LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto XX

Quando il sole che illumina tutto il mondo tramonta dal nostro emisfero tanto, che il giorno da ogni parte viene meno,

il cielo, che prima era illuminato soltanto dalla sua luce, ridiventa improvvisamente visibile grazie ai molti astri, nei quali si riflette l’unica luce del sole:

e questo fenomeno celeste mi venne in mente, non appena l’aquila, l’insegna dell’impero romano che unificò il mondo, e dei suoi imperatori, tacque col suo becco,

poiché tutti quegli spiriti luminosi, risplendendo sempre di più, intonarono canti, caduti e dileguati dalla mia memoria.

La similitudine che apre il canto XX nasce, come la maggior parte delle similitudini della Commedia, dalla costante preoccupazione di riferire i singoli momenti del mistico viaggio a un mondo di esperienze concrete e positive. Per spiegare come l'unica voce dell'aquila, che ha appena terminato con il duro sirventese contro i malvagi reggitori della terra la lezione teologica del canto XIX, si rifrange ora nei canti delle singole anime, "viene in mente", al Poeta, I'improvviso accendersi delle stelle nel cielo subito dopo il tramonto del sole. Una immagine visiva per descrivere un fatto acustico: invenzione non nuova in Dante,: che ha già paragonato il tumulto di grida e di lamenti degli ignavi al turbinare della rena (Inferno III. 28-30) o, inversamente, ha chiamato il secondo cerchio, privo di sole, luogo d'ogni luce muto (Interno V, 28). Il momento poetico centrale della similitudine è nel particolare astronomico del verso 6 (le stelle, secondo la credenza medievale, derivano la loro luce dal sole): la breve notazione erudita salda, infatti, il momento visivo a quello acustico, il quale, quando viene introdotto, ripropone un'immagine di luce:per molte luci, in che una risplende... tutte quelle vive luci... cominciaron canti. Giustamente V. Rossi commenta che "il fenomeno luminoso svela la sua sostanziale identità col rifrangersi la voce una del rostro nella moltitudine finora univoca delle luci canore". Tuttavia, al di là della vaghezza d'immagini, preme al Poeta che nella coralità del regno dell'aquila si mantenga la pluralità degli spiriti, avendo egli ben avvertito il pericolo di un errore teologico, quello di sottrarre alle anime dei giusti, serrate nella figura dell'aquila, ogni attributo personale. A questo proposito risultano assai valide le seguenti osservazioni del Montanari: " Il primo motivo conduttore di questo canto è l'alternarsi dei discorsi Dell'aquila formata dalle anime dei giusti e che parla come un'unica persona, con il brillare e il cantare dei singoli giusti quasi a commento più variamente personale del discorso comune. Trova cioè, in questo canto, perfetta espressione il sentimento della concorde unità, ed insieme quello della piena personale libertà che Dante ha già tentato di rappresentare nel concorde e vario girare delle corone dei sapienti nel cielo del Sole, e nel vario muoversi dei forti saldamente inquadrati nella croce di Marte".

O dolce carità che ti avvolgi nel manto luminoso del tuo sorriso, quanto ti mostravi ardente in quegli spiriti che come flauti spiravano i loro canti mossi solo da santi pensieri!

Dopo che le anime simili a lucenti gemme preziose, di cui avevo visto adornato Giove, il sesto pianeta, interruppero gli angelici canti,

mi parve di udire il mormorio di un torrente che scende limpido giù di sasso in sasso, mostrando la ricchezza d’acqua della sua sorgente sulla vetta,

E come il suono si modula nella parte più alta della cetra ( dove il suonatore fa scorrere le dita), e come il fiato che penetra nella zampogna acquista forma di suono ai fori di essa,

Così, rimosso ogni indugio, il mormorio dell’aquila salì su per il collo come se questo fosse vuoto.

I versi 13-27 mantengono il tono contemplativo e nello stesso tempo trionfale dell'esordio. Infatti il tramonto, descritto nelle due terzine iniziali, è ben diverso da quello, carico di ansietà e di timori, del canto II dell'Inferno (versi 1-3) o da quello, pensoso e raccolto, del canto VIII del Purgatorio (versi 1-6 ), nei quali l'animo assisteva con un senso di doloroso stupore alla scomparsa della luce. Ora l'accento è posto non più sulla mancanza di luce, bensì sull'accendersi di migliaia di stelle, di migliaia di luci: è una visione nella quale, all'immensità dello spettacolo celeste, si unisce il tripudio festante di quello scintillio. Non semplice appendice, ma poeticissimo sviluppo della larghezza di movimento, della pienezza ed esuberanza di accordi di questo esordio, sono i versi 13-27. Il De Bello, che ha svolto numerosi suggerimenti di V. Rossi e del Momigliano, nota che questa parte del canto è musicale non solo per le numerose immagini desunte dal mondo della musica (I'echeggiare di flailli, gli angelici squilli, il suono che si modula nel collo della cetra o nei fori della zampogna; a queste immagini si aggiunge, negli ultimi versi, quella del citarista che accompagna il cantore), ma perché tale è "nella sua abile strutturazione, nel tessuto della sintassi poetica, nell'uso stesso della parola". Dopo le terne iniziali di assonanze (discende - s'accende - risplende - parvente - mente - tacente - canti - t'ammanti - santi), la ricerca musicale culmina in un fine gioco di assonanze (failli - lapilli - squilli - lume - fiume - eccome) abilmente contrappuntato da suoni acuti (-illi- ) e gravi (-ume-).Questa sintassi poetica, avvertibile in tutto il canto (il De Bello cita, a questo proposito, numerosi esempi ), non resta un elemento esterno, una prova di abilità tecnica nella ricerca di accorgimenti fonici, ma diventa l'"espressione lirica di uno stato d'animo abbandonato", la componente psicologica e spirituale della lezione teologica. Il canto XX, infatti, ribadisce e rafforza la serena conclusione del discorso dell'aquila sul tema della predestinazione: ogni dubbio, ogni angosciosa incertezza si placano nell'invocazione conclusiva dei versi 130-132: o predestinazioni, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota! E l'animo del Poeta, nell'accettazione del mistero e nella contemplazione della giustizia divina, trova la sua gioia più alta e inebriante, quella che appunto gli detta la musicale orchestrazione nonché la ricchezza tematica di questi versi. "Rapide, plastiche, luminose" il Parodi definisce le similitudini del fiume e della cetra, che dopo la polifonia dei canti delle anime giuste introducono nuovamente alla monodia dell'aquila. Per quanto riguarda la similitudine del fiume facciamo nostre ancora le osservazioni del De Bello: "I'ubertà del suo cacume, espressione di pregnante ricchezza che suggerirebbe visioni di scroscianti e spumeggianti acque alpine si perde e si spegne in quel dolce mormorare, nella onomatopea del verso, in quello scendere chiaro giù di pietra in pietra. Un torrente alpino ubertoso di acque sì, forse croscianti, ma udito attraverso una lontananza di spazio e di tempo, quasi un'evocazione mnemonica di ascoltare rapito...". Proprio perché l'immagine visiva si risolve in quella musicale del mormorio, questi versi si differenziano da quelli celebrativi dell'Inferno dedicati ai verdi ruscelletti del Casentino ( canto XXX, versi 64-67), nei quali l'immagine manteneva la sua concreta attualità, la sua determinatezza di cosa vista e quasi assaporata. Ora invece tutto perde capacità e peso. La stessa aquila è pur sempre un immagine stilizzata, senza profondità, cosicché il suono può sortire attraverso il suo collo bugio.

Nel collo il mormorio divenne voce, e di qui attraverso il becco uscì in forma di parole, proprio come le desiderava il mio cuore, dentro il quale le impressi.

L’aquila cominciò: “ Ora devi guardare attentamente il mio occhio, la parte: che nelle aquile terrene vede e sopporta la luce del sole,

perché fra gli spiriti coi quali formo la mia figura, quelli onde l’occhio risplende nella mia testa, hanno il più alto grado di beatitudine fra tutti quelli del sesto cielo.

Colui che risplende nel mezzo dell’occhio come pupilla, fu Davide, il cantore ispirato dallo Spirito Santo, che trasportò l’arca santa di luogo in luogo (fino a Gerusalemme);

Davide, re d'Israele e autore dei Salmi ( cantor dello Spirito Santo: perché gli scritti biblici sono ispirati da Dio). fece trasportare l'arca santa da Baala alla casa di Abinadab, nella cittadina di Get, e da Get a Gerusalemme (II Samuele Vi, 1-23; cfr. anche Purgatorio X, 55-69 ).

ora conosce quale fu il merito acquistato con i suoi Salmi, in quanto (I’accettazione dell’ispirazione divina) fu frutto della sua libera volontà, per il premio avuto che corrisponde al merito.

Dei cinque spiriti che mi formano l’arco del ciglio, quello che è più vicino al mio becco, fu Traiano, colui che consolò la vedovella dell’uccisione del figlio:

L'imperatore Traiano (97-117 d. C.), mentre si accingeva ad intraprendere una spedizione militare contro i Daci, esaurì le preghiere di una vedova che invocava giustizia contro gli uccisori del figlio (cfr. Purgatorio X, 73-93). Secondo una leggenda molto diffusa nel Medioevo, il papa San Gregorio Magno, commosso per l'atto di giustizia compiuto da Traiano verso la vedovella, tanto pregò per lui che gli ottenne da Dio la salvezza. Una delle redazioni di questa leggenda narrava che l'anima di Traiano, che si trovava all'inferno, ritornò per breve tempo nel corpo per ricevere il battesimo (cfr. versi 112-117).

ora conosce quanto costi caro non aver la fede in Cristo, per l’esperienza che fa di questa vita beata e per quella fatta dell’opposta vita nell’inferno.

E lo spirito che viene dopo Traiano nel cerchio di cui sto parlando, nella parte superiore del mio arco ciliare, è Ezechia, colui che con la vera penitenza ritardò la morte:

Il terzo sovrano presentato dall'aquila è Ezechia, figlio di Acaz e re di Giuda, lodato per la sua giustizia: ( II Re XVIII, 3-5). Essendo gravemente ammalato ed essendogli stata annunziata come prossima la morte dal profeta Elia, chiese ed ottenne da Dio che la vita gli fosse prolungata di quindici anni (cfr. Il Re XX, 1-11; Isaia XXXVIII, 1-22). Nella Sacra Scrittura non appare che Ezechia abbia chiesto di differire la sua morte per fare vera penitenza. Dante ha interpretato I'episodio in questo senso perché, nella preghiera di ringraziamento per la guarigione ottenuta, il re manifesta anche il pentimento per i propri peccati (Isaia XXXVIII, 17).

ora conosce che il giudizio eterno di Dio non cambia, anche se una preghiera meritoria ottiene di rimandare a domani ciò che sulla terra dovrebbe accadere oggi.

L’altro spirito che segue è Costantino. colui che, con buona intenzione che diede (però) cattivi risultati, per cedere Roma al papa, fece greco se stesso (trasferendo la capitale a Bisanzio) con le leggi dell’Impero e con la sua insegna:

Nel punto più alto del sopracciglio dell'aquila è l'imperatore Costantino, che trasferi la capitale dell'Impero da Roma a Bisanzio (si fece greco] per cedere il dominio di Roma al pontefice. Dante riconosce qui che, nella sua decisione, Costantino fu mosso da un'intenzione onesta e religiosa ( buona ), della quale non poté prevedere i gravissimi risultati: la degenerazione morale della Chiesa, iniziata con il possesso dei beni materiali, e la confusione fra potere spirituale e potere-temporale. Cfr., a questo proposito, Inferno XIX, 115-117; Purgatorio XXXII, 124-129; Monarchia II, Xll, 8; III, X, 4,17. Nel giudizio di Dio non contano dunque i risultati pratici di quell'azione, bensì l'intenzione, qui definita buona e altrove sana e benigna (Purgatorio XXXII, 138).

ora conosce che il male causato dall’opera da lui compiuta con retta intenzione non gli è imputato a colpa, sebbene da ciò sia derivata la rovina del mondo.

E lo spirito che vedi nella curva discendente dell’arco ciliare, fu Guglielmo, che è rimpianto dalla terra (di Puglia e di Sicilia ) la quale ora soffre per il malgoverno di Carlo II e Federico II, suoi attuali sovrani:

Guglielmo II d'Altavilla, il Buono, fu re di Sicilia e di Puglia dal 1166 al 1189. Sovrano giusto e illuminato, promosse e favorì la terza Crociata e fu concordemente celebrato da poeti e cronisti del tempo. Il suo buon governo è qui contrapposto a quello di Carlo Il d'Angiò, re di Puglia, e a quello di Federico II d'Aragona, re di Sicilia. Dante ha già presentato i dispregi di questi due sovrani nel canto XIX del Paradiso. versi 127-135.

ora conosce come Dio ami i re giusti, e dimostra anche con il fulgore del suo aspetto questa sua consapevolezza.

Chi potrebbe credere laggiù in terra fra gli uomini soggetti ad errore, che il troiano Rifeo fosse il quinto spirito beato nell’arco del mio ciglio?

Rifeo, sconosciuto ad Omero, viene ricordato nell'Eneide (Il, 426-428) fra i Troiani che morirono difendendo Ilio allorché i Greci penetrarono nella città con lo stratagemma del cavallo di legno: "cadde anche Rifeo, il più retto che sia mai stato fra i Teucri e il più osservante della giustizia", ma, aggiunge il poeta latino, "agli dei sembrò altrimenti". Il giudizio pieno di lode dato dal suo maestro sull'oscuro guerriero troiano e l'accettazione del volere divino, espresso nell'ultimo emistichio vir, giliano, giustificano la trasfigurazione, nel poeta cristiano, di Rifeo in simbolo della imperscrutabilità della giustizia divina.
Per la seconda volta l'aquila presenta un elenco di personaggi. Nel canto precedente la rassegna degli indegni re della terra si era svolta in nove terzine, nelle quali ogni gruppo ternario incominciava con la stessa parola ( lì, vedrassi, e), formando un acrostico. Anche questa rassegna è chiusa in un rigido schema: a ogni personaggio sono consacrate due terzine, delle quali la prima rivela chi egli sia e la seconda enumera il principio di fede relativo alla condizione di ognuno e chiarificatosi solo ora in paradiso. La prima terzina è sorretta da formule simili (colui che, e quel che, l'altro che), la seconda dalle parole ora conosce, indicanti l'indefinibile distanza tra il corto e fallace giudizio umano e il giudizio divino. Anche questo schema, come quello del canto precedente, ha un suo profondo significato, perché oltre ad accrescere l'efficacia persuasiva e la solennità del discorso delI'aquila, continua, con la sua simmetria sintattica e con il "ritornello grave di musicale sapienza ora conosce che si ripete tante volte, ad uguali intervalli" (Momigliano), il motivo musicale impostato nell'esordio.


Ora, anche se il suo sguardo non ne può distinguere il fondo, conosce abbastanza di quel mistero della grazia divina che il mondo non può conoscere ”.

Come un’allodola che prima spazia nell’aria cantando, e poi tace sopraffatta dalla dolcezza finale del suo canto che la rende contenta,

cosi la figura dell’aquila mi sembrò tacere soddisfatta del piacere ( provato parlando ), il quale è un’impronta del piacere divino, secondo la cui volontà ogni cosa diventa quella che è.

La similitudine dell'allodetta, una delle più celebrate della Commedia, è certamente quella che meglio traduce la sensazione ineffabile dell'anima ormai convinta che il mistero della giustizia divina è un mistero d'amore. Il Tommaseo per primo notò che questa terzina dantesca ha antecedenti diretti nella poesia provenzale, e, in particolare, in questi versi di Bernart de Ventadorn: "quando vedo l'allodoletta ("lauzeta") che muove per gioia le sue ali verso il sole, e poi si oblia e si lascia cadere per la dolcezza che le scende nel cuore...'. Tuttavia il significato della similitudine dantesca è molto più profondo di quello della convenzionale, seppur delicata immagine del poeta provenzale. La gioia della "lauzeta' che si slancia verso il sole non è quella piena e traboccante della allodetta che 'n aere si spazia... cantando: il canto, elemento non rilevato dal trovatore, sottolinea la pienezza di questa effusione (verso 74). La dolcezza che invade l'allodoletta di Bernart de Ventadorn è il godimento fisico della luce del sole, mentre l'ultima dolcezza che rende contenta e sazia l'allodoletta di Dante è il gaudio spirituale che penetra tutto l'essere di chi si sente immerso nella solitudine degli spazi celesti. "E la gioia del benedetto regno è la gioia del Poeta contemplante nel suo pensiero il divino congiunto all'umano nella giustizia. L'impeto di vita poetica, che contenuto si sente nei verso annunciatore delle parole dell'aquila: quali aspettava il core, ov'io le scrissi, si disviluppa progressivamente in quelle parole sino a prorompere poi magnifico nel sogno dell'aquila-allodetta; e quell'impeto e lo spirito del Poeta in fiamma d'amore e di fede per la sua idealità religiosa e civile di un giusto Impero destinato a ricondurre il divino nel mondo" (V. Rossi).

E sebbene io davanti all’aquila fossi trasparente rispetto al dubbio che mi agitava come il vetro rispetto al colore che esso ricopre, il mio dubbio non tollerò di attendere in silenzio,

ma dalla bocca mi spinse fuori con tutta la forza del suo peso la domanda: “ Che cosa sono queste cose (cioè: come può un pagano salvarsi)?”; per cui ( pronunciate quelle parole ) vidi un grande sfavillio di luci (da parte delle anime ).

Nel canto precedente, alla ragione che tentava di sondare il mistero della giustizia divina l'aquila aveva contrapposto la visione di un mare immenso del quale l'umana veduta corta d'una spanna non potrà mai scorgere il fondo, concludendo con un'insindacabile sentenza: a questo regno non salì mai chi non credette 'n Cristo, nel pria nel poi ch'el si chiavasse al legno. La presenza, nel ciglio dell'aquila, di due pagani, Traiano e Rifeo, propone una grave incertezza. La nuova lezione dell'aquila si svolge nella linea dell'ortodossia tomista, con la precisione di linguaggio e di metodo propria della Scolastica.

Immediatamente dopo, per non tenermi sospeso nello stupore, con l’occhio ancor più splendente, il benedetto segno dell’aquila mi rispose:

“ Io vedo che tu credi a queste cose perché te le ho dette io, ma non comprendi come (i due pagani siano salvi), cosicché, anche se tu le credi, queste cose restano oscure ( al tuo intelletto).

Fai come colui che impara sì il nome di una cosa, ma non può conoscerne l’essenza se altri non gliela manifesta.

Il regno dei cieli sopporta violenza solo da parte dell’amore ardente e della speranza da esso vivificata, che vincono la divina volontà;

non la vincono con la violenza come un uomo che sopraffà un altro, ma perché essa vuole essere vinta, e, nel momento stesso in cui è vinta, vince con la sua bontà.

La ripresa di un'espressione evangelica (Matteo XI, 12; Luca XVI, 16) serve a Dante per affermare che caldo amore e viva speranza possono conquistare la divina volontà, la quale altro non desidera che di essere vinta dall'amore e dalla speranza delle creature, cosicché, in ultima analisi, è pur sempre la volontà divina che trionfa con la sua misericordia.

La prima anima fra quelle che formano il mio ciglio e la quinta ti fanno stupire, perché vedi il paradiso, la regione degli angeli, adorno della loro presenza.

Questi due spiriti non uscirono pagani dai loro corpi, come ritieni, ma cristiani, credendo fermamente Rifeo nella futura redenzione e Traiano nella redenzione già operata da Cristo crocifisso.

Perché l’anima di Traiano dall’inferno, da dove non si può ritornare mai alla volontà di operare il bene, tornò a riprendere il corpo; e ciò fu premio dell’ardente speranza (di San Gregorio Magno);

di quell’ardente speranza, che nelle preghiere fatte a Dio per risuscitare l’anima di Traiano infuse una forza tale che la volontà del risorto potesse essere mossa ( alla fede e al pentimento).

La salvezza di Traiano; parte da una premessa teologica: colui che è in stato di Grazia può meritarla ad un altro. Così avvenne per Traiano, salvato per intercessione di San Gregorio Magno. Il caso particolare dell'imperatore romano è ricordato anche da San Tommaso (Summa Theologica III, LXXI, 5).

L’anima gloriosa di Traiano di cui si sta parlando, tornata nel corpo, nel quale restò poco tempo, credette in Cristo che poteva salvarla:

e credendo si accese di tale fuoco di amore di Dio, che, giunta alla morte per la seconda volta, fu degna di salire alla gioia del paradiso.

L’anima di Rifeo, in virtù della grazia divina che deriva da una sorgente cosi profonda, che mai nessuna creatura poté spingere l’occhio fino al punto da cui sgorgano le sue acque,

vivendo sulla terra indirizzò tutto il suo amore alla giustizia; per questo Dio, aggiungendo grazia a grazia, gli rivelò la nostra futura redenzione:

per cui egli credette in essa, e da allora in poi non tollerò più il nauseante paganesimo: e ne rimproverava le genti sviate in quell’errore.


Più di mille anni prima dell’istituzione del battesimo a lui valsero come battesimo quelle tre donne (Fede, Speranza e Carità) che tu vedesti (nel paradiso terrestre) alla destra del carro della Chiesa ( cfr. Purgatorio XXIX, 121-129).

Rifeo pose ogni amore nella giustizia per un dono particolare di quella Grazia che ha origine nel mistero insondabile di Dio (versi 118-121). Da Dio egli, in ricompensa, ricevette favori sempre più grandi, fino alla rivelazione della futura redenzione. Base di questa dottrina è ancora il pensiero di San Tommaso (Summa Theologica II, II, II, 7), il quale spiega che molti pagani ottennero la salvezza perché, per intervento della Grazia, venne loro rivelata la futura venuta di Cristo. Ripudiati gli errori del paganesimo, a Rifeo, in luogo del battesimo, fu sufficiente l'osservanza delle tre virtù teologali che Dio gli aveva infuso nell'animo.

O predestinazione, quanto è distante la tua profonda ragione dagli intelletti umani che non possono vede intera l’essenza divina, causa prima di tutte le cose!

E voi, mortali, siate cauti nel giudicare, perché nemmeno noi, che pure vediamo Dio direttamente, conosciamo ancora tutti gli eletti futuri;

e ci è dolce tale limite imposto alla nostra conoscenza, perché la nostra felicità si perfeziona appunto in questo piacere, per cui tutto quello che Dio vuole, anche noi vogliamo ”.

L'aquila, dopo aver presentato le principali anime dei giusti, chiude il ciclo della sua varia, mossa eppure unitaria rappresentazione ritornando al mistero della giustizia divina, dal quale aveva prese inizio il suo discorso. Simbolo della giustizia terrena e di quella divina, "essa inquadra la celebrazione della giustizia umana nella contemplazione mistica della giustizia divina, profondante le sue radici negli abissi imperscrutabili della sapienza infinita" (V. Rossi), mentre Dante, dopo la scolastica disquisizione dei versi precedenti, ritrova un clima di vera poesia. Il tema teologico si risolve in tema poetico grazie, ancora una volta, alla pienezza della fede, all'entusiasmo per la verità acquisita, all'effusione di gioia che dall'una e dall'altro deriva. Ma ad alimentare questo entusiasmo è soprattutto la raggiunta certezza che la perfezione della giustizia divina e anche perfezione di misericordia e di amore.

In questo modo da quella divina figura dell’aquila, per rischiarare la mia limitata intelligenza, mi fu data questa spiegazione, fonte di dolcezza.

E come labile suonatore di cetra accorda il suono delle vibranti corde alla voce del buon cantore, per cui il canto diventa più piacevole,

così, durante il discorso dell’aquila, ricordo che vidi le due anime luminose (di Traiano e di Rifeo), proprio con la stessa simultaneità con la quale battono le palpebre degli occhi,

muovere le loro fiammelle in accordo con le parole dell’aquila.



2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it