LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto XXIII

Come l’uccello, in mezzo alle fronde amate ( perché tra esse vi è il suo nido), dopo aver riposato presso il nido delle sue dolci creature durante la notte che ci nasconde tutte le cose,

il quale, per poter vedere le care sembianze dei suoi nati e cercare il cibo con cui nutrirli, ricerca nella quale gli sono gradite (anche) le più dure fatiche,

Secondo il Buti li aspetti distati sarebbero le cose che l'uccello " desidera di vedere, cioè unde possa prendere l'esca per arrecare ai suoi figliuoli". L'interpretazione da noi accettata è offerta da quasi tutti i commentatori antichi e, fra i moderni, il Torraca ne ha dimostrato, con sapiente spiegazione, la validità.

previene il sorgere dell’alba (fuori dal nido) posato su un ramo scoperto, e attende con vivo desiderio l’apparire del sole, guardando fissamente solo se spunti l’alba,

così Beatrice stava eretta e attenta, rivolta verso quella parte del cielo dove il sole sembra rallentare il suo corso:

Beatrice attende che appaia Cristo trionfante guardando verso il meridiano, dove il sole si trova a mezzogiorno e si muove più corusco e con più lenti passi (Purgatorio XXXIII, 103). Il Buti commenta, ben comprendendo l'importanza di questa notazione astronomica: "degna cosa è che elli finge che Cristo si rappresentasse nel mezzodi, acciò soprastesse sopra tutti li beati, come lo sole sta sopra noi, quando è al meridiano".
Una lunga similitudine apre il canto del trionfo di Cristo e dei beati, il canto della Chiesa trionfante che si raccoglie per assistere alla consacrazione di Dante pellegrino attraverso il triplice esame intorno alle virtù teologali. Per quanto sia evidente in questi versi il tessuto culturale che alimenta tutto il linguaggio dantesco (Virgilio, Georgiche I, 413-414; II, 523; III, 178; IV, 514; Eneide II, 138; IV, 33; VI, 271; Stazio - Achilleide I, 215; Lattanzio - De ave Phoenice 39-42), possiamo parlare di " invenzione " da parte di Dante, perché nuovo è il significato che attribuisce a tale similitudine, nuova è la forza poetica di cui l'arricchisce. Tutta l'intensità dell'attesa e la forza mistica del desiderio, che ispirano la prima parte del canto fino alla apparizione di Cristo, sono concentrate in questo arco sintattico privo di complesse determinazioni, in questo dettato schivo di grandi ornamenti, il quale affida ogni sua forza espressiva alla presenza di aggettivi che l'uso nel linguaggio comune ci ha reso familiari.
L'immagine, pervasa, come tante altre dell'ultima parte del Paradiso, da un intenso ardore, "ci mostra l'anima del Poeta che s'è fatta una cosa sola con quella della piccola e ardente sua creaturina" (Parodi), isolata nell'immensità del cielo dalla spoglia grandezza di quel terzo verso ( la notte che le cose ci nasconde), messa di fronte ai grandi misteri della natura - le tenebre e la luce - eppur vibrante di affettuosa umanità (per trovar lo cibo onde li pasca). Ma è in quello sguardo fiso con ardente affetto solo verso l'alba, che la prepotente inclinazione lirica del Poeta dilaga, fissando nell'immobilità e nel silenzio innaturali dell'uccello l'attimo in cui l'anima si protende oltre i suoi confini verso l'infinito e il mistero. Il passaggio fra il termine significante l'uccello pieno di divino amore, ansioso, proteso - e quello significato - Beatrice. che "col suo atteggiamento assorbe anche lo spirito di Dante, assillato dal desiderio e intanto appagato dalla speranza (versi 13-18) " (Rossi, Frascino) avviene, in questa similitudine, senza soluzione di continuità, poiché, fin dall'inizio, nella rappresentazione dell'augello il Poeta ha immesso il sentimento d'amore e di contemplazione che pervade il suo animo.


così che, vedendola assorta e ansiosa, il mio stato d’animo divenne uguale a quello di colui che desidera ciò che ancora non ha, e acquieta il suo animo con la speranza (di poter ottenere l’oggetto del suo desiderio ).

Ma poco tempo trascorse tra l’uno e I altro momento, tra il momento dell’attesa, dico, e quello in cui vidi il cielo che si veniva sempre più rischiarando.

E Beatrice disse: “ Ecco le schiere delle le anime redente dal sacrificio di Cristo e tutto il frutto raccolto (con le influenze esercitate sugli uomini) da questi cieli ruotanti!”

Assai valida la seguente osservazione del Buti a proposito dell'espressione le schiere del triunfo di Cristo: "Come li Romani, quando trionfano, menano innanzi al carro la preda tolta ai nemici, così finge l'autore che venisse Cristo colla preda ch'avea tolto al dimonio, e si de' santi padri del limbo, e si de' santi cristiani che sono salvati per la Passione".
Nella sua opera di salvazione del genere umano Cristo è stato aiutato dal girar di queste spere, le quali "servono all'uomo, regolando coi loro movimenti la periodica generazione delle cose di quaggiù, predisponendo il corso della vita umana, iniziando i moti dell'animo, provvedendo colle varie influenze alla varietà degli ingegni e delle indoli... A ragione quindi Beatrice può dire che le schiere dei beati, celebranti il trionfo di Cristo, son tutto il frutto ricolto del girar delle spere celesti " ( Nardi ) . Il giudizio del Nardi avvalla la spiegazione della maggior parte degli interpreti antichi e moderni di Dante. Meno persuasiva è la spiegazione del Porena, seguito dal Chimenz, secondo cui le schiere del cielo ottavo sono formate dalle anime di coloro che subirono l'infusso delle stelle fisse. L'interpretazione del Daniello, seguito dal Tommaseo ( tutto il frutto sarebbe il guadagno ricavato dal Poeta nell'ascesa attraverso i cieli), non si accorda con il fatto che solo la visione finale di Dio sarà il frutto del viaggio di Dante.


Mi sembrava che il suo volto si illuminasse di un fulgore vivissimo, e i suoi occhi erano così pieni di letizia, che sono costretto a procedere oltre senza parlarne.

Come nei pleniluni sereni la luna (Trivia: accanto a quelli di Ecate e di Diana, è il nome solitamente usato nella mitologia per indicare la luna) splende in mezzo alle stelle che dipingono con le loro luci il cielo in ogni sua parte,

così vidi sopra migliaia di anime luminose uno splendore abbagliante (Cristo), che con la sua luce le accendeva tutte quante, come il nostro sole accende le stelle;

e attraverso l’intensa luce (che si irradiava) traspariva la fulgidissima persona di Cristo tanto luminosa ai miei occhi, che essi non potevano sostenerla.

Oh Beatrice mia dolce e amata guida! Ella mi disse: “ Ciò che vince la tua facoltà visiva è una forza a cui nessun altra può resistere.

In questa luce è Cristo, la sapienza e la potenza che aprì (agli uomini ) la via per salire dalla terra al cielo, via che in passato fu lungamente desiderata ”.

Nel verso 37 Dante ripete la definizionene paolina di Cristo: Christum Dei virtutem et Dei sapientiam" ( I Epistola ai Corinti I, 24). Con l'incarnazione e la Passione Cristo riaprì le porte del paradiso, chiuse per gli uomini dopo il peccato di Adamo ( cfr. Purgatorio X, 35-36 ).

Come la folgore si sprigiona dalla nube (in cui è rinchiusa) poiché si dilata in modo tale da non potere più esservi contenuta, e contrariamente alla sua natura ( che la porterebbe a salire ) precipita verso terra,

Secondo la scienza medievale il fulmine è prodotto dai vapori secchi dell'aria, che, contenuti in una nube, si urtano fra di loro e si espandono, prorompendo all'esterno di essa e dirigendosi verso terra ( cfr. Inferno XXIV, 145-150; Purgatorio XIV, 134-135 Paradiso I, 133-135 ).

così la mia mente, dilatatasi in mezzo a quei cibi spirituali, uscì di se stessa, e non è in grado di ricordare quello che allora abbia fatto.

La mente, vinta dalla forza del sovrannaturale - la visione dell'Uomo-Dio - e spezzato ogni limite umano, non è più in grado di ricordare, nel momento in cui tenta di trascrivere la sua esperienza mistica, che cosa divenne e che cosa fece allorché Dio le si manifestò. Dante descrive quello che, nel linguaggio dei mistici, è definito excessus mentis, l'uscita della mente dal suo ordine naturale sotto la spinta della divinità (cfr. Paradiso I, 59; 67-71 e nota relativa). "Qui l'impressione, come si rileva dal primo termine del paragone, è di uno schianto luminoso, quasi di un essere strappato dai propri cardini. In Paradiso XXXIII. 140-141, davanti al mistero del Dio-Uomo, si avrà una "percussione" da fulgore: e in questo varco del limite ( acquisto di potenza ), quasi rottura del vincolo organico con la fantasia e coi sensi, in collaborazione con i quali l'intelletto opera normalmente, va distrutta ogni possibilità di ricordo. " ( Mattalia )

“ Riapri gli occhi e guardami in tutto il mio splendore: tu hai veduto tali cose, che (ora) sei dotato di forza sufficiente a sostenere la luce del mio sorriso. ”

Io ero nella stessa condizione di colui che si risveglia da una visione subito dimenticata e che invano si sforza di richiamarla alla memoria,

quando udii l’invito di Beatrice, degno di tanta gratitudine (da parte mia), che non potrà mai cancellarsi dalla memoria, il libro che registra il passato.

Se ora incominciassero a cantare tutti quei poeti che Polimnia (musa della poesia lirica) e le altre Muse sue sorelle nutrirono in abbondanza con il loro latte dolcissimo (la poesia),

per aiutarmi, non si arriverebbe neppure a descrivere la millesima parte del vero, tentando di cantare il santo sorriso di Beatrice e come esso fosse reso più luminoso dalla divina presenza di Cristo;

L'immagine proemiale dell'alba si risolveva più che sulla dolcezza della sensazione visiva, sulla profonda interiorità dell'attesa. Più che un'alba, Dante in quei versi ha espresso il sentimento dell'alba, insistendo su un unico atteggiamento - l'ansiosa attesa della luce e della vita dopo la sospensione della notte - che sembra accomunare uomini, animali e cose. Allorché appare la causa dell'attender e del vedere, ogni smarrimento e ogni tensione si sciolgono nel grido trionfante di Beatrice (ecco le schiere... ) e la gioia prorompe nel sorriso di Trivia, nel corteo delle ninfe etterne che riempiono il cielo delle loro luci, nel sereno distendersi del plenilunio. Dopo il grandioso e lento giro dei versi 25-27, nei quali il linguaggio di Dante riflette la trasparenza di quel cielo notturno con parole e immagini quasi incorporee e senza peso ( ride... ninfe esterne... dipingon ), il ritmo nella terzina seguente assume un tono descrittivo, per annunciare il miracolo che si è prodotto nel cielo ottavo. Tuttavia in essa si protrae l'eco di quella visione come poche altre soave e rapita, mentre il richiamo mitologico ( Trivia... ninfe) "stabilisce una distanza e un mistero che già contribuisce a trasfigurare il semplice fenomeno naturale" (Ghiavacci-Leonardi ) . È questo - continua la Chiavacci-Leonardi , un " purissimo esempio di come il verso riceva la divina pace del beato regno", perché "in questa alta bellezza si placa lo sguardo, e riposa perfettamente lo spirito; e si fa sensibile e comunicabile quella conquista tanto rara... La gioia del Paradiso come le angosce dell'Inferno hanno altro tramite che quel misterioso velo sensibile, dove significato e suono si fondono in un unico mezzo espressivo... Nella nostra terzina, la finezza del cesello nel delicato uso dei singoli suoni corrisponde alla finezza, fuggevolezza e inafferrabilità della realtà che si cerca di esprimere".

e così, nel descrivere il paradiso, è necessario che il poema sacro passi oltre ( quelle parti che non possono essere espresse con parole), come colui che trova il suo cammino tagliato da qualche ostacolo (e perciò è costretto a saltare per poter continuare la sua strada).

Ma chi considerasse la difficoltà del tema e le deboli forze delle spalle mortali che si caricano di esso, non potrebbe biasimare se queste spalle tremano sotto il suo peso.

Non è una rotta che possa essere percorsa da una piccola barca quella che la mia ardita nave va seguendo, né adatta a nocchiero che vuole risparmiare le proprie forze.

Mentre l'immagine dei versi 64-66 si ispira a un passo di Orazio (Ars poetica 38-39, quella dei versi 67-69 sviluppa la metafora usata da Dante, per simboleggiare la sua poesia, all'inizio del Paradiso (canto II, versi 1-15). Dileggio è termine di origine e significato oscuri. Il Del Lungo, basandosi sulla sua probabile etimologia (dal latino pelagus), ritiene che esso significhi " mare " e, di riflesso, " cammino e, " rotta ".

“ Perché il mio volto ti attira a sé con tanta forza, che tu non ti volgi più a guardare le schiere delle anime beate che sbocciano, come fiori, sotto i raggi della luce di Cristo?

In questo giardino si trova la rosa(la Vergine Maria) nella quale il Verbo divino s’incarnò; qui sono i gigli ( gli apostoli ), sotto la cui guida gli uomini intrapresero il cammino della vera fede. ”

Le singole espressioni di questa terzina sono di derivazione biblica. Frequentemente ricorrono nella Scrittura le immagini del giardino celeste e dei fiori (Cantico dei Cantici II, 1; Vl, 3; Ecclesiastico XXXIX, 13-14).
Nel presentare Cristo come il verbo divino che si fece carne, Dante riecheggia il Vangelo di San Giovanni (I, 14), mentre è San Paolo che definisce la vita cristiana "Christi bonus odor" (II Epistola ai Corinti II, 15).
Il Getto, analizzando i modi in cui il tema di Dio è affrontato nel Paradiso, sostiene che Dio è "intuito non tanto come amore... quanto piuttosto come potenza" che tutto muove e ordina, per cui il sentimento che ne deriva "esclude una concreta possibilità di rilievo, di carattere psicologico, all'amore, spingendola semmai su di un piano cosmologico, sotto l'aspetto di forza ordinatrice e irresistibile dominio del creato". La posizione dell'illustre critico appare, a questo proposito, troppo perentoria ( il problema della predestinazione e quello della giustizia, ad esempio, sono stati risolti alla luce dell'amore), per quanto sostanzialmente esatta. Queste osservazioni si possono ripetere per il dogma cristologico, che il Getto vede impostato "nella prospettiva spaziosa della potenza". Se Cristo è colui che soffrì sulla croce (Paradiso VII, 40-48) e che si umiliò incarnandosi (Paradiso VII, 120), è pur vero che, quando appare, la sua figura è sempre avvolta in una trascendente e inaccessibile maestà ( si veda, prima del canto XXIII, il suo bianco "lampeggiare" nella croce luminosa del cielo di Marte ) . Cosi giudica il Getto: "Cristo è in effetti colui che in terra addusse la verità che tanto ci sublima, il Cristo elaborato dalle Somme, in sostanza... più che il Gesù degli Evangeli. L'umanità di Gesù che aveva formato l'oggetto di tanta meditazione e celebrazione da parte del movimento francescano, lascia indifferente l'animo di Dante. Il Cristo evangelico per il Poeta si riduce alla " lux quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum " del prologo di San Giovanni, una condizione che desta più che una eco affettiva, un senso di sfolgorante gloria e di trascendentale grandezza. Soltanto il dogma mariano sembra diffondere qualche accento più affettuoso e familiare: il nome di Maria è evocato in un'aura di gentilezza come il nome del bel fior ch'io sempre invoco e mane e sera. Ma Poi anche questo soave profilo dilegua e si ricompone nella linea austera suggerita dal tema della gloria, in cui Maria è interpretata essenzialmente nell'ideale contegno di regina", come nella celebre preghiera alla Vergine, A questo proposito, tuttavia, appare più nel giusto il Cosmo, il quale rileva che nel culto di Maria presente dall'inizio della Commedia (a lei il Poeta deve l'intervento di Beatrice; cfr. il secondo canto dell'Inferno) fino alla fine (cfr. canto XXXIII del Paradiso), la religiosità di Dante trova le sue note più intime e profonde e la sua poesia le intonazioni liriche più intense: " Salvatrice di chi solo la invochi con una parola, soccorritrice alla debolezza delle anime purganti tentate dal nemico, invocata da esse con le preghiere più dolci; posta con gli esempi tratti dalla sua vita ad incitamento e forma della loro purgazione, il trionfo di lei nel regno dei beati era la logica conseguenza delle premesse poste nelle prime due cantiche".


Così disse Beatrice; ed io, che ero completamente disposto a seguire i suoi consigli, ritornai a mettere alla prova i miei deboli occhi (volgendoli di nuovo verso la figura di Cristo, che già li aveva abbagliati; cfr. verso 33).

Come talvolta (sulla terra) i miei occhi, prima coperti d’ombra (perché il sole, velato dalle nubi, non li feriva ), videro un prato fiorito illuminato improvvisamente da un raggio di sole che filtrava limpido attraverso lo squarcio di una nube,

allo stesso modo vidi numerose schiere di anime splendenti, illuminate dall’alto da raggi fulgenti (quelli di Cristo), senza che potessi scorgere la sorgente di questi raggi,

O divina potenza di Cristo, che imprimi il sigillo della tua luce sui beati, ti sollevasti verso l’Empireo, per concedere ai miei occhi che non erano capaci di sostenere il tuo fulgore la possibilità di vedere li (osservando le luci meno intense delle anime trionfanti),

Il nome della rosa, il bel fiore che io sempre invoco nella mie preghiere al mattino e alla sera, fece concentrare ogni mia facoltà nello sforzo di ravvisare (fra le luci dei beati, dopo che Cristo era asceso all’Empireo ) lo splendore più intenso (quello di Maria),

Non appena l’intensità e la quantità della luce di Maria, che in cielo supera lo splendore dei beati, come in terra superò in virtù ogni altra creatura, si riflessero nei miei occhi,

scese attraverso il cielo uno splendore di forma circolare simile a una corona, e cinse la luce di Maria girandole intorno.

I commentatori antichi sono concordi nel ritenere che la facella sia l'arcangelo Gabriele, che in terra annunciò alla Vergine la divina maternità ( le parole che fra poco pronuncerà sono un esplicito riferimento ad essa) e che ritornerà a celebrare le lodi di Maria alla fine del Paradiso ( canto XXXII, 94-114). Invece fra i commentatori moderni, alcuni, come il Mattalia, sostengono trattarsi di una corona di spiriti angelici, dimenticando che Dante fa esplicito riferimento a una sola facella.

Qualunque melodia che sulla terra risuoni più dolcemente e avvinca a sé con più forza l’animo (degli ascoltatori), sembrerebbe un fragore di tuono,

a paragone del canto di Gabriele, che faceva corona alla Vergine, la gemma più preziosa di cui si adorna il cielo più luminoso (I’Empireo).

“ Io sono un angelo ardente d’amore che corono, girandovi intorno, la beatitudine che emana dal grembo che fu dimora di Cristo, supremo desiderio degli angeli e degli uomini;

e continuerò a girare, o signora (donna: dal latino domina, “ padrona ”) del cielo, fino a che seguirai tuo figlio (già asceso all’Empireo), e renderai più splendente il cielo più alto per il fatto che tu vi ritorni. ”

Così si chiudeva il canto dell’angelo che girava intorno alla Vergine, e tutti gli altri beati facevano eco ripetendo i} nome di Maria.

Il nono cielo, che avvolge come in un regale mantello le altre sfere che ruotano intorno alla terra, e che più arde di desiderio e che più riceve vita dallo spirito e dalle leggi di Dio,

aveva la sua faccia interna tanto distante dal luogo in cui noi eravamo, che il suo aspetto da dove mi trovavo, non era ancora visibile:

Il nono cielo, il Primo Mobile, è il cielo più vicino all'Empireo, sede di Dio. Esso "per lo ferventissimo appetito ch'è 'n ciascuna parte... d'essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua velocitade è quasi incomprensibile" (Convivio II, III, 9).
Inoltre esso riceve ogni suo impulso e ogni sua norma direttamente da Dio per poi trasmetterli alle sfere sottostanti. Il termine "volume" per indicare " cielo " deriva dal latino volumen, volgo: ciò che effettua un movimento rotatorio. L'interna riva dei cieli è la superficie concava che essi presentano a chi sale e che confina con il cielo immediatamente precedente, mentre la superficie convessa e all'esterno.


e perciò (a causa di questa distanza) i miei occhi non poterono seguire la luce di Maria incoronata da (Gabriele, che si innalzò (verso l’Empireo) seguendo il figlio.

E come il bambino che, dopo aver preso il latte, tende le braccia verso la mamma, per l’amore che si manifesta anche negli atteggiamenti esteriori,

così ciascuna di quelle anime fulgenti si protese verso l’alto con la sua luce, dimostrandomi chiaramente il profondo affetto che nutrivano per Maria.

Poi rimasero lì al mio cospetto, cantando “ Regina del cielo ” con tanta dolcezza, che mai scomparve dal mio animo il senso di gioia che provai (ascoltando quell’inno).

" Regina coeli, laetare, alleluia! " è l'antifona che si canta durante la liturgia pasquale.

Oh quanta è l’abbondanza di beatitudine che si raccoglie in quelle anime simili ad arche ricchissime di frumento, che quaggiù nel mondo furono buone seminatrici!

La terzina, nella quale sono evidenti i richiami evangelici (Matteo XIII, 323; Marco IV, 3-30; Luca VIII, 515), non è di facile interpretazione.
Il Buti, seguito da tutti gli interpreti antichi, intende bobolce come femminile plurale di " bobolco " (dal latino bibulcus) che significa " lavoratore della terra ". Il Parodi sostiene che bobolce vale senza dubbio " campi ", pezzi di terra da arare e seminare, e di cui è propria l'ubertà", basando la propria affermazione sul fatto che il termine " bifolca" o "biolea" è an cora in uso nei dialetti dell'Italia settentrionale per indicare una misura terriera.


In paradiso si vive e si gode dei meriti che l’uomo ha acquistato con le sofferenze e con il disprezzo delle ricchezze durante l’esilio terreno.

In paradiso, accanto a Cristo e ai santi dell’Antico e del Nuovo Testamento, trionfa della vittoria (riportata sul male e sulle tentazioni del mondo)

L'esilio degli Ebrei durante la cattività di Babilonia (cfr. II Re XXIV, 10 sgg.: Geremia LII, 3 sgg.) è, in tutta la letteratura patristica e medievale immagine della vita terrena, la quale, per il cristiano, è un periodo di esilio dalla vera patria, il cielo.

San Pietro, colui che custodisce 1e chiavi del paradiso.



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