LETTERATURA ITALIANA: IL DECADENTISMO

 

Luigi De Bellis

 


 

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DECADENTISMO





GABRIELE D'ANNUNZIO

Nacque a Pescara da famiglia medio-borghese nel 1863, ma a soli 18 anni, dopo aver conseguito la licenza liceale presso il collegio Cicognini e già noto per la pubblicazione  di una prima  raccolta di versi (“Primo vere”), si trasferì a Roma e iniziò la sua turbinosa avventura esistenziale fatta di amori, di duelli, ma anche di intense letture e di proficua attività giornalistica e letteraria. Compì numerosi viaggi, fra cui una crociera nell’Adriatico abbastanza avventurosa (1887) e un viaggio in Grecia (1895) con l’amico Edoardo Scarfoglio (fondatore de “Il Mattino” di Napoli e marito della celebre scrittrice verista Matilde Serao). Nel 1897, nel collegio di Ortona a mare, venne eletto deputato nelle liste della destra, ma non esitò a passare alla sinistra per protesta contro le  proposte restrittive  della libertà fatte dal Pelloux. Nel 1898 si trasferì in Toscana,  ove visse per circa un decennio nella villa della Capponcina a Settignano, nei pressi di Firenze, quasi travolto da un’altra intensa passione amorosa  con la sua amante di turno, la famosa attrice Eleonora Duse. Non potendo far fronte ai debiti, si rifugiò in Francia, ove visse dal 1910 al 1915 ad Archanson, presso Bordeaux, e scrisse drammi in francese.  Scoppiata la prima guerra mondiale, tornò in Italia e si rivelò fra i più accesi interventisti. Partecipò alla guerra mettendosi in evidenza con personali atti di coraggio clamorosi  (“Beffa di Buccari”, volo su Vienna)  e infine occupando  militarmente Fiume  - contro la volontà dello stesso governo italiano che  fu  costretto ad intervenire anche militarmente - per protestare contro la Conferenza di pace che non aveva concesso l’annessione della città all’Italia. Nel 1921 si ritirò a Gardone,  sul lago di Garda, nella straordinaria villa di Cargnacco, che egli trasformò in un vero e proprio museo delle sue gesta e chiamò il  Vittoriale degli Italiani”. La sua adesione al fascismo fu forse più tiepida di quanto volle far credere il regime, che seppe ben utilizzare la retorica dell’eroe presente nell'opera dannunziana. Morì nel 1938.

La poetica e l'arte

Da queste sia  pure scarne  notizie biografiche, appare già abbastanza chiara la personalità del D’Annunzio, “superuomo” nella vita come nell’arte, che tenta di fare della sua reale esistenza la sua più bella opera d’arte.

Egli stesso, nell’ “Avvertenza” a “Il venturiero senza ventura  (dalle “Faville del maglio”), datata 14 luglio 1924, confessò: «Tutta la mia vita è innamoratamente congiunta alla mia arte, come apparve e appare nella  mia  meditazione occulta e  nella mia azione palese». In effetti egli sostituì il senso estetico al senso morale e visse intensamente al di fuori di ogni regola del comune comportamento civile: “Habere non haberi  (“possedere, non essere posseduto”) e “Memento audere semper  (“ricordati di osare sempre”, da cui la sigla “M.A.S.”  che denominò i motoscafi di attacco impiegati nella “Beffa di Buccari”) furono i motti a lui più cari.

Nell’arte, però, dovette faticosamente raggiungere la sua  totale autenticità e singolarità, perché, dotato da madre natura di una forte capacità assimilatrice e di un inesauribile desiderio di conoscenze letterarie, per lungo tempo non riuscì  a  sottrarsi alle  suggestioni delle esperienze altrui e fece propri il classicismo del Carducci come il realismo del Verga e dello Zola, l’estetismo dei parnassiani come il simbolismo dei decadenti. A tal proposito, in un articolo apparso sul quotidiano “Il Mattino” di Napoli, Guido Cattaneo nota: «D’Annunzio per tutta la vita era sempre riuscito ad essere presente con una nota spiccata di originalità nel mondo della letteratura avvertendo prontamente quello che era nell’aria. Esordisce come poeta a sedici anni con trenta “odi barbare”  sulla scia di Carducci; dopo l’apparizione di “Vita dei campi” di Verga scrive le novelle di “Terra vergine”, ma più tardi è parnassiano nello “Intermezzo” e nelle “Elegie romane”, preraffaellita3 nell’ “Isottèo” e nella “Chimera”. Nel “Poema paradisiaco” mima Verlaine e Maeterlinck. Gli scrittori veristi si orientano verso miraggi decadenti e D’Annunzio pubblica “Il piacere”. Sono alla moda i narratori russi e lui scrive “Giovanni Episcopo” e da Dostoevskij passa a Tolstoj nell’ Innocente”».

Le caratteristiche salienti dell’arte dannunziana sono il soggettivismo esasperato, cioè la tendenza ad espandere il proprio Io fino a contenere in sé l’intero universo; il conseguente sensualismo, che va inteso non tanto in senso erotico ma piuttosto come estrema dilatazione di tutti i propri sensi per appropriarsi della Natura e goderne con sottile voluttà; ed infine l’estetismo, cioè il culto del bello e la tendenza ad esaltare la ricercatezza formale. Caratteristiche, queste, sempre vistosamente affermate nella vasta produzione dannunziana, ma affatto estranee - o, per lo meno, rattenute - in quelle opere che sgorgarono più spontaneamente dall’animo del Poeta nei rari momenti di abbandono in cui, deposta ogni maschera, affiora l’uomo con  le sue pene e le sue angosce.

Un aspetto notevole della poesia del D’Annunzio  - per molto tempo trascurato e solo di recente messo adeguatamente in luce da un attento e sensibile critico letterario -, anche perché rappresenta una costante in tutte le opere del pescarese, è il profondo attaccamento al mondo pastorale e contadino della sua terra, del quale sono rievocati usi e costumi con sincera partecipazione. Raffaele Matarazzo, cui va il merito di questa puntualizzazione (“Il mondo pastorale e contadino nell' opera di D’Annunzio”, Napoli, Guida Editore, 1989), ha individuato in quasi tutte le opere, sia di poesia che di prosa e di teatro, scene di vita paesana tratte dalla memoria storica del Poeta e descritte realisticamente sia pure filtrate dalla sua memoria culturale. A proposito de “Il trionfo della morte”, così scrive il Matarazzo:

«Un’umanità dolente e miserevole affolla il racconto del D’Annunzio, rifluendovi dalle sue prime esperienze narrative, a ulteriore prova che costante in lui è stata l'ispirazione che quel mondo atavico esercitava su di lui, sulla sua immaginazione, di figlio di quella terra... Certo, D’Annunzio non era un  contadino e in lui, uomo estremamente colto, il fascino di tutto quel cerimoniale si tramutava in qualcosa di diverso: le donne che cantavano  in duplice fila, reggendo su le braccia i grandi vasi dipinti  “davano immagine d'una di quelle teorie votive  che  si  svolgevano armoniosamente in basso rilievo su i fregi dei templi o intorno ai sarcofaghi”.

Diremo allora che la vita dei contadini cui si ispira il D’Annunzio sia meno “vera” e meno fedelmente ritratta sol perché, poi, suscita in lui queste immagini mediate da un'altra cultura? Importante è che le immagini successive non distruggano la verità di quelle originarie. Caso mai, è da constatare quanto profonde siano le emozioni che quella vita suscita nel narratore da propiziargli tutta quella ricchezza di rievocazioni e di richiami culturali!». 

Le opere

Vastissima la sua produzione letteraria che va dalle raccolte  di versi (“d’amore e di gloria”), alle opere in prosa (novelle e romanzi), alle tragedie.

Ci limitiamo a farne un elenco: 

Poesia:

1875

Primo vere

 

1882

Canto novo

 

1883

Intermezzo di rime

 

1886

Isottéo

 

1887

Elegie romane

 

1888

Chimera

 

1891

Poema paradisiaco

 

1892

Odi navali

L’opera maggiore  è  costituita dalle  Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi”, pubblicata in più occasioni parzialmente e in parte anche postuma. Si compone di 5 libri:

- Maia

 

(poema autobiografico; 1903)

- Elettra

 

(esalta eroi, città, artisti; 1903)

- Alcyone

 

(capolavoro; 1903)

- Merope

 

(sono 10 “Canzoni delle gesta d’oltre mare”; 1912)

- Asterope

 

(postumo).

Prosa:

1882

Terra vergine

 

1886

Novelle della Pescara

 

1889

Il piacere

 

1891

Giovanni Episcopo

 

1892

L’Innocente

 

1894

Trionfo della morte

 

1895

Le vergini delle rocce

 

1898

Il fuoco

 

1910

Forse che sì, forse che no

 

1913

La Leda senza cigno

Tragedie:

1897

Sogno di un mattino di primavera

 

1899

Sogno di un tramonto di autunno

 

1902

Francesca da Rimini

 

1904

La figlia di Jorio

 

1905

La fiaccola sotto il moggio

 

1908

La nave

ecc. ecc.

 

 

Il 1916, a seguito di una ferita ad un occhio riportata in guerra, il D’Annunzio fu costretto a vivere per alcun tempo al buio. Fu certamente il periodo più triste e sconsolato della sua vita ed egli, deposta la maschera del superuomo e del tribuno, si lasciò andare a sincere confessioni, a liberi sfoghi dell’animo. Scrisse per l’occasione una prosa, il “Notturno”, in cui appare «un senso cupo del finire delle cose, la presenza, quasi, della morte» (Guglielmino). Al “Notturno” fecero seguito altre pagine di autentica confessione che il D’Annunzio andava pubblicando sul “Corriere della Sera” e che poi raccolse e pubblicò, nel 1924, sotto il titolo di “Le Faville del maglio”.

Queste prose, che costituiscono la cosiddetta “fase notturna” dell’opera dannunziana, sono oggi considerate dalla critica il vero messaggio artistico del D’Annunzio.

Svolgimento dell’arte dannunziana  

E' pressoché impossibile  trascorrere, sia pure rapidamente, le innumerevoli opere di poesia, di narrativa e di teatro del D’Annunzio e, d’altra parte, risulterebbe in buona misura lavoro inutile, dal momento che molte opere non hanno origine da un’autentica necessità spirituale, ma sono il frutto di un vieto esibizionismo o, peggio, di un desiderio di guadagno. Con ciò non si vuole minimamente intaccare il pregio dell’arte dannunziana, di quella espressa nei momenti più felici dell’ispirazione. Ci interesseremo, quindi, solo di alcune opere, quelle comunemente considerate dai critici le più valide.

Nella piena maturità artistica il D’Annunzio compose i versi delle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi”, suddivisi in cinque libri cui diede i nomi delle Pleiadi: MAIA, ELETTRA, ALCYONE, MEROPE e ASTEROPE. I primi tre libri rappresentano il meglio della produzione dannunziana, ma ad “Alcyone” è comunemente attribuito il titolo di “capolavoro”. 

MAIA, che ha per sottotitolo “Laus vitae” (lode della vita), è un lungo poema di 8.400 versi e rappresenta l’annuncio di una nuova morale destinata ai superuomini. La morale consiste non solo nel diritto del superuomo di far valere la propria “volontà di potenza” sulla massa bruta degli altri uomini considerati “schiavi”, ma anche e soprattutto nel suo diritto di esprimere compiutamente, fino in fondo, la propria capacità di godere la vita al di là di ogni restrizione o rinuncia imposta dalla morale comune e dalle convenienze sociali. Già nel primo canto, nell’ “Annunzio”, il Poeta canta il ritorno sulla terra  del dio pagano Pan, simbolo della pienezza della vita in senso cosmico: sarà questo dio a dare nuova linfa al desiderio di voluttà dell’uomo eletto. Successivamente il Poeta racconta un suo favoloso viaggio attraverso la Grecia antica, culla della civiltà classica pagana, poi attraverso la Roma antica e rinascimentale, simbolo della forza fisica e spirituale, e infine nel Deserto, ove è lecito abbandonarsi ai più sfrenati istinti e dove incontra la Libertà e la Felicità. 

ELETTRA comprende canti che potremmo definire “patriottici” in quanto fanno l’esaltazione degli eroi (“Per i marinai d’Italia morti in Cina”, “A uno dei Mille”, “La notte di Caprera”, ecc.), di artisti (“A Dante”, “Per la morte di Giuseppe Verdi”, “Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini”, ecc.) e di città (Ferrara, Pisa, Ravenna, Rimini, Urbino, Padova, Lucca, ecc.).  Appare chiaro che il Poeta trasferisce il mito del superuomo nella concezione della nazione: l’Italia diviene per lui la “supernazione” destinata a dominare su tutte le altre: nascono il “nazionalismo” e l’ “imperialismo” dannunziani che avranno non poca responsabilità nella propaganda di miti velleitari che porteranno alla prima guerra mondiale ed all’avvento del fascismo.

ALCYONE è considerata il capolavoro del D’Annunzio. Comprende, infatti, le liriche più famose, come “La sera fiesolana”, “La pioggia nel pineto”, “Le stirpi canore”, i “Madrigali dell’estate”, i “Sogni di terre lontane” (con la celebre lirica “I pastori”) e termina con “Il commiato” dalla terra di Toscana. «E' una raccolta di liriche che si compongono insieme come un vasto e continuo poema solare; è il poema dell’Estate, sentita come un’entità divina e un nuovo mito sorto dall’animo del poeta, ritornato a un'elementare comunione con la natura...E nell’ “Alcyone” esprime questa arcana consonanza, questa comunione dell’anima umana con l’anima delle cose; si immedesima col pulsare innumerevole della vita universa, coi mari, coi fiumi, con l’ardore della calura, con la pioggia, con gli alberi.» (Pazzaglia):

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la via è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvéoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli

c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.

            (da “La pioggia nel pineto”)

Nell’ “Alcyone” il mito del  superuomo  sembra  purificarsi delle passioni più torbide, della consueta ed esasperata lussuria, per far posto ad un più naturale e gioioso sensualismo: tutti i sensi sono impegnati per realizzare una sorta di magica simbiosi  fra l’uomo e la natura.

Se IL PIACERE fu il romanzo con cui il D’Annunzio definì la figura dell’ “eroe” decadente, cioè del “superuomo” che si pone al di fuori e al di sopra dei comuni mortali restando poi vittima della sua presunzione (cfr. pag. 263), L’INNOCENTE fu il romanzo che lanciò in Europa la fama dell’Autore dopo la traduzione che ne fu fatta in Francia col titolo “L’intrus”.

Il protagonista, Tullio Hermil, ha condotto una vita dissoluta, sempre e soltanto dedicandosi al soddisfacimento dell’inesauribile sete di piacere (specie quello della carne). La moglie Giuliana, continuamente e gravemente offesa ed umiliata, non si è mai ribellata ed ha accettato di soffrire in silenzio per amore delle due figliolette e della suocera, una pia donna. Quando Tullio finalmente si ravvede e decide di riconquistare l’amore e la stima della moglie, scopre che Giuliana, per aver ceduto ad un’unica tentazione di cui è sinceramente pentita, è incinta: metterà al mondo un bellissimo maschietto accolto con grande gioia dai familiari e dai parenti e destinato a diventare l’erede del nome degli Hermil. E' però un intruso che sconvolge la vita dei coniugi e costituisce un insormontabile ostacolo alla ricostruzione del ménage familiare. Giuliana vorrebbe morire, ma Tullio decide di sopprimere l’intruso innocente e mette a punto con fredda determinazione e lucidità, al riparo da ogni sospetto, un piano preciso che attua durante la novena di Natale.  Una sera, mentre tutta la famiglia è raccolta nella cappella di casa per le preghiere di rito, egli si astiene dalla funzione religiosa adducendo il pretesto di non voler lasciare solo  il bambino  che  dorme nella sua culla: in effetti lo espone fuori dalla finestra al rigido freddo invernale, facendolo ammalare di polmonite che lo condurrà a morte in pochi giorni. Il fantasma dell’innocente graverà per sempre sul rapporto della coppia.

L’Autore fa narrare la vicenda, in prima persona, dallo stesso protagonista, il quale, prima di accingersi al racconto, fa questa premessa, assai significativa per capire la “morale” del superuomo: «Andare davanti al giudice, dirgli: “Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa. Ho premeditato l’assassinio, nella mia casa. L’ho compiuto con una perfetta lucidità di conscienza, esattamen­te, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l’anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi”. Posso andare avanti al giudice, posso parlargli così? Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno. A CHI?» 

Il teatro dannunziano, secondo il critico Luigi Russo, : «poche volte è teatro di poesia ma è quasi sempre di profezia, di educazione e di corruzione, di flagellazione lussuriosa e di esortazione politica». 

Dalle tragedie del D’Annunzio ci limitiamo a ricordare solo quella meritatamente più celebrata, cioè LA FIGLIA DI JORIO

La vicenda si svolge in Abruzzo. Il pastore Aligi si è sposato e dinanzi alla sua casa si fanno, secondo l’usanza, grandi festeggiamenti, che si protaggono fino all’indomani. Durante la prima notte di nozze Aligi  è  preso da un sonno profondo, funestato da strani sogni, e non si accosta neppure alla sposa, che resta illibata.  All’alba poi avviene un fatto strano. Nella casa di Aligi irrompe Mila, la figlia del serparo Jorio, donna perduta e con taccia di strega, che implora protezione perché inseguita da una folla di mietitori ubriachi che vogliono infierire su di lei. I familiari di Aligi incitano il giovane a scacciare la perversa, ma il pastore vede accanto alla donna l’immagine di un angelo e le offre l’aiuto richiesto, ammansendo i violenti con l’aiuto di un crocifisso. 

Quando le acque si sono calmate, Mila lascia il rifugio e torna ai suoi boschi, ma Aligi, che ne è rimasto affascinato, la segue, abbandonando la sposa. I due giovani vivono insieme in una caverna, ma in modo casto.

Aligi progetta di andare in pellegrinaggio a Roma per fare annullare  dal Papa  il suo matrimonio non consumato, al fine di congiungersi con Mila dinanzi a Dio, e intanto scolpisce un angelo di legno con le fattezze di quello che aveva visto nella sua casa accanto alla giovane perseguitata. Sopraggiunge però il padre di Aligi, Lazzaro, che vuol far sua Mila e fa legare il figlio che si oppone a quella violenza. Ma Aligi, liberato dalla sorella Ornella, raggiunge il padre ancora invasato dalla torbida passione per Mila e, in un impeto di follia, l’uccide con un'ascia. Viene quindi condannato ad un atroce supplizio, ma prima che la sentenza sia messa in atto, accorre Mila  che si dichiara  l’unica responsabile del delitto commesso da Aligi sotto l’influenza della sua magia. Ella approfitta del fatto che tutti la  considerano una strega e, in nome del puro amore che la  lega  al giovane pastore, affronta, innocente, la morte sul rogo. 

Il NOTTURNO è una prosa lirica che il D’Annunzio scrisse durante i giorni  della sua cecità  (nel 1816, ferito ad un occhio durante un atterraggio di fortuna, mentre partecipava da volontario alla  grande guerra, fu costretto  ad una lunga degenza  in piena oscurità).  Egli stesso ci racconta, proprio all’inizio dell’opera, come faceva per scrivere queste pagine: «Ho gli occhi bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi. Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata. Scrivo sopra una stretta  lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere  via via che la parola è scritta. Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come di una guida per conservare la dirittura». In queste pagine il Poeta  rievoca  sensazioni e stati d’animo legati ad episodi del suo passato, che è ormai tutto il presente: un presente che non ha alcuna datazione storica, ma rappresenta il mistero della vita universale in cui si effonde e confonde l’animo del Poeta. Leggiamo queste due pagine molto significative: 

«Chi ha rappresentato i ciechi come veggenti rivolti verso il futuro? come rivelatori dell’avvenire?

Quale Tiresia metteva la sua bocca d’indovino nel sangue dell’ariete nero sgozzato sopra la fossa, tale da più notti io bevo il mio sacrificio; e non vedo il futuro, né vivo nel presente.

Ma solo il passato esiste, solo il passato è reale come la benda che mi fascia, è palpabile come il mio corpo in croce.

Sento il fiato e il calore delle mie visioni.

Nel mio occhio piagato si rifucina tutta la materia della mia vita, tutta la somma della mia conoscenza. Esso è abitato da un fuoco evocatore, continuamente in travaglio.

Chi si accosta al mio letto è men vivo del trapassato che mi fissa col volto di bragia, come sorgendo da un avello rovente dell’Inferno».

«Come il rapimento di una melodia che sorge  improvvisa da un’orchestra profonda; come la rivelazione d’un verso che sveglia il suono segreto dell’anima; come il messaggio del vento che è la rapidità dell’infinito in cammino; con uno spirito senza riva, con un corpo senza forma, con un gaudio che sembra terrore, io sento l’idealità del mondo».

Ed ecco alcuni esempi di come ogni attimo di sofferenza nel letto dell’ospedale (e sono infiniti gli attimi in un letto d’ospedale!)  si trasformi in un ricordo o, meglio, in una sensazione scavata dal profondo dell’inconscio, dove la memoria l’ha piantata, segreto messaggio di quel filo misterioso che unisce la vita della singola creatura alla vita del cosmo:

«Oggi non ho più  nell’occhio il  giacinto cupo. Oggi ho nell’occhio non so che fiore villoso, tra rossigno e gialligno, simile all'orecchio di un cuccioletto». 
«Ho nell’occhio quella creta cocente che  s’abbevera sotto il rovescio d’acqua. Ho nell’occhio quella creta gialla che abbaglia laggiù in quel greto deserto della Versilia.
Sento il succhio della sua arsura sotto lo scroscio del nembo».   
«Ecco, ho nell’occhio il fanciullo etrusco di bronzo, che tocca la terra con la mano destra.
E’ d’un rossore cupo, come escito dalla fornace, ancor roventa.
Non si rialza mai». 
«La lacrimazione dell’occhio infiammato  mi cola alla commessura delle labbra. L’amaro si mescola al sapore metallico.Penso ai pescatori della Pescara che partono con le belle paranze dipinte, prima dell’alba, nel vento di maestro, e hanno il gusto del sale in bocca».

«Una rondine grida disperatamente sopra un’armonia cupa di cannone e di campana.
E’ verso sera.
Il mio carnefice notturno è dietro la porta».

La fortuna

Benedetto Croce si interessò più volte all’arte  del D’Annunzio, ma in modo ampio e integrale solo in due suoi saggi, rispettivamente del 1903 (“Gabriele D’Annunzio”) e del 1935 (“L’ultimo D’Annunzio”).

Nel primo saggio il critico cerca di mettere in evidenza tutte le false pose esibizionistiche del D’Annunzio (il falso buono, il falso eroe, il falso mistico, il falso profeta) per concludere, però, che al di là del suo “mutare apparente” si può scoprire un “persistere reale”, che consentirebbe di giudicare il poeta pescarese un geniale “dilettante di sensazioni”, privo di qualsiasi idealità, ma tuttavia capace a tratti di esprimere qualche accento di poesia vigorosa. Nel secondo saggio il Croce negherà al D’Annunzio  la dimensione di poeta in quanto privo di umanità e incapace di far sentire nelle sue opere alcuna “risonanza con la vita del tutto, con la vita del cosmo”.

Sempre agli inizi  del secolo, nel 1909, in posizione  diametralmente opposta al Croce si colloca il Borgese, che non solo attribuisce al D’Annunzio un intimo travaglio spirituale per la presenza in lui di profondi quanto contraddittori ideali, ma definisce la raccolta “Maia” (il primo libro delle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi”, anche se fu scritto dopo  Elettra” e dopo “Alcyone”) una sorta di “Divina Commedia” dei tempi moderni.

La critica successiva ha messo in luce l’esasperazione, l’esagerazione di queste due posizioni e (al di là di ogni remora di natura ideologica, determinata soprattutto dalla reale o supposta collusione del Poeta con il fascismo) gli ha riconosciuto una validità artistica niente affatto secondaria, anche se limitata ad alcune opere (“Canto novo”, “Alcyone”, “Notturno”), nell’ambito della spiritualità decadente italiana, fino a considerarlo un precursore degli ermetici e a giudicare la sua prosa  - come fa il De Robertis -  l’ «acquisto più grande alla storia della prosa moderna».

Di recente Raffaele Matarazzo ha dimostrato che anche nelle opere meno ispirate è possibile rintracciare squarci di profonda umanità nelle frequenti rievocazioni di usi e costumi del mondo contadino e pastorale della terra di Pescara.



3 Il “preraffaellismo” è un movimento artistico e letterario, sorto in Inghilterra verso la metà del secolo XIX, che tendeva a rivalutare il medioevo e l’arte dei primi quattrocentisti.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it