Paradiso: canto
XXVI
Mentre io dubitavo e temevo per la mia vista che era venuta meno, dalla fiamma luminosa (l'anima di San Giovanni) che l'aveva abbagliata uscì una voce che attrasse la mia attenzione,
dicendo: « In attesa che tu riacquisti il senso della vista che hai perduto tentando di scrutare la mia luce, è opportuno che compensi la mancanza della vista fisica (con l'esercizio di quella spirituale) parlando con me.
Incomincia dunque; e dimmi qual è il fine ultimo a cui tende la tua anima, e pensa che la tua vista è (solo) momentaneamente smarrita e non perduta per sempre.
perché Beatrice, colei che ti conduce attraverso questo mondo divino, ha nel suo sguardo la virtù risanatrice che ebbe la mano di Anania ».
Anania, uno dei discepoli di Gesù, con l'imposizione delle mani ridiede la vista a San Paolo, abbagliato, sulla
strada di
Damasco, dall'apparizione di Cristo (Atti degli Apostoli IX, 10-22). Prima di iniziare l'esame della speranza Dante era stato invitato da Beatrice ad attingere conforto dalla luce di San Giacorno (canto XXV, versi 34-36) che precedentemente l'aveva abbagliato, mentre ora sarà dallo sguardo di Beatrice che riceverà ogni forza e aiuto per trattare la terza virtù teologale, la carità. Rileviamo, d'accordo con il Torraca, il valore allegorico di questo episodio (Beatrice, che simboleggia le verità della fede, illuminerà ancora una volta il suo discepolo) e la non casuale corrispondenza fra la vicenda di Paolo, accecato da Cristo, e di Dante, accecato dal discepolo prediletto di Cristo (il Poeta - nota il Sorrento - vuole "farci pensare che la stessa missione che a Paolo è stata riconosciuta ora a lui, in paradiso"), ma non dimentichiamo l'umanissimo moto di conforto dell'apostolo (versi 8-9) e il suo delicato accenno allo sguardo amoroso di Beatrice, che riporta la nostra attenzione sull'esclamazione dolorosa del Poeta alla fine del canto precedente (ahi quanto nella mente mi commossi ... ). Su questa nota di commozione e di smarrimento si era poeticamente chiuso il canto XXV e su questo stato d'animo, si apre il XXVI (si noti, ad esempio, l'espressivo atto del "dubbiare" che è proprio di chi ha gli occhi spenti). Tutto l'esame della carità è chíuso fra la commozione della perduta vista e il lieto riacquisto di essa e si svolge in una situazione del tutto eccezionale: il Poeta, impossibilitato a vedere ciò che lo circonda e immerso nella concentrazione del buio, "si viene a trovare piegato e assorto in sé e nelle cose alte e misteriose da cui si sente tutto avvolto e investito. E se ne avvantaggia la poesia... Il Poeta non può, non deve veder più, non vede. San Giovanni, senza porre tempo in mezzo, senza dar respiro, nella stessa terzina affronta l'accecato poeta... E fa squillare la domanda perentoria, rapida, spezzata" (Sorrento), espressivamente tradotta nell'enjambement del verso 7.
Io dissi: « Presto o tardi, quando Beatrice vorrà, venga il risanamento ai miei occhi che furono come le porte attraverso le quali ella penetrò (nel mio animo) col fuoco di quell'amore di cui io sempre ardo.
Riprendendo la terminologia dell' "amor cortese" con un'immagine frequente nella lirica dolcestilnovistica, il Poeta professa la sua "gioiosa dedizione alla volontà della donna, con una frase d'amore della sua lontana primavera trovadorica" (Donadoni). La tenebra che avvolge il Poeta - commenta acutamente il Montanari - diventa così "occasione di una delle più impetuose proteste d'amore sottomesso e totale che mai Dante abbia fatto per Beatrice"; tuttavia l'amore giovanile "è stato completamente trasvalutato in carità: così che Dante non trova nessun inconveniente a far seguire immediatamente la sua professione di amore supremo a Dio [versi 16-18]: l'amore per Beatrìce più che mezzo o scala a Dio è senz'altro una forma di amore per Dio: è la carità incarnata in una viva figura umana che non è costretta in un univoco e rigido significato allegorico ma è l'equivalente figurativo dei più caldi e intimi sentimenti di contemplazione e di unione con Dio".
Dio, il Bene che appaga di sé tutto il paradiso, è principio e fine di tutto ciò che la carità mi insegna ad amare più o meno intensamente ».
Alfa e omega (sembra, però, che al tempo di Dante questo segno si leggesse -o-) sono la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco e in un passo dell'Apocalisse (XXII, 13) sono usate per indicare Cristo, il principio e il termine di tutte le cose (cfr. anche I, 8; XXI, 6; Dante cita quest'ultimo passo nell'Epistola XIII, 90).
Dante, rispondendo alla prima domanda di San Giovanni (versi 7-8), afferma che principio e termine del suo amore è Dio, dal quale derivano tutti i suoi affetti più o meno profondi a seconda della maggiore o minore presenza dell'impronta divina nel loro oggetto (cfr. San Tommaso - Summa Theologica II, I, LXV, 5).
Quella medesima voce che mi aveva liberato dalla paura per l'improvviso abbagliamento (della mia vista), mi sollecitò (mi mise in cura) a parlare ancora,
e disse: « Di certo devi chiarire (il tuo pensiero) passandolo (come avviene per il grano) attraverso un vaglio sempre più sottile: è necessario che tu dichiari chi ha rivolto l'arco del tuo amore verso un tale bersaglio (Dio) ».
Ed io: « Questo amore si imprime necessariamente nel mio animo attraverso l'opera della ragione e attraverso la Rivelazione che scende da Dio.
Perché il bene, non appena viene riconosciuto come tale, accende amore sé, e un amore tanto più grande quanto più questo bene è perfetto.
Dunque verso quell'essenza (cioè Dio in cui c'è una tale superiorità su ogni essere, che ogni altro bene, il quale si trovi fuori di essa, non è che un riflesso della sua luce infinita,
più che verso qualsiasi altra essenza deve rivolgersi, con il suo amore, la mente di ogni uomo capace di discernere la verità su cui si fonda questa argomentazione (cioè la dimostrazione di Dio come sommo Bene).
Dante svolge i filosofici argomenti relativi alla carità secondo la forma scolastica del sillogismo, che il Vandelli così riassume: "l) il bene, come tale riconosciuto ed appreso, accende amori di sé, ed amore tanto più grande, quanto più perfetto esso è; 2) ma Dio è il sommo Bene, e tutti gli altri beni non sono che lumi di suoi raggi; 3) dunque Dio dev'essere massimamente amato".
Rende manifesta al mio intelletto questa verità colui che mi dimostra che Dio è l'amore supremo al quale tendono tutte le anime.
Per tutti i commentatori antichi e per la maggior parte dei moderni, il filosofo a cui allude Dante nel verso 38 è Aristotile. Il grande pensatore greco dichiara che Dio non solo è l'origine prima di tutte le cose, ma è anche il fine verso il quale il mondo tende. Questa dottrina è trattata a fondo nel Liber de causis, che il Medioevo attribuì erroneamente ad Aristotile, mentre in realtà esso è uno scritto influenzato dalla filosofia platonica, nella quale è basilare il concetto di Dio come primo amore. Queste affermazioni sono lungamente svolte anche da San Tommaso (Summa Theologica I, VI, 1-3; Contra Gentiles I, 37-38). Dante le ha enunciate anche nel Convivio (III, II, 4-7; III, VII, 2-5).
Me la rende manifesta la voce di Dio stesso che a Mosè dice, parlando di se stesso: Io ti mostrerò tutto ciò che è buono ".
Dopo i filosofici argomenti Dante propone le affermazioni dei testi sacri. Nell'Esodo (XXXIII, 19) si narra che quando Mosè, dopo aver ricevuto sul Sinai le Tavole della Legge, chiese a Dio di poterlo vedere, Dio gli rispose: "Ego ostendam omne bonum
tibi".
Me la rendi manifesta anche tu, all'inizio del tuo grande annuncio nel quale proclami sulla terra i misteri divini con voce più alta di qualsiasi altra ».
L'alto preconio di San Giovanni potrebbe essere il suo vangelo oppure l'Apocalisse. Nel primo caso (secondo l'opinione dell'Ottimo, di Benvenuto da Imola, del Buti) Dante si riferirebbe alla parte inizìale (I, 1-18), nella quale l'evangelista espone i principali misteri del Cristianesimo. Se invece si accetta l'interpretazione di Pietro di Dante e del Lana (seguiti da molti commentatori moderni) l'alto preconio che grida l'arcano di qui sarebbe il versetto sopra ricordato dell'Apocalisse (XXII, 13; cfr. anche I, 8): "Io sono l'Alfa e l'Ornega... il principio e la fine". Il Sapegno ritiene che i latinisini preconio e bando si adattino "meglio ai vangeli, ,che non a scritti sacri in genere; e anche il paragone accennato ai versi 44-45 assume un significato più determinato, se si pensa che con esso Dante abbia voluto esprimere il preminente valore teologico dei testo di Giovanni rispetto agli altri vangeli, che hanno un carattere soprattutto narrativo".
Ed io udii: « In virtù dei ragionamenti umani e della rivelazìone divina che con essi concorda, il supremo dei tuoi amori è rivolto a Dio.
Ma, dimmi ancora se tu avverti altri impulsi che ti muovono ad amare Dio, così che tu possa rivelare in quanti modi questo amore ti assale ».
Con il suo terzo quesito - imperniato su accese immagini che appaiono in visibile contrasto con il calmo distendersi della seconda domanda (versi 22-24) e del riepilogo della risposta di Dante (versi 46-48) - l'apostolo chiede di conoscere quali altri stimoli spingano l'uomo all'amore di Dio: perché accanto a quelli provenienti dall'intelletto agiscono anche quelli provenienti dal cuore e manifestati dai "morsi" del sentimento. Dante finora "ha espresso il suo pensiero: non il suo cuore: e l'apostolo vuole conoscere quel suo cuore. Vuol sapere quali impeti di gratitudine muovano quel cristiano verso Dio: e continua con le sue vigorose metafore"
(Donadoni).
Non mi rimase nascosta la santa itenzione di San Giovanni, anzi mi accorsi in quale direzione desiderava che io precisassi la mia dichiarazione.
San Giovanni è definito "aquila di Cristo" perché in tutta la letteratura patristíca egli viene identificato con l'aquila
dell'Apocalìsse (IV, 6-8) e perché, a partire da Sant'Ireneo (Adversus Haereses III, XI, 8), il Santo e il suo vangelo sono simboleggiati dalla figura dell'aquila.
Perciò ripresi a parlare: « Tutti quei motivi che possono far volgere il cuore a Dio, hanno concorso ad alimentare in me la carità,
perché l'esistenza del mondo e l'esistenza dell'uomo, il sacrificio di Cristo per salvare l'umanità, e la betitudine eterna sperata da ogni credente,
con la viva conoscenza sopra affermata (di Dio come sommo Bene), mi hanno sottratto al mare delle passioni terrene, e mi hanno fatto approdare alla riva del vero amore.
Amo le creature di cui è popolato, tutto il mondo creato da Dio in proporzione al bene che Dio concede a ciascuna
di esse ».
Enumerati i motivi « sentimentali » del suo amore verso Dio (versi 55-63), Dante completa la sua esposizione ricordando - brevemente - l'amore dovuto alle creature, le quali non sono amate in sé, come Dio, ma solo in quanto splende in esse la perfezione divina (San Tommaso - Summa Theologíca I, VI, 4: IL II, XXVI, 6).
Il Montanari giudica i versi 64-66, densi di richiami evangelici (Giovanni XV, I; cfr. anche Paradiso XII, 72 e 104), una "ridente immagine di un mondo originale, quale esce dalla mente divina, prima del peccato della creatura; immagine che brilla di sole spirituale nella cecità sensibile che ancora avvolge Dante". Il rilievo è esatto, ma non completo, perché si ha l'impressione che a questa ricchezza metaforica non corrisponda una uguale accensione dello spirito. Troppo rapido, quasi nascosto sotto la preziosità verbale di questi versi, è l'accenno alle creature per poter affermare - come vorrebbe il Montanari - che Dante "ha assimilato perfettamente lo spirito francescano" nell'amore verso le creature. L'oggetto del suo amore è sempre e solo Dio. Lo entusiasma la contemplazione dell'universo che si muove ordinatamente verso Dio, la certezza dell'esistenza in esso di un amore-forma che regola il ritmo del mondo della natura e della storia. In tale ordine è compreso anche l'amore verso il prossimo, perché il cristiano non può ignorare che la carità ha due termini: Dio e l'uomo, ma nella professione del poeta-teologo il secondo termine è appena distinto: tre soli versi dei settanta dedicati all'esame della carità. Il Donadoni trova che tutta la parte in cui è trattata la terza virtù teologale manca "di quell'igneus vigor, di quel palpito d'anima. che è la poesia" e che, rispetto ai canti precedenti, dove il Poeta ha espresso la sua fede ed esaltato la sua speranza, questo canto si rivela "di una temperatura troppo più bassa, di un andamento troppo più impacciato". Egli osserva che "tutto l'orientamento spirituale di Dante non è per la carità; ma per un'altra virtù, non teologica, ma umana e sociale che può essere tante volte in contrasto con la carità: la giustizia" e che appare più vicino ai personaggi del Vecchio che del Nuovo Testamento, a chi reclama e predica la giustizia, piuttosto che a chi predica e raccomanda la carità: "pari ai profeti di Israele, che Dio ha toccato sulla bocca coi carboni roventi, perché quella bocca dica e ruggisca i moniti di Lui ai potenti ed ai re ed ai sacerdoti". Da Dante, conclude il critico, non aspettiamoci gli accenti vivi della carità. Il giudizio del Donadoni puntualizza efficacemente questo aspetto del complesso spirito dantesco, ma, a proposito del tema della carità, non distingue chiaramente fra la parte dedicata all'amore verso Dio e quella dedicata all'amore verso il prossimo. Nella prima, infatti, dove il Poeta contempla l'ordine universale, ritorna lo stesso clima di solennità e di religiosa commozione che ha ispirato il canto XVIII del Purgatorio (dedicato alla dottrina dell'amore) e il I del Paradiso: la fantasia anima l'intelletto e in quella poetica teologia egli vede "dalla forma più eccelsa e più vicina a Dio, fino alla potenza più umile... un irradiarsi di tutto il creato dall'infinito verso il finito, per ritornare da questo all'infinito" (Cosmo). E in questa visione il Poeta porta con sé "una foga lirica inesausta".
Non appena io tacqui, risuonò nel cielo un inno dolcissimo, e Beatrice cantava con gli altri: « Santo, santo, santo! ».
Un inno di lode e di ringraziamento a Dio - derivato dalla Scrittura (Isaia VI, 3; Apocalisse IV, 8) - e dalla liturgia - conclude non solo la professione di carità, ma tutto il triplice esame di Dante.
E come all'apparire di una luce intensa ci si risveglia perché la facoltà visiva corre incontro a questa luce che passa attraverso i successivi tessuti dell'occhio,
e colui che è stato (così) svegliato rifugge dal fissare lo sguardo su ciò che vede, tanto è inconsapevole quell'improvviso risveglio finché non viene in suo aiuto la riflessione,
La descrizione del processo visivo è ripresa dal Convivio (II; IX, 4-5; III, IX, 7-9). La stimativa è la facoltà interna grazie alla quale 1'uomo apprende ciò che gli può essere utile e ciò che gli può essere dannoso.
così Beatrice allontanò ogni impurità (che potesse offuscare i miei occhi) con la luce del suo sguardo, che risplendeva in modo da essere vista a più di mille miglia di distanza:
per cui (grazie a questo suo intervento) potei poi vedere meglio di prima; e quasi stupefatto chiesi notizia di un quarto lume che vidi con noi.
E Beatrice: « Dentro quella luce contempla con amore Dio, suo creatore, la prima anima che è stata creata dalla virtù divina ».
Adamo, protagonista della seconda parte del canto, simboleggia il mondo del Vecchio Testamento di fronte a quello del Nuovo, rappresentato da Pietro, Giacomo, Giovanni, per "significare la unità cristiana dell'umana storia" (Del Lungo).
Come fa l'albero che piega la sua cima al passaggio dei vento e poi torna a sollevarsi per la sua forza naturale che lo riporta in posizione verticale,
così feci io mentre Beatrice parlava, (piegando il capo) pieno di stupore, ma poi mi rese ardito il grande desiderio di interrogare (Adamo).
E incominciai: «0 frutto che, solo, nascesti già maturo, o antico padre per il quale ogni sposa è figlia e nuora,
Adamo fu creato direttamente da Dio e già adulto (Paradiso VII, 26 De Vulgari Eloquentia I, VI, I); inoltre, avendo dato inizio al genere umano, ogni donna è per lui figlia (in quanto sua discendente) e nuora (in quanto sposata ad un suo discendente).
ti supplico, con la maggiore devozione possibile, di parlarmi: tu conosci ciò che desidero sapere e, per poterti ascoltare subito, non perdo tempo ad esportelo ».
Come talvolta un animale coperto da un panno si agita, così che il suo desiderio si vede palesemente perché l'involucro che lo copre segue i suoi movimenti,
allo stesso modo Adamo (anima primaia: la prima anima creata) lasciava trasparire attraverso la luce che lo fasciava la sua gioia di compiacere alle mie domande.
Poi parlò: « Senza che tu me lo abbia manifestato, conosco il tuo desiderio meglio di quanto tu non conosca le cose per te più certe,
perché io lo vedo nello specchio veritiero di Dio, che riflette in sé tutte le cose, ma non può essere riflesso da nessuna.
Tu vuoi sapere da me quando Dio mi pose nel giardino del paradiso terrestre dave Beatrice ti preparò a salire attraverso i cieli,
e per quanto tempo i miei occhi godettero di esso, e la causa precisa dello sdegno divino contro di me, e la lingua che io creai e usai.
Ora, figlio mio, non il fatto di aver gustato il frutto proibito fu di per sé la causa della cacciata dal paradiso terrestre ma soltanto l'aver superato i limiti fissati da Dio per l'uomo,
Adamo risponde ai quattro quesiti sopra formulati incominciando dal terzo, il più importante, perché riguarda la natura del peccato d'origine. Fondamento della posizione dantesca è un passo di San Tommaso (Summa Theologica II, II, CLXIII, 1 sgg.) : quella dei progenitori non fu una colpa di gola, bensì di superbia e di diffidenza verso la divina
bontà.
Dal limbo (quindi) da dove Beatrice fece muovere in tuo soccorso Virgilio (cfr. Inferno, II, 52 sgg.), per 4302 anni (volumi di sol: rivoluzioni solari) bramai il paradiso;
e durante la mia vita terrena vidi il sole ritornare 930 volte in tutti i segni dello Zodiaco.
Dalla morte di Adamo alla discesa di Cristo al limbo trascorsero, secondo la cronologia di Eusebio, da Dante seguita anche nel Purgatorio (canto XXXIII, versi 61-63), 4302 anni. Adamo visse, come testimonia la Genesi (V, 5), per 930 anni. Se si tiene conto che dalla morte di Cristo al 1300, data dell'immaginario viaggio dì Dante nell'oltretomba, sono trascorsi, secondo il computo tradizionale, 1266 anni, sommando le tre cifre, si ottiene il numero di 6498: tanti sono gli anni del mondo.
La lingua da me usata era già scomparsa prima che il popolo di Nembrot si accingesse alla costruzione (della torre di Babele) che non poteva mai essere condotta a termine,
Dante, a proposito dell'idiorna di Adamo, aveva espresso nel De Vulgari Eloquentia (I, VI, 4-7) una teoria diversa, affermando che la lingua parlata dal primo uomo - l'ebraico - essendo di origine divina, era immutabile e incorruttibile, e che la molteplicità delle lingue sorse per volere di Dio, il quale in tal modo punì l'umana superbia che si era manifestata nella costruzione della torre di Babele, iniziata dai Babilonesi sotto la guida di Nembrot (cfr. Inferno XXXI, 77-78; Purgatorio XII, 34-36). Ora invece Dante sostiene che tutte le lingue e quindi anche quella usata da Adamo sono mutevoli per natura, soggette anch'esse al divenire e all'evoluzione storica: "Il mutarsi delle lingue, che in un primo tempo era sembrato a Dante un fenomeno di instabilità derivante dal peccato, gli sembra invece ora connesso con la natura stessa della vita umana" (Montanari).
perché mai nessun prodotto della ragione umana fu immutabile, perché il gusto dell'uomo cambia (continuamente) a seconda del variare degli influssi celesti.
A un fatto naturale che l'uomo si esprima con parole; ma che si serva di una lingua piuttosto che di un'altra, è poi dalla natura lasciato all'arbitrio degli uomini, secondo il loro gusto.
Prima che io scendessi all'inferno (dove si trova il cerchio del limbo), Dio, il sommo Bene da cui proviene il gaudio celeste che mi avvolge con la sua luce, si chiamava I;
ed in seguito si chiamò EL: e questo mutamento è un fatto naturale, perché tutto ciò che è usato dagli uomini (e quindi anche il linguaggio) è simile alle foglie di un albero, dove le une muoiono e le altre germogliano.
Dante con la lettera I, che significa « uno » nella lingua latina, intende probabilmente sottolineare "lidea dell'unità, attributo sovrano di Dio" (Casini-Barbi). El (« il Forte », « il Possente ») invece è il nome con cui spesso Dio viene indicato nella Bibbia e secondo un passo del De Vulgari Eloquentia (I, IV, 4) sarebbe stata, la prima parola pronunciata da Adamo. Il concetto espresso in questi due versi è esposto anche nel Convivio (I, V, 7-8; II, XIII, 10) e nel De Vulgari Eloquentia (I, IX, 6-10).
Sulla vetta del monte del purgatorio (dove si trova il paradiso terrestre) che più di ogni altro si innalza sulla superficie del mare, rimasi, prima del peccato e dopo averlo commesso, dalla prima ora del giorno a quella che segue,
cioè la sesta, quando il sole muta quadrante ».
Adamo
rimase nel paradiso terrestre poco più di sei ore: dalla prima ora del giorno (le sei) a quella di mezzogiorno, quando il sole passa dal primo nel secondo quadrante, dopo aver percorso la quarta parte del suo giro quotidiano. Dante segue in questo caso la teoria esposta da Pietro Mangiadore nella sua Historia scolastica, per stabilire una mistica corrispondenza fra l'ora in cui fu commesso il peccato originale e l'ora in cui, secondo la tradizione, avvenne la morte di Crísto in croce (cfr. Interno XXI, 112).
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