Purgatorio: canto XXVII
In quella posizione nella quale manda i suoi primi raggi sulla città (là: a Gerusalemme) nella quale il suo Creatore sparse il sangue (per la salvezza degli uomini), mentre l'Ebro si trova (cadendo) sotto la costellazione della Libra alta nel cielo,
e le acque del Gange sono riarse dal calore del mezzogiorno, in questa posizione si trovava il sole nel purgatorio; per la qual cosa il giorno tramontava, allorché ci apparve l'angelo di Dio splendente di gioia.
Dante, attraverso questa complessa similitudine, vuole spiegare che nel purgatorio è l'ora del tramonto, mentre agli antipodi, a Gerusalemme, è l'alba. Nei due punti estremi del mondo suona la mezzanotte in Spagna - dove il fiume Ebro è a 90° di longitudine ovest da Gerusalemme, e si trova in questo momento sotto la costellazione della Libra - e il mezzogiorno sul fiume Gange, in India, posta a 90° di longitudine est da Gerusalemme. Anche se l'ora nona corrispondeva alle 3 pomeridiane, l'espressione nona veniva usata comunemente per indicare il mezzogiorno.
Come quelli dei canti II, IX, XV, XIX, XXV, anche questo esordio determina l'ora del sacro monte attraverso una serie di riferimenti alla posizione degli astri in rapporto alla terra. L'astronomia è elemento non trascurabile nella poesia della Commedia, non solo, come rileva il Momigliano, perché "questi sguardi rivolti alle rivoluzioni degli astri accrescono la solennità dell'ascesa di Dante e ne approfondiscono il significato spirituale", ma anche in quanto risulta "parte essenziale della concezione totale di un mondo fisico, morale e poetico, ed ha anche una funzione squisitamente artistica per le immagini peregrine che richiama e persino per la possibilità che offre di arricchimento del linguaggio e delle immagini, con l'introduzione di vocaboli suggestivi, di luoghi, di astri, di vocaboli anche tecnici, il cui valore nella poesia Dante artista ben sapeva valutare" (Gallardo). Naturalmente occorre sempre tener presente che in Dante l'immagine peregrina o il dato tecnico non sono mai assunti gratuitamente, per la capacità che è in essi di stupire, ma si giustificano pienamente nello stile alto o «tragico», che acquista rilievo sempre più evidente a mano a mano che la narrazione porta il pellegrino ad allontornarsi dalle regioni del « comico »: la terra abitata e l'inferno che di essa rappresenta una contraffazione in chiave sarcastica e caricaturale.
Le due terzine iniziali di questo canto sono caratterizzate, nei primi quattro versi, da un'estrema concentrazione espressiva; quest'ultima si scioglie nelle cadenze più riposate con cui, nei versi 5 e 6, ha inizio la narrazione.
La capacità di sintesi del Poeta si riflette nella compagine sintattica retta dalla comparativa sì
come... (in particolare nelle forme echeggianti l'ablativo assoluto latino, dei versi 3 e 4) non meno che nel robusto impasto lessicale. Quest'ultimo conferisce intensa vitalità ad aspetti del mondo che siamo solitamente portati a considerare, se non in termini di stasi, in termini di moto lentissimo: il sole, attraverso una mediazione di origine classica (nella mitologia il dio solare era munito di faretra e di frecce), aggredisce con violenza il mondo nel momento in cui sorge (i primi raggi vibra), mentre la posizione dell'Ebro rispetto al cielo delle stelle fisse è suggerita in termini di un moto energico e quasi disperato - come un inabissarsi nel buio (cadendo
Iibero sotto l'alta Libra) - e quella del Gange propone nuovamente, in riarse, il motivo della luce diurna considerata come una forza irresistibile ed insaziata.
Stava sull'orlo della cornice al di fuori del fuoco, e cantava « Beati i puri di cuore! (la sesta beatitudine evangelica: cfr. Marteo V, 8) » con una voce assai più chiara di quella umana.
Poi « Non si può procedere oltre, anime sante, se prima il fuoco non fa sentire il suo morso: entrate in esso, e ascoltate il canto che si ode al di là delle fiamme »,
È chiaro che, l'osservazione dell'angelo non è limitata ai tre poeti, ma si estende a tutte le anime del purgatorio che, compiuta la loro purificazione, sono finalmente ritenute degne del paradiso. Le fiamme del settimo girone adempiono così ad un duplice compito: esse costituiscono la pena per i lussuriosi e concludono, attraverso un'ultima sofferenza, tutto il ciclo di espiazione dell'anima redenta (con il fuoco, del resto, Dante ha sintetizzato i tormenti del purgatorio: cfr. Interno I, versi 118-120); il passaggio attraverso il fuoco simboleggerebbe cosi "il ritorno dell'uomo allo stato di innocenza primitiva" (Nardi) prima dell'ingresso nel paradiso. Occorre inoltre ricordare che, secondo una tradizione patristica e medievale, la spada fiammeggiante impugnata dai Cherubini posti da Dio a guardia del paradiso terrestre dopo la cacciata di Adamo ed Eva (Genesi III, 24), deve essere interpretata come un muro di fuoco che chiuse l'Eden dopo il peccato originale.
ci disse non appena gli fummo vicino: per la qual cosa io, quando intesi le sue parole, divenni pallido e gelido come un cadavere (qual è colui che nella fossa è messo).
Tenendo con le mani giunte il mio corpo piegato indietro mi protesi in avanti (con lo sguardo), scrutando il fuoco e immaginando con estrema lucidità corpi umani già veduti bruciare sul rogo.
Corpi... accesi; la condanna al rogo era frequente nel medioevo. Dante stesso vi era stato condannato in contumacia a Firenze il 10 marzo 1302.
Le mie valenti guide si volsero verso di me: e Virgilio mi disse: « Figlio mio, nel purgatorio può esserci tormento, ma non morte.
Ricordati, ricordati! E se io ti ho guidato in salvo persino sul dorso di Gerione, che cosa non farò ora che sono più vicino al mondo della Grazia?
Virgilio, per rincuorare Dante ed esortarlo ad avere la massima fiducia nel suo maestro, gli ricorda l'episodio più significativo fra i tanti, nel quale il suo intervento ha aiutato il discepolo a superare il pericolo e la paura: allorché lo portò sul dorso di Gerione (Inferno XVII, 1 sgg.), il simbolo stesso della frode.
Sappi per certo che se anche tu rimanessi ben mille anni in mezzo a questo fuoco, esso non potrebbe privarti neppure di un capello.
E se tu forse credi che io ti inganni, avvicinati alla fiamma, e fatti dare una prova (della verità delle mie parole) dal lembo della tua veste (accostandolo al fuoco) con le tue mani.
Deponi ormai, deponi ogni timore: volgiti da questa parte: vieni ed entra sicuro!» Ed io ostinatamente fermo e ciò contro la voce della coscienza (che mi comandava di ubbidire a Virgilio).
Quando mi vide continuare a stare fermo e duro, un poco turbato, disse: « Pensa ora, figlio: solo questo ostacolo ti divide da Beatrice ».
Come Piramo morente aperse gli occhi davanti a Tisbe che gli gridava il proprio nome, e la guardò, nel momento in cui il gelso divenne vermiglio,
(rianimandomi) allo stesso modo, mentre la mia ostinazione cedeva, mi volsi verso la mia saggia guida, udendo il nome di Beatrice che mi risorge sempre nella mente.
La leggenda di Piramo e Tisbe è narrata da Ovidio nelle sue Metamorfosi (IV, 55-166). I due giovani babilonesi, il cui amore era ostacolato dalle rispettive famiglie, si diedero convegno sotto un gelso. Tisbe, arrivata per prima, fu costretta a fuggire dalla comparsa improvvisa di una leonessa, abbandonando sul luogo un velo, che la belva poi macchiò di sangue. Quando Piramo sopraggiunse, credendo che Tisbe fosse stata divorata, si gettò sulla propria spada, e così lo trovò la fanciulla nel frattempo ritornata; il giovane aprì per l'ultima volta gli occhi di fronte a Tisbe che gli diceva il proprio nome, mentre il suo sangue impregnava le radici del gelso, che da quel momento mutò i suoi frutti da bianchi in vermigli.
Il riferimento al mito trattato da Ovidio - colto nell'attimo del suo tragico epilogo, in quello che ne è il tratto più significativo - introduce ad un momento di viva commozione, che ha le sue radici in un fondo autobiografico (versi 40-42). Questo è il momento in cui la poesia si afferma con maggiore evidenza nella scena simbolica che vede Dante opporsi alle ultime esortazioni del suo maestro. Vanamente i critici hanno tentato di ridurre ad un comune denominatore tonale - ad una formula che lo legittimasse sul piano di una considerazione dei valori artistici - questo episodio.
"Dov'è l'unità artistica in questa scena - si domanda il Leo - che con i suoi momenti stilistici idilliaci, anzi talvolta addirittura scherzosi, affiancati d'altra parte anche a momenti stilistici sublimi, sulle prime non può apparire che come qualcosa di cangiante?" In realtà la scena non riesce ad avere una sua unità formale, perché il Poeta non l'ha concepita come qualcosa di unitario, ma ha tenuto presenti ora le esigenze di una forte accentuazione simbolica, ora quelle di una concretezza che, nei modi in cui è affermata (ad esempio nei riferimenti dei versi 14-18), appare chiusa ad ogni allusività, ad ogni mistero. Pertanto l'ingegnosa soluzione proposta dal Leo all'interrogativo sopra citato appare scarsamente persuasiva. Per il Leo il fondamento estetico di questa scena starebbe "nella segreta intenzione del Poeta di porre un anticipato interrogativo di fronte al verso: libero, dritto e sano è tuo arbitrio". Per questo studioso "la dichiarazione di maggiorità da parte di Virgilio (versi 127 sgg.) e la fiducia propria del viandante nella sua raggiunta « maturità », sono una «umanistica illusione» dei due, « che il Poeta ha già riconosciuto come tale»... Virgilio nella sua idilliaca illusione dirà (verso 136) mentre che vegnan lieti gli occhi belli... ma i veri occhi di Beatrice non verranno lieti, bensì sprizzanti ira e disprezzo, di fronte ad un tribunale del quale né Virgilio né il suo allievo, sotto l'influsso del loro intelletto naturale, potevano nulla prevedere. Ma il Poeta lo sa: ed il lettore già nel nostro canto deve presentirlo, in passi come quello, (verso 33) quasi comicamente disperato: ed io pur fermo e contra coscienza". La conclusione del Leo - che una lettura attenta di questa pagina non consente di accettare per valida - è che "ciò che sembrava essere un non organico miscuglio stilistico, si dimostra invece come una unitaria espressione di uno stato d'animo tra l'illusione e la realtà... lo stato d'animo di colui che è stato dichiarato maggiorenne, ma che in segreto si è accorto di non esserlo ancora".
Per questo egli scosse il capo e disse: «Come! ce ne vogliamo ancora star di qua?»; poi sorrise come si sorride al bambino che si lascia convincere con la promessa di un frutto.
Poi entrò nel fuoco davanti a me, pregando Stazio di venire dietro, mentre prima ci aveva diviso per un lungo tratto di cammino (procedendo in mezzo a noi).
Non appena mi trovai in mezzo alle fiamme, mi sarei gettato in un vetro incandescente per rinfrescarmi, tanto smisurato era il calore lì dentro.
Il dolce padre, per confortarmi, continuava a parlare sempre di Beatrice, dicendo: « Mi sembra già di vedere i suoi occhi».
Ci guidava una voce che cantava dall'altra parte del fuoco; e noi, prestando attenzione solo a lei, giungemmo fuori della fiamma nel punto in cui si riprendeva a salire.
« Venite, o benedetti del Padre mio (le parole che Cristo rivolgerà agli eletti: cfr. Matteo XXV, 34) », risuonò dentro una luce lì apparsa, così abbagliante, che sopraffece la mia vista e non la potei guardare.
« II sole tramonta » soggiunse, « e scende la sera: non vi fermate, ma affrettate il passo, finché la parte occidentale del cielo non diventi completamente buia. »
La scala scavata nella roccia saliva diritta verso levante cosicché io interrompevo davanti a me (con la mia ombra) i raggi del sole ormai basso all'orizzonte.
E avemmo il tempo di sperimentare pochi gradini di quella scala, che io e le mie guide ci accorgemmo che il sole era tramontato dietro alle nostre spalle, per il fatto che l'ombra (proiettata dal mio corpo) era scomparsa (con lo scomparire del sole).
E prima che l'orizzonte avesse assunto in tutta la sua estensione, un medesimo colore (diventando scuro), e la notte avesse occupato (con le sue tenebre) tutte le zone a lei assegnate,
ciascuno di noi si coricò su un gradino; poiché la legge particolare del monte (in base alla quale è vietato salire dopo il tramonto del sole: cfr. canto VII, 43-57) ci tolse la possibilità e la gioia di salire oltre.
Quali rimangono tranquille a ruminare le capre, che sono apparse scattanti e ardite sulle balze del monte prima di essersi satollate,
sorvegliate dal pastore mentre se ne stanno silenziose all'ombra, intanto che il sole arde (ferve: intorno al mezzogiorno), e il pastore si è appoggiato sul suo bastone e, anche stando così appoggiato, continua a fare loro la guardia;
e quale il custode della mandria che rimane lontano dall'abitato, passa la notte accanto al suo gregge addormentato, vigilando perché qualche animale predatore non lo disperda,
allo stesso modo ce ne stavamo allora tutti e tre, io (prossimo al sonno e tranquillo) come una capra, ed essi (pronti a vigilare) come i pastori, chiusi e protetti da una parte e dall'altra dall'alta parete della roccia.
Da lì si poteva scorgere solo una piccola parte di cielo; ma, per quel poco (che era possibile osservare), io vedevo le stelle più luminose (per la trasparenza e la finezza dell'aria a quell'altezza) e più grandi (per il fatto che sono guardate dalla cima dell'alto monte del purgatorio) del solito.
Così pensando e fissando lo sguardo sulle stelle, fui preso dal sonno; quel sonno che spesso preannuncia gli eventi futuri, prima che essi effettivamente accadano.
Ancora una volta Dante ricorda il valore profetico dei sogni, soprattutto quando essi avvengono all'alba: cfr. Inferno XXVI, 7; Purgatorio IX, 16-18.
È stato osservato dalla critica più consapevole che le immagini, in apparenza bucoliche, che suggeriscono la subordinazione di Dante nei confronti delle due guide che vigilano sul suo sonno, durante l'ultima notte da lui trascorsa in purgatorio, non hanno nulla di estrinseco rispetto alla trama decisamente simbolica del canto, riuscendo anzi ad inserirsi in essa con una grandiosità insospettata di accenti. Il tramonto non è descritto, nei versi 70-72, come puro spettacolo, né, come altrove, dà luogo a sviluppi elegiaci. Lo sguardo del Poeta lo abbraccia nel suo insieme, nel suo significato più essenziale ed arcano: ogni differenza che la luce istituisce fra gli aspetti del visibile si dilegua - quasi fosse mera apparenza - al sopravvenire delle tenebre (fosse orizzonte fatto d'uno aspetto). AI particolareggiato articolarsi di forme e colori che i nostri occhi percepiscono durante il giorno si sostituisce una vastità di spazi uniformi, tali da suggerire l'idea di un cosmo compatto, indifferenziato. Il mondo, in questa disposizione dell'animo, è colto come totalità illimitata: 'n tutte le sue parti immense... tutte sue dispense. Il sentimento che ingenera in Dante questa contemplazione non è tuttavia, come accadrà per più di uno scrittore di epoche a noi più prossime, di angosciato terrore, ma di fiducia. Egli non si sente un estraneo in una natura che non lo comprende o che gli riesce incomprensibile, ma partecipa di questa natura, si sente in accordo con essa. Il significato di questa notte è in lui: è una notte di preparazione e di attesa, il preludio di un giorno che non conoscerà interruzioni di tenebre. Su di lui vigilano due ordini di pensiero, due forme di sapienza - Virgilio, la sapienza pagana, Stazio, la medesima sapienza pagana rischiarata dalla Rivelazione - che si sono mostrate guide sicure e hanno sciolto efficace. mente i suoi dubbi: per questo il suo sonno può essere tranquillo. Dante è qui l'anima non ancora pervenuta a piena consapevolezza di sé: il suo meditare è visto in termini di accentuata umiltà, assimilato com'è al mansueto ruminare delle capre (verso 91) .
Nell'ora (che precede l'alba), credo, durante la quale dall'oriente cominciò a splendere sul monte del purgatorio il pianeta Venere (Citerea), che pare sempre ardere del fuoco d'amore,
in sogno mi pareva di vedere una donna giovane e bella, che andava cogliendo fiori in una distesa erbosa, e che cantando diceva:
Il sogno di Dante, essendosi rivelato veritiero, deve essere avvenuto nelle prime ore dell'alba, perché, secondo la nota credenza medievale, i fatti sognati durante questo periodo corrispondono sempre alla realtà. Per questo il Poeta precisa che il pianeta Venere (qui chiamato Citerea, perché la dea era considerata regina di Citera, un'isola del mar Ionio, presso la quale era nata e dove riceveva un culto particolare) sta spuntando all'orizzonte del purgatorio e precede di poco il sorgere del sole (cfr. Purgatorio I, versi 19-21) .
Lia fu la figlia maggiore di Labano e prima moglie di Giacobbe: non bella ma feconda, è considerata, nella lunga tradizione dell'esegesi biblica, il simbolo della vita attiva. Sua sorella Rachele (versi 104 sgg.), seconda moglie di Giacobbe, fu invece bella ma sterile, e rappresenta la vita contemplativa.
Dante, seguendo San Tommaso, afferma che "l'uso del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo... Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia; quello de lo speculativo si è non operare per noi, ma considerare l'opere di Dio e de la natura" (Convivio IV, XXII, 10-11). La vita attiva realizza la perfezione e la felicità temporale attraverso l'esplicazione delle virtù: Lia, infatti, va cogliendo fiori e movendo intorno le belle mani a tarmi una ghirlanda, per simboleggiare l'attività volta al bene. La vita contemplativa ha come suo fine il raggiungimento della beatitudine eterna, attraverso la conoscenza della verità. Per questo Rachele è de' suoi belli occhi veder vaga: la "filosofia, ché è... amoroso uso di sapienza. se medesima riguarda", poiché "l'anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se stessa innamorando" (Convivio IV, II, 18). II fatto che Lia e Rachele sono sorelle sottolinea che la vita attiva e quella contemplativa, pur essendo distinte, non possono essere separate: il momento contemplativo racchiude un valore più grande, ma sottintende il compimento di quello attivo (cfr.;. Convivio II, IV, 10-11, IV, XVII; 9-12; Monarchia I, III, 9). Lia e Rachele prefigurano le due donne che appariranno a Dante nel paradiso terrestre: Matelda, forse simbolo della felicità terrena, e Beatrice, che prepara alla felicità suprema in Dio. Il Mattalia osserva che "l'arrivo al purgatorio conclude la fase pratica o attiva, percorsa sotto la guida di Virgilio (Ragione - Etica razionale - Autorità imperiale); la seconda fase si svolge sotto la guida di Beatrice (Rivelazione - Teologia - Magistero religioso e dottrinale della Chiesa)".
« Chiunque domanda il mio nome sappia che io sono Lia, e vado muovendo intorno a me le mie belle mani per farmi una ghirlanda.
Qui io mi adorno (di fiori) per potermi compiacere guardandomi allo specchio; ma mia sorella Rachele non distoglie mai l'occhio dal suo specchio, e sempre siede davanti ad esso.
Ella è tanto, desiderosa di contemplare i suoi begli occhi, come io di adornarmi con le mie mani; lei trova il suo appagamento nel contemplare, ed io nell'operare».
I tre sogni che Dante ha nel purgatorio (canto IX, versi 13-33; canto XIX, versi 1-33; canto XXVII, versi 94-108) sono introdotti dalla medesima espressione (nell'ora... ), cui fa seguito una determinazione cronologica svolta in modo indiretto, attraverso una forma perifrastica. Tale determinazione vincola quanto in un sogno può esserci di irreale è sfuggente alle leggi inalterabili che governano l'universo, portando in tal modo la vicenda occorsa al pellegrino sullo stesso piano di necessità di queste ultime, in quanto sia le prime che la seconda emanano dalla volontà di Dio.
In questo terzo sogno di Dante sono stati riscontrati echi di un comporre decisamente stilnovistico. Le figure di Lia e di Rachele possono infatti ricordare, per l'indeterminatezza e la leggiadria dei loro tratti, figure analoghe della Vita Nova o di altri componimenti giovanili di Dante. "La bellezza, tra musicale e fiabesca, della rappresentazione delle due sorelle deve essere intesa nei limiti di una perfetta stilizzazione, che prende rilievo dalla studiata simmetria delle immagini e dei simboli ad esse inerenti: la ghirlanda e il miraglio, le mani e gli occhi, l'ovrare e il vedere." (Sapegno) La struttura sintattica è tuttavia qui assai più elaborata e complessa che nei componimenti del periodo dello stìl novo, onde la parentesi di questo sogno felice non turba la continuità dell'impegno stilistico - espressione diretta di un corrispondente impegno morale - che caratterizza il canto nel suo insieme. In particolare, per quel che riguarda la presentazione della figura dì Lia, il Contini trova nella terzina 97 non un "agevole melodismo", ma una vigorosa ripresa di forme sintattiche latine. Queste ultime conferiscono al passo una solidità di struttura che non è dato riscontrare nelle rime dello stil
novo.
E già per il chiarore dell'alba, il quale sorge tanto più gradito ai pellegrini, quanto più, nel ritorno, hanno pernottato vicino al luogo natio,
le tenebre fuggivano da tutte le parti (lati), e con esse scompariva il mio sonno; per cui io, vedendo i due grandi maestri già in piedi, mi alzai.
« Quel dolce frutto della felicità che per tante vie gli uomini vanno cercando affannosamente, oggi
placherà tutti i tuoi desideri. »
Virgilio disse queste solenni parole rivolto a me; e non ci furono mai buone novelle che mi procurassero un piacere uguale a quello che allora provai.
Un così grande desiderio mi si aggiunse al precedente desiderio di pervenire sulla cima, che poi ad ogni passo mi sentivo crescere lo
slancio per la salita.
Dopo aver compiuto di corsa tutta la scala sotto di noi ed essere giunti sul gradino più alto, Virgilio fissò intensamente i suoi occhi su di me,
e disse: « Figlio, hai visto le pene temporanee (del purgatorio) e quelle eterne (dell'inferno); e sei giunto in un luogo dove io con le mie sole forze non distinguo più oltre (il cammino).
Ti ho condotto fin qui con l'intelligenza e con l'applicazione pratica di essa; prendi ormai per guida la tua naturale inclinazione (che ti porterà verso il bene): sei fuori dalle vie ripide, sei fuori dalle vie strette (cioè: ogni difficoltà è stata superata).
Vedi il sole che ti illumina la fronte; vedi l'erbetta, i fiori e gli arboscelli, che qui la terra produce spontaneamente.
Finché non ti appariranno per farti gioiosa accoglienza i begli occhi di Beatrice, i quali, con le loro lagrime, mi
mossero a venire in tuo aiuto, ti puoi sedere e andare tra gli alberi e i fiori.
Non attendere più le mie parole né i miei gesti: il tuo volere è ormai libero dalle passioni rettamente volto verso il bene e guarito dai suoi mali, e sarebbe errore non assecondarlo:
perciò io ti costituisco signore e guida di te stesso ».
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