atti degli Apostoli III, 6; cfr. Inferno XIX, 94,95; Paradiso XXI, 127,129) e San Benedetto e San Francesco predicarono solo il possesso dei beni spirituali. Le tre grandi figure "si distaccano nette, in sintetici particolari...: Pier.., e io... e Francesco; mentre fra cominciò e convento, con una spezzatura di costruzione, è racchiuso tutto il quadro" (Grabher).

E se consideri il periodo iniziale di ciascuna comunità, e poi rifletti fino a che punto essa è degenerata, tu vedrai che il bianco si è mutato in nero (cioè: le virtù iniziali si sono cambiate negli opposti vizi).

Tuttavia l’aver fatto retrocedere le acque del Giordano e aprire le acque del mare, quando Dio lo volle, furono cose più mirabili a vedersi di quello che sarà il rimedio divino a questa corruzione”.

Durante l'esodo degli Ebrei dall'Egitto verso la Palestina, il Mar Rosso si aperse per permettere il passaggio di Mosè e del suo popolo (Esodo XIV, 21-29) e il fiume Giordano ritirò le sue acque di fronte a Giosuè e alla sua gente (Giosuè III, 14-17). La terzina dantesca, nella brevità del suo giro di frase, è improntata alla stessa brevità e velocità del salmo biblico (CXIV, 3: "Il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse a ritroso" ) che la ispira.
Il Tommaseo ha giudicato la costruzione di questa terzina incerta come la speranza di Dante in un futuro intervento divino. In realtà questa è la costruzione caratteristica dello stile profetico: nelle parole tronche (Iordan... fuggir... veder) sulle quali battono vigorosi gli accenti, nell'uso di termini rari, quali il latinismo retrorso, che Dante non esita a trasferire tale e quale dal testo biblico al suo volgare, nella forma concisa, accentrata intorno alla parola più significativa, mirabile, che testimonia la presenza del miracolo, non c è "oscurità o contorsione, ma lo stile dantesco folto e rapido, animato dal senso della potenza divina" (Malagoli ) .


Così mi parlò, e poi si riunì alla sua schiera, e questa si chiuse in un gruppo compatto; poi, come un turbine, salì roteando verso l’Empireo.

La mia dolce guida mi sospinse dietro a loro, su per quella scala, con un solo cenno, tanto la sua virtù riuscì a vincere il peso del mio corpo;

e mai sulla terra, dove si sale e si scende con mezzi naturali vi fu un movimento così veloce da poter, si paragonare alla rapidità del mio volo.

Così possa io tornare, o lettore, in paradiso per meritare il quale spesso piango i miei peccati e mi percuoto il petto,

(come è vero) che io vidi la costellazione dei Gemelli, che segue quella del Toro, ed entrai in essa in un tempo più breve di quello che tu avresti impiegato a mettere e trarre il dito dal fuoco.

Dante ascende all'ottavo cielo, quello delle stelle fisse, nel quale si trova la costellazione dei Gemelli, che nello Zodiaco è immediatamente preceduta da quella del Toro.

O stelle dispensatrici di gloria, o luce piena di nobile potenza, all’influsso della quale devo attribuire tutto il mio ingegno, qualunque sia il suo valore, 

il sole, che ( con il suo calore ) è sorgente di ogni vita sulla terra, nasceva e tramontava in congiunzione con voi, allorché respirai per la prima volta l’aria di Toscana;


Dante nacque tra il 21 maggio e il 21 giugno, periodo nel quale il sole è in congiunzione con la costellazione dei Gemelli che, secondo la concezione astrologica del tempo, predispone allo studio e alle lettere (cfr. a questo proposito Inferno XV, 55-57; XXVI, 23,24; Purgatorio XXX, 109-111).

e poi, quando mi fu concessa la grazia di salire nel cielo ( delle stelle fisse ), che girando provoca anche il vostro movimento, ebbi in sorte di giungere nella parte di questo cielo da voi occupato.

A voi ora il mio animo s’innalza devotamente, per acquistare la forza necessaria ad affrontare l’ardua prova che lo attira a se.

L'interpretazione dei versi 121-123 è controversa, ritenendo il Barbi che il passo forte sia quello della morte (Dante, in questo caso, invocherebbe l'assistenza della costellazione sotto la quale nacque e nella quale entrò salendo al cielo Stellato) e ribattendo il Porena che "da una costellazione invocata e ringraziata come datrice d'ingegno" il Poeta può aspettare "un aiuto al suo ingegno, non al suo coraggio e alla sua virtù morale". La virtute che il Poeta invoca dai Gemelli e quindi da Dio, per il quale gli astri esercitano i loro influssi, consisterà, dunque, in un potenziamento delle proprie capacità poetiche, dovendo descrivere l'ultima visione (il forte passo) del paradiso, quella della corte celeste e di Dio stesso.

“Tu sei così vicino a Dio ” cominciò Beatrice, “ che i tuoi occhi devono ormai essere limpidi e penetranti:

e perciò, prima che tu penetri più profondamente nella visione divina (t’inlei: riferito a ultima salute), guarda verso il basso, e osserva quanta parte del mondo ti ho ormai fatto percorrere,

così che il tuo cuore si presenti lieto, quanto più gli è possibile, alle schiere trionfanti che avanzano piene di gaudio in questa sfera celeste. ”

Ripercorsi con lo sguardo tutti i sette cieli (che avevo attraversato), e vidi la sfera terrestre così piccola, che sorrisi della sua meschina apparenza;

e riconosco come migliore il giudizio di coloro che più la disprezzano; e chi pensa alle cose celesti (invece che a quelle terrene ) si può chiamare veramente virtuoso.


Lo spunto per la rappresentazione della terra vista dall'alto dei cieli e per il felice passaggio dal tema fisico-scientifico a quello morale della terzina 136, è offerto da un passo del Somnium Scipionis di Cicerone (111-VI). Ancora una volta un elemento desunto dalla cultura classica serve a commentare un momento pieno di significato, che non può non richiamare il discorso che Virgilio ha rivolto al discepolo, alla soglia del paradiso terrestre, per riassumere le tappe principali della lunga strada superata. Come là Dante doveva prendere coscienza del superamento definitivo del temporal foco e dell'etterno con l'acquisto del libero arbitrio volto al bene, così ora deve prepararsi all'incontro con le schiere trionfanti dei santi guidati da Cristo stesso. L'Apollonio commenta con molta finezza, prendendo spunto dal verso 68 ( e nostra scala infino ad essa varca): "Distacco, dunque e congedo: ché il canto anela alla scala santa, La scande di volo, con più fretta che corse la scala dopo il settimo cerchio del purgatorio; e non Virgilio l'attende con la sua corona, ma capovolti i cieli dei pianeti, e torbida minuscola la terra. Quelli son ora la sua corona. Il commento è stupendo: dall'alto della stella nativa, gli eterni Gemelli, il Poeta innalza un inno che gli riconcilia il mondo, nel segno del sole, e la terra amara di Toscana... e le stelle fanno alle parole sentiero e alla figura corona .

Vidi la luna (figlia di Latona e di Apollo, in quanto identificata, nella mitologia classica, con Diana) illuminata senza quelle macchie a causa delle quali io l’avevo ritenuta costituita da parti rare e dense.

La luna appare senza le sue famose macchie, intorno alle quali il Poeta ha discusso nel canto secondo del Paradiso, perché esse sono visibili solo faccia rivolta verso la terra, mentre Dante ora, contemplandola dall'alto, ne scorge l'altra faccia, luminosa e nitida.

Qui, o Iperione, riuscii a sopportare la vista del sole, tuo figlio, e vidi, o Maia e Dione, come intorno e vicino a lui si muovono i pianeti (Mercurio e Venere ).

Per la sua accresciuta forza visiva (cfr. versi 125-126), Dante può ora osservare, senza rimanerne abbagliato, la luce del sole, che della mitologia classica è considerato figlio di Iperione ( cfr. Ovidio - Metamorfosi IV, 192-241), e può seguire i movimenti del pianeta Mercurio e del pianeta Venere, presentati, nelle antiche leggende, rispettivamente come figli di Maia e di Dione.

Di li mi apparve l’influsso temperatore di Giove tra Saturno, suo padre, e Marte, suo figlio; e di li vidi chiaramente il variare delle loro posizioni.

Giove, la temprata stella già presentata nel canto XVIII (verso 68), si trova tra il pianeta Saturno, di complessione fredda, e il pianeta Marte, di complessione calda (cfr. Convivio II, XIII. 25). I pianeti, rispetto alle stelle fisse, ruotano continuamente la loro posizione nel cielo (cfr. Paradiso VIII, 3).

E tutti e sette i pianeti mi si mostrarono nella loro grandezza, e nella loro velocità, e nella distanza che intercorre fra la zona dell’uno e quella dell’altro.

Mentre mi volgevo con la costellazione dei Gemelli, la terra, che, pur piccola come un’ala, ci rende tanto feroci (spingendoci gli uni contro gli altri per il possesso dei suoi efflmeri beni ), mi apparve tutta, dai suoi luoghi più alti fino a quelli più bassi, dove i fiumi sfociano in mare.

Dopo aver percorso con lo sguardo tutti i pianeti, che egli vede muoversi "come un perfetto ingranaggio di cosmica orologeria " ( Montanari ), al Poeta appare, appiattita e confusa per l'immensa distanza, la terra, simile ad un'umile ala (l'immagine deriva da un passo di Boezio - De consolazione philosophiae Il, 7 e viene ripresa nella Monarchia III, XVI, Il),- dove gigantesca è solo la ferocia con la quale gli uomini si odiano e si combattono. Ma dalla terra e dalla sua tristezza il Poeta subito si congeda, ritornando alla contemplazione celeste attraverso lo sguardo di Beatrice.

Poi rivolsi i miei occhi verso quelli luminosi di Beatrice.



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it