Luigi
Pirandello nasce ad Agrigento (l'antica colonia
greca di Akragas che si chiamerà Girgenti fino al
1927) in una tenuta paterna detta "il
Caos", da Stefano Pirandello, garibaldino
durante la spedizione dei Mille, e da Caterina
Ricci-Gramitto, sposata nel 1863, sorella di un
suo compagno d'armi, di famiglia tradizionalmente
antiborbonica (questo dato autobiografico sarà
importante durante la stesura del romanzo I vecchi
e i giovani. Frequentata la scuola nella città
natale fino al secondo anno presso l'Istituto
Tecnico, dal 1880 lo troviamo a Palermo dove
frequenta gli studi liceali e dove la famiglia si
era trasferita dopo un dissesto finanziario.
Conseguita la licenza liceale si iscrive
contemporaneamente sia alla Facoltà di Legge che
a quella di Lettere dell'Università di Palermo e
nel 1887 si trasferisce alla Facoltà di Lettere
dell'Università di Roma, dalla quale è
costretto, dopo un diverbio con il preside della
Facoltà e docente di Latino Onorato Occioni, ad
allontanarsi. Si iscrive, allora, all'Università
di Bonn dove si reca con una lettera di
presentazione del Professore di filologia romanza
Ernesto Monaci.
A Bonn all'inizio del mese di gennaio 1890,
conosce a una festa da ballo in maschera Jenny
Schulz-Lander, alla quale dedica il suo secondo
volume di poesie, dal titolo Pasqua di Gea, una
ragazza ("una delle bellezze più luminose
che io mi abbia mai visto", scrive alla
sorella Lina) di cui si innamora e che rivestirà
una parte importante nella sua vita anche sul
piano spirituale, in quanto gli rimarrà per
sempre dentro l'amarezza di un amore non
realizzato, l'unico vero della sua giovinezza. Si
laurea nel 1891 con una tesi su Suoni e sviluppi
di suono della parlata di Girgenti. Nello stesso
anno rientra in Italia e si stabilisce a Roma con
un assegno mensile ottenuto dal padre.
Nel 1894 sposa Maria Antonietta Portolano, figlia
di un socio del padre, e l'anno seguente nasce il
primo figlio, Stefano.
Dopo
le prime opere di poesia, scritte in Germania, a
Roma comincia a collaborare a giornali e riviste
con articoli e brevi studi critici e nel 1897
accetta l'insegnamento presso l'Istituto Superiore
di Magistero femminile di Roma. Nel 1897 e nel
1899 gli nascono i figli Rosalia (Lietta) e
Fausto. Il 1893 è un anno particolarmente
difficile, perché un allagamento nella miniera di
zolfo del padre, nella quale aveva investito la
dote patrimoniale della moglie, provoca il
dissesto finanziario suo e del padre insieme ai
primi segni della malattia mentale della moglie,
che si aggraverà sempre di più fino ad essere
ricoverata in ospedale. Nel 1901 pubblica il
romanzo L'esclusa (scritto nel 1893) e nel 1902 Il
turno; nel 1904 ottiene il primo vero successo con
Il fu Mattia Pascal. Nel 1908 diventa ordinario
dell'Istituto superiore di Magistero, risolvendo
in parte i suoi problemi economici, e pubblica due
importanti saggi: L'umorismo e Arte e Scienza, che
scateneranno un contrasto molto vivace con
Benedetto Croce che si protrarrà per molti anni.
Nel 1909 pubblica il romanzo I vecchi e i giovani
e l'anno seguente rappresenta i suoi primi lavori
teatrali: La morsa e Lumie di Sicilia.. Nel
frattempo continua a scrivere e pubblicare novelle
che assumeranno il titolo generale di Novelle per
un anno.
Il
1915 è uno degli anni più tristi della vita di
Pirandello sia per l'entrata in guerra dell'Italia
e per il figlio Stefano che parte volontario per
il fronte, dove abbastanza presto verrà fatto
prigioniero, sia per la morte della madre, verso
la quale nutriva un sentimento non solo di amore
filiale, ma anche di partecipazione ai suoi intimi
segreti dolori, causati da un carattere troppo
'vivace' del marito.
Col 1916 comincia la vera stagione teatrale
pirandelliana con Pensaci, Giacomino!, Liolà e La
ragione degli altri, alle quali seguiranno Così
è, se vi pare (1917), Il berretto a sonagli, Il
piacere dell'onestà, La patente, Il giuoco delle
parti, Ma non è una cosa seria, Tutto per bene,
La Signora Morli uno e due, fino ai Sei personaggi
in cerca d'autore, del 1921, opera rappresentata
da Dario Niccodemi, scatenando violenti contrasti
nel pubblico alla prima ma altrettanti consensi già
dalla seconda messa in scena, Enrico IV del 1922,
Vestire gli ignudi (1922), Ciascuno a suo modo
(1924), ecc.
Nel 1926 pubblica l'ultimo romanzo, Uno
nessuno centomila e fonda a Roma, insieme al
figlio Stefano, Orio Vergani e Massimo Bontempelli
il Teatro d'arte, nel quale debutterà Marta Abba,
giovanissima interprete che diverrà musa
ispiratrice di alcune commedie, scritte
appositamente per lei, con la quale Pirandello
stabilirà un rapporto d'affetti che durerà per
tutta la vita. Nel 1934 riceve a Stoccolma il
premio Nobel per la Letteratura. Muore nel 1936,
il 10 dicembre e le sue ceneri verranno tumulate
in una roccia nella tenuta del Caos nella quale
era nato 68 anni prima, con funerali strettamente
privati, come aveva scritto nelle sue ultime
volontà.
Introduzione
generale alla
poetica
IL
FATTO, DAL VERISMO AL DECADENTISMO
Al
centro, sia della concezione realistico-verista
che di quella del Decadentismo, e quindi
dell'umorismo pirandelliano, troviamo il fatto,
ciò che è accaduto secondo la volontà o
indipendentemente dalla volontà dei protagonisti.
All'interno del verismo il fatto
viene rappresentato come l'accadimento in atto,
anello di una catena interminabile di
cause-effetti, nella quale ogni fatto
è conseguenza di quello precedente e causa di
quello seguente. Non se ne indagano le cause e non
se ne cercano le conseguenze perché cause e
conseguenze sono naturali e indipendenti dalla
volontà` dell'individuo, che deve subirle senza
ribellarsi, se non vuole cadere in una condizione
sociale peggiore della precedente.
In Verga sono i fatti
e la condizione sociale
che determinano le caratteristiche del
personaggio, imponendogli un certo modo di agire,
spesso disumano e lontano da un qualche fondamento
di ragionevolezza: sul piano del fatto
ricchi e poveri sono sottomessi allo stesso
destino, in quanto già alla nascita la loro
condizione è segnata da limiti precisi ed
invalicabili, contro i quali è inutile
ribellarsi, limiti che ne determinano lo stato di vinti.
Pirandello prende coscienza, fin dai primi anni
della sua produzione letteraria, che il fatto
non poteva essere rigidamente costituito, ma
doveva essere indagato e analizzato nelle sue
cause e proposto soprattutto nelle sue
conseguenze, perché sono queste che pesano come
un macigno sull'esistenza degli uomini e quindi
dei personaggi.
Nei primi anni della produzione pirandelliana, è
il fatto in sé ad avere peso, come nel verismo,
non le sue conseguenze, che vengono vissute
direttamente e mai subite passivamente, come
accade ai personaggi di Verga. Contro di esse, ad
esempio, Marta, il personaggio principale
de L'esclusa, si prova a lottare e a
vincere in qualche modo, prima con le sue sole
forze (vincendo il concorso per maestra presso il
Collegio che lei stessa aveva frequentato da
piccola, poi con l'aiuto di Gregorio Alvignani e
infine rappacificandosi col marito, che non riesce
più a sopportare la separazione, prendendosi
l'impegno di affermare e dimostrare davanti ai
compaesani che quel fatto
non è mai avvenuto: perché il ritorno di Marta
al paese possa avvenire, il
fatto deve essere cancellato, non deve
esistere più, come se non fosse mai avvenuto:
solo in questo modo se ne possono cancellare le
conseguenze che hanno mutato l'esistenza della
protagonista.
Vediamo come descrive Pirandello il peso che ha su
Marta ciò che è avvenuto:
Sempre
quel nodo, sempre, irritante, opprimente, alla
gola. Vedeva addensarsi, concretarsi intorno a lei
una sorte iniqua, ch'era ombra prima, vana ombra,
nebbia che con un soffio si sarebbe potuta
disperdere: diventava macigno e la schiacciava,
schiacciava la casa, tutto; e lei non poteva più
far nulla contro di essa. Il fatto. C'era un
fatto. qualcosa ch'ella non poteva più rimuovere;
enorme per tutti, per lei stessa enorme, che pur
lo sentiva nella propria coscienza inconsistente,
ombra, nebbia, divenuta macigno; e il padre che
avrebbe potuto scrollarlo con fiero disprezzo, se
n'era invece lasciato schiacciare per il primo.
Era forse un'altra, lei, dopo quel fatto? Era la
stessa, si sentiva la stessa; tanto che non le
pareva vero, spesso, che la sciagura fosse
avvenuta.
Il
fatto con le sue
conseguenze schiaccia come un macigno i
personaggi, anche quando questo è inconsistente,
e li costringe a vivere in un determinato modo, a
prendere decisioni accettate dalla massa (e in una
società` maschilista è sempre l'uomo che decide,
anche per le donne): Marta viene scacciata di
casa, dopo essere stata scoperta mentre leggeva
una lettera inviatale da Gregorio Alvignani ed è
costretta a ritornare presso il padre, la sua
famiglia viene infangata inesorabilmente ed
emarginata dalla "società` civile",
della quale non potrà` più far parte fino a
quando lo stesso fatto non verrà` cancellato in
modo credibile e verosimile per la massa da colui
che aveva preso la prima grave decisione, dal
marito Rocco Pentàgora.
Pirandello prende coscienza fin dai primi anni
della sua produzione letteraria che il fatto non
poteva essere rigidamente costituito, ma doveva
essere analizzato nelle sue cause e proposto
soprattutto nelle sue conseguenze.
In
linea generale possiamo definire la struttura
verista come una catena circolare di fatti nella
quale ciascun fatto è conseguenza del precedente
e causa di quello susseguente secondo gli schemi
seguenti, circolare chiusa o a catena chiusa. I
seguenti due schemi mostrano visivamente la
differenza tra la struttura verista e quella usata
da Pirandello:
struttura
circolare chiusa
Nella
struttura circolare chiusa
il Fatto n.1 è causa di F2 che è causa a sua
volta di F3 e conseguenza di F2, ecc.; Fn, infine,
è conseguenza di F5 e causa di F1, chiudendo cosi
la circolarità della struttura. Con F(fatto),
in particolare, intendiamo sia il fatto in sé e
il personaggio che lo ha vissuto, che la
condizione sociale generale nella quale è stato
generato e ha a sua volta generato conseguenze.
CONCETTO
DI UMORISMO
Per
analizzare l'opera pirandelliana è innanzitutto
importante capire il concetto di umorismo,
perché questo diventa lo strumento con cui
rappresentare, nella narrativa o sulla scena
teatrale vicende e personaggi. Per una maggiore
chiarezza, serviamoci delle stesse parole che
Pirandello usa nel Saggio sull'umorismo del
1908:
Vedo
una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti
unti non si sa di quale orribile manteca
(composizione di olii vari, ndr.), e poi tutta
goffamente imbellettata e parata di abiti
giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che
quella vecchia signora è il contrario di
ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe
essere. Posso così, a prima giunta e
superficialmente, arrestarmi a questa impressione
comica. Il comico è appunto un
avvertimento del contrario. Ma se ora
interviene in me la riflessione, e mi suggerisce
che quella vecchia signora non prova forse nessun
piacere a pararsi cosi come un pappagallo, ma che
forse ne soffre e lo fa soltanto perché
pietosamente s'inganna che, parata così,
nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a
trattenere a sé l'amore del marito molto più
giovane di lei, ecco che io non posso più riderne
come prima, perché appunto la riflessione,
lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel
primo avvertimento, o piuttosto, più
addentro: da quel primo avvertimento del
contrario mi ha fatto passare a questo
sentimento del contrario. ed è tutta qui la
differenza tra il comico e l'umoristico.
L'umorismo
è, quindi, un processo di rappresentazione della
realtà, delle vicende e dei personaggi; durante
la concezione e l'esecuzione dell'opera la riflessione
non è un elemento secondario, ma assume un ruolo
di notevole importanza, perché è solo attraverso
di essa che possiamo capire la vicenda che si
svolge sotto i nostri occhi. La riflessione
è "come un demonietto che smonta il congegno
delle immagini, del fantoccio messo su dal
sentimento; lo smonta per vedere come è fatto;
scarica la molla, e tutto il congegno ne stride
convulso", come stridono i personaggi sotto
l'occhio acuto dello scrittore; ed è sempre
attraverso la riflessione che i vari
elementi della struttura dell'opera vengono
coordinati, accostati e composti, sfuggendo al caos
delle sensazioni e dei sentimenti.
La riflessione, secondo Pirandello, non si
nasconde mai, né potrebbe essere mascherata o
eliminata del tutto dalla volontà o dalla
coscienza di un personaggio, come potrebbe
succedere con un sentimento; non è come lo
specchio, davanti al quale l'uomo si rimira, ma si
pone davanti a ciascuno come un giudice,
analizzando vicende e personaggi, con obiettività
e imparzialità, scomponendo l'immagine di tutte
le cose, le vicende e i personaggi stesi nelle
loro componenti: da questa scomposizione
nasce quello che Pirandello chiama avvertimento
del contrario.
Il compito dello scrittore umorista è quello di
smascherare tutte le vanità che possono albergare
nell'animo umano, la velleità d'aver scoperto i
fondamenti della vita e il dramma del rendersi
conto che quei fondamenti restano sconosciuti;
anzi, ognuno se ne crea seguendo non la via della riflessione,
ma quella del sentimento che viene provato
da ciascuno a suo modo, lontano da qualsiasi realtà
e da qualsiasi coscienza del vivere.
Con l'umorismo
nasce una nuova visione della vita, senza che si
crei un particolare contrasto tra l'ideale e la
realtà, proprio per la particolare attività
della riflessione, che "genera il sentimento
del contrario, il non saper più da qual parte
tenere, la perplessità, lo stato irresoluto della
coscienza".
Il sentimento del contrario distingue lo
scrittore umorista dal comico, dall'ironico, dal
satirico, perché assume un atteggiamento diverso
di fronte alla realtà:
-
-
nel comico
manca la riflessione, per cui il riso,
provocato dall'avvertimento del contrario, è
genuino, ma sarebbe amaro in presenza della
riflessione, perché questa toglierebbe il
divertimento e porterebbe alla coscienza del
dramma della condizione umana;
-
-
nell'ironico
la contraddizione tra momento comico e momento
drammatico è soltanto verbale: se fosse
effettiva non ci sarebbe più ironia e la
'battuta' perderebbe la sua naturalezza, che
è quella di dire l'opposto di quel che si
pensa e che si vuol far capire, ma facendo
intuire comunque la verità;
-
-
nel satirico
con la riflessione "cesserebbe lo sdegno
o, comunque, l'avversione della realtà che è
ragione di ogni satira"; la satira,
infatti, mette in evidenza i difetti degli
uomini, cogliendone gli aspetti più negativi
e turpi, con l'intento di riportare gli uomini
sulla retta via.
Con l'umorismo, e
quindi con la riflessione, si entra più
profondamente nella realtà:
Non
che all'umorista però piaccia la realtà!
Basterebbe questo soltanto, che per poco gli
piacesse, perché, esercitandosi la riflessione su
questo piacere, glielo guastasse.
Questa riflessione si insinua acuta e sottile da
per tutto e tutto scompone: ogni immagine del
sentimento, ogni finzione ideale, ogni apparenza
della realtà, ogni illusione.
... Tutti i fenomeni, o sono illusorii, o la
ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca
affatto alla nostra conoscenza del mondo e di noi
stessi quel valore obiettivo che comunemente
presumiamo di attribuirle. È una costruzione
illusoria continua.
In
questa nuova visione della realtà si verifica lo
scontro tra l'illusione, che costruisce a suo
modo, e la riflessione, che scompone una ad una
quelle costruzioni; ma gli effetti sono diversi
nei differenti approcci con la realtà:
Ora
la riflessione, sì, può scoprire tanto al comico
quanto all'umorista questa costruzione illusoria.
Ma il comico ne riderà solamente, contentandosi
di sgonfiar questa metafora di noi stessi messa sù
dall'illusione spontanea; il satirico se ne
sdegnerà; l'umorista, no: attraverso il ridicolo
di questa scoperta vedrà il lato serio e
doloroso; smonterà questa costruzione, ma non per
riderne solamente; e in luogo di sdegnarsene,
magari, ridendo, compatirà.
Ciascuno
vive la propria vicenda in una condizione di
distacco dagli altri personaggi, come in un
proprio mondo, tutti sottomessi alle medesime
regole, ma ciascuno coi propri sentimenti e con la
propria visione della vita, coi propri concetti di
vero e di falso, di reale e di normale, di bello e
di brutto, di giusto e di ingiusto: ciascuno con
le proprie speranze e le proprie illusioni, e
l'illusione più alta e profonda è che la propria
realtà sia quella vera e la sola vera.
Oggi
siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per
rappresentare la faccia del vivo. Un brutto naso?
Che peso doversi portare a spasso un brutto naso
per tutta la vita... Maschere, maschere... un
soffio e passano, per dar posto ad altri...
Ciascuno si racconcia la maschera come può. La
maschera esteriore, perché dentro poi c'è
l'altra, che spesso non si accorda con quella di
fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera
la montagna, vero il sasso, vero un filo d'erba;
ma l'uomo? Sempre mascherato, senza volerlo, senza
saperlo di quella tal cosa che egli in buona fede
si figura di essere: bello, buono, grazioso,
generoso, infelice, ecc. E questo fa tanto ridere
a pensarci.
Per
Pirandello le cause, nella vita, non sono mai così
logiche come lo possono essere nell'opera
narrativa o teatrale, in cui tutto è, in fondo,
congegnato, combinato, ordinato ai fini che lo
scrittore si è proposto, anche se sembra in
alcuni casi che il procedimento sia libero e
casuale. Perciò nell'umorismo
non possiamo parlare di coerenza, perché in ogni
personaggio ci sono tante anime in lotta fra loro,
che cercano di afferrare la realtà: l'anima
istintiva, l'anima morale, l'anima affettiva,
l'anima sociale, e i nostri atti prendono una forma,
i personaggi assumono una maschera,
la nostra coscienza si atteggia a seconda che
domini questa o quella, a seconda del momento; per
questo ciascuno di noi ritiene valida una
determinata interpretazione della realtà o dei
nostri atti e mai può essere totalmente d'accordo
con l'interpretazione degli altri, in quanto la
realtà e il nostro essere interiore non si
manifestano mai del tutto interi, ma ora in un
modo ora in un altro, }come volgono i casi della
vita~ .Pirandello guarda dentro la vicenda e i
personaggi, ed agisce come il bambino che rompe il
giocattolo per vedere come è fatto dentro. Nell'umorismo,
quindi, distingue un aspetto comico che
deriva dall'avvertimento del contrario e un
aspetto umoristico o drammatico che
deriva dal sentimento del contrario; il
primo è esterno all'uomo e facilmente visibile,
per cui ciascuno è capace di coglierlo; il
secondo è invece interno all'uomo, ma non può
essere colto se non attraverso la riflessione: riassumiamo
tutto nello schema 3, o schema
dell'umorismo:
avvertimento
del contrario
sentimento del
contrario
^
RIFLESSIONE
^
aspetto
comico
aspetto
drammatico
^
^
riso
pianto
^
^
avvenimento
avvenimento
|
(L'avvertimento
del contrario è generato dalla riflessione che
scaturisce dall'aspetto comico insito nei fatti,
come il sentimento del contrario è generato dalla
riflessione che scaturisce dall'aspetto drammatico)
È
da sottolineare, infine, che mentre tutti possono
percepire l'aspetto comico in quanto ognuno
può avvertire che una cosa avvenga o che un
personaggio si comporti in modo contrario a ciò
che tutti ritengono normale, il
drammatico-umoristico viene capito e sentito solo
da coloro che usano la riflessione,
e comunque non dalla massa in quanto questa segue
regole generali accettate supinamente e non i
singoli individuali bisogni; per Pirandello
ciascuno ha un proprio modo di attualizzare la riflessione,
perché i bisogni personali sono assolutamente
individuali.
Per questo motivo, la situazione di Belluca nella
novella Il treno ha fischiato è comica per
la massa che ride delle stramberie del
personaggio, che riscopre la vita dopo anni in cui
è vissuto come un vecchio somaro, ubbidiente e
sottomesso, preso in giro da tutti, e drammatica
per Pirandello che vede nella reazione di Belluca
e nelle sue 'stramberie' l'improvvisa ribellione
alla forma che uccide
la vita, alla maschera
imposta dagli altri e dal destino, e infine alla alienazione
nella quale lo costringono le norme e le forme
della società, per cui il nuovo modo di essere di
Belluca non può che apparire naturalissimo.
NORMALITA'
- ANORMALITA'
Da
quanto abbiamo detto a proposito dell'umorismo,
appare chiaro che, attraverso la riflessione,
giungiamo a cogliere l'aspetto normale o
anormale della vita e degli atteggiamenti dei
personaggi.
Generalmente, intendiamo per normalità,
secondo la massa, tutto ciò che viene
fatto e pensato in basi a leggi, norme e
consuetudini che l'uomo ha creato per regolare la
propria vita e soprattutto per perpetuare un
determinato stato di cose, una determinata
condizione sociale, economica, spirituale,
materiale, ecc. È, quindi, anormale,
sempre secondo la massa, tutto ciò che non
segue le regole prescritte.
Secondo Pirandello, è normale
non ciò che risponde alle norme, ma ciò che da
ciascuno viene fatto seguendo i propri intimi
bisogni, e sono questi bisogni che portano l'uomo
sulla via del progresso. Il personaggio tende a
ribellarsi quando si rende conto che l'osservanza
delle norme gli impedisce di vivere una vita
decorosa e di migliorare la propria condizione.
L’anormalità per Pirandello, è il seguire
ciecamente le norme anche quando queste
impediscono all'uomo di vivere,
permettendogli solo di esistere.
In generale il personaggio conduce una vita anormale
quando risulta totalmente asservito alle regole,
senza che nemmeno per un istante l'anima possa
soddisfare almeno il suo bisogno fondamentale:
quello di vivere senza essere sottomesso
passivamente alle regole fino a perdere ogni
dignità, fino a diventare un "vecchio
somaro" che gira la stanga della nòria d'un
vecchio mulino con tanto di paraocchi, senza
sentire che un po' più in là c'è la vita. La
reazione, scatenata da un accidente
qualsiasi, come il fischio del treno, lo strappo
di un filo d'erba, una frase ingenuamente
pronunciata, l'inciampare contro un sassolino per
strada, serve a portare l'individuo in una
dimensione più umana, perché libera da
condizionamenti esterni.
Il personaggio, come Enrico IV o Ciampa,
Belluca o Chiàrchiaro, nella sua ribellione
contro le regole rifiuta la realtà imposta
dalle norme, perché in essa ogni possibilità di
vita si cristallizza nella forma,
come vedremo più avanti.
La ribellione si realizza in due modi:
-
-
circoscritta
al personaggio senza coinvolgimento
diretto di altre persone se non in modo
occasionale, come il caso di Belluca ne Il
treno ha fischiato, nel quale la reazione
contro il capufficio rappresenta la reazione
contro la situazione generale negativa;
-
-
coinvolgendo
direttamente la massa, come nella
novella La patente, nella quale Chiàrchiaro,
ritenuto da tutti uno jettatore, perde il
lavoro e la possibilità di vivere una vita
decorosamente accettabile, spingendo la
propria ribellione fino a sfruttare la stessa
superstizione popolare che lo ha costretto
all'isolamento.
Per
capire l'opera pirandelliana, e il fondamento
stesso della vita sociale della prima metà del
Novecento, bisogna, quindi, ribaltare il concetto
di normalità-anormalità,
nel quale la normalità
pirandelliana non è solo il banale rifiuto
della norma, ma il suo superamento, che ha come
obiettivo i grandi valori umani, che sono i veri
bisogni da soddisfare.
REALTA'
- NON REALTA'
Anche
in questo caso abbiamo due distinte dimensioni,
perché ciascuno vede la realtà secondo le
proprie idee e i propri sentimenti, in un modo
diverso da quello degli altri: a fronte della
realtà esterna che si presenta una e
immutabile, abbiamo le centomila realtà
interne di ciascun personaggio, per cui la vera
realtà è nessuna. I due aspetti sono:
-
la
dimensione della realtà oggettuale,
che è esterna agli individui e che
apparentemente è uguale e valida per tutti,
perché presenta per ognuno le stesse
caratteristiche fisiche ed è la non-realtà
inafferrabile e non riconoscibile: ciò che
resta nell'anima dell'individuo è la sua
disintegrazione in tante piccole parti quante
sono le possibilità concrete dell'individuo
di vederla;
-
la
dimensione della realtà soggettuale,
che è la particolare visione che ne ha il
personaggio, dipendente dalle condizioni sia
individuali che sociali, ed abbiamo tante
dimensioni quanti sono gli individui e quanti
sono i momenti della vita dell'individuo.
Della
realtà oggettuale
esterna, così fissa ed immutabile, noi non
cogliamo che quegli aspetti che sono maggiormente
confacenti a una delle nostre anime (vedi il
concetto di umorismo), al particolare momento che
stiamo vivendo, in base al quale riceviamo dalla
realtà certe impressioni, certe sensazioni che
sono assolutamente individuali e non possono
essere provate da tutti gli altri individui.
Per i personaggi pirandelliani non esiste, quindi,
una realtà oggettuale,
ma una realtà soggettuale,
che, a contatto con la realtà degli altri, si
disintegra e si disumanizza, come avviene per
Moscarda, il protagonista del romanzo Uno
nessuno centomila, che scopre all'improvviso
di non essere più quello che credeva dal momento
in cui la moglie Dida gli dice che ha il naso che
pende verso destra: un banale accidente che
lo porterà a capire che gli altri lo vedono
in un modo diverso da come lui si era sempre
visto. Avremo, quindi:
-
come
la realtà è vista dal personaggio;
-
come
la realtà esterna si impone al personaggio;
-
come
il personaggio crede che gli altri vedano la
realtà.
Questa
triplice concezione della realtà porta Pirandello
al di là della concezione umoristica, nella quale
la riflessione tende a far scoprire il contrasto
fra l'illusione comica del personaggio che si crea
una realtà sua che crede uguale per tutti e
l'esistenza di un dramma esistenziale nel quale
ogni personaggio si rende conto che le realtà
sono CENTOMILA e
tutte ugualmente lontane dalla propria coscienza,
e perciò inconoscibili.
IL
CONCETTO DI REALTA' DAL VERISMO AL DECADENTISMO
Il
dramma rappresentato da Pirandello rimane sempre
quello della realtà: erede di Capuana e Verga,
egli parte dalle ragioni profonde del verismo e
del naturalismo, nelle quali gli scrittori
credevano di aver trovato una dimensione
oggettuale assoluta del personaggio valida per
tutti e indiscutibile.
Anche i personaggi pirandelliani sono tratti dalla
quotidianità esistenziale e in una forma o
nell'altra si realizzano come esseri viventi, o
esistenti, ma essi non sono soltanto persone: sono
personaggi che esprimono una profonda
conflittualità morale e spirituale, oltre che
sociale, nella quale scompaiono tutte le certezze
che hanno caratterizzato i veristi e nella quale
si dibattono lottando per cercare una soluzione a
loro modo definitiva. Nel conflitto tra l'essere
secondo i propri bisogni e l'esistere
secondo la forma che
viene data al personaggio dagli altri, il fenomeno
della realtà oggettuale
e concreta resta una chimera irraggiungibile e
sfugge ad ogni presa: questo conflitto e la
impossibilità di raggiungere la realtà è il
fondamento del dramma dei personaggi nell'opera
pirandelliana e dell'uomo del Novecento.
Per
Pirandello la condizione umana è tutta contratta
in un'atroce alternativa:
-
- o si è trascinati dagli avvenimenti
dell'esistenza, inafferrabile, precipitosa,
sorprendente e mutevole, che con moto perpetuo
mira a disfare le forme dell'essere e a
cancellare dai volti perfino l'impressione
lasciata talvolta dal dolore,
-
-
o si rimane bloccati nel circolo chiuso della
propria coscienza, che vincola ciascuno ad un
istante del tempo infinito, ad una passione,
ad un evento fra i tanti possibili,
confinandolo in una solitudine dalla quale è
impossibile uscire.
Tutta
l'esistenza si fonda sul dilemma: o
la realtà ti disperde e disintegra, o ti vincola
e ti incatena fino a soffocarti.
Ciascun personaggio può conoscere soltanto quella
particella di realtà alla quale riesce a dare una
forma, per cui ognuno potrà riconoscersi nella forma
che si dà e mai nella forma
che gli viene data:
La
realtà che io ho per voi è nella forma che voi
mi date; ma è realtà per voi e non per me; la
realtà che voi avete per me è nella forma che io
vi do, ma è realtà per me e non per voi; e per
me stesso io non ho altra realtà se non quella
forma che riesco a darmi. E come? ma costruendomi,
appunto.
L'unica
realtà valida e possibile è, dunque, quella che
ciascun personaggio riesce a costruirsi, dando
alle cose una forma che è valida solo per lui e
che resterà in piedi fino a quando dureranno la
perseveranza e la forza di volontà di continuare,
oltre la costanza dei sentimenti: basta che queste
caratteristiche vacillino un po', e subito le
belle costruzioni cominciano a sgretolarsi.
IL
PERSONAGGIO PIRANDELLIANO
Occorre
innanzitutto fare una distinzione fra persona
e personaggio.
-
-
La persona è
l'individuo libero, non ancora sottoposto
alle norme di qualsiasi provenienza esse
siano; vede la realtà in maniera oggettiva e
fonda la propria vita sulla convinzione, o
perlomeno sull'opinione, che la realtà stessa
venga vista e sentita allo stesso modo anche
dagli altri. La persona,
libera ed informe, può assumere una forma,
costretta dall'esterno o spinta da un
impellente bisogno interno. Una caduta da
cavallo provocata da un rivale (costrizione
esterna) fa assumere a una persona, senza nome
nella realtà, la figura di Enrico IV, ch'essa
stava accidentalmente rappresentando durante
una festa carnevalesca in costume medievale;
una volta guarita, rendendosi conto della
realtà e del comportamento di coloro che
aveva ritenuto amici e che avevano agito e
tramato contro di lui, assume definitivamente
e volontariamente la figura di Enrico IV
(bisogno interno), non tanto per sfuggire alle
norme e alla comune giustizia (dopo aver
smascherato e ucciso Belcredi, suo rivale in
amore ma anche amico di gioventù e di
bagordi), quanto per vivere un'esistenza
finalmente in linea con i bisogni del suo
spirito, dopo il riconoscimento del fallimento
e del tramonto stesso della sua esistenza.
-
-
Il personaggio,
invece, nella vita come nella fantasia creatrice
dello scrittore, è l'individuo fissato in
una forma,
che compie sempre gli stessi gesti per
l'eternità o finché non entra in un'altra forma.
Il personaggio,
sottoposto a norme fisse ed inderogabili,
porta una tragica maschera,
recita sempre le stesse battute, portando un
mondo di sentimenti che gli altri non avranno
mai la forza di penetrare e di rivelare: sono
i personaggi vivi
della fantasia creatrice. Sulla
creazione del personaggio,
così dice il dott. Fileno al Pirandello nella
novella La tragedia di un personaggio:
Nessuno
può sapere meglio di lei che noi siamo esseri
vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono
panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce
alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa
bene che la natura si serve dello strumento della
fantasia umana per proseguire la sua opera di
creazione. E chi nasce mercé di quest'attività
che ha sede nello spirito dell'uomo, è ordinato
da natura a una vita di gran lunga superiore a
quella di chi nasce dal grembo mortale d'una
donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di
nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche
della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo
scrittore, strumento naturale della creazione; la
creatura non muore più. E per vivere eterna non
ha mica bisogno di straordinarie doti o di
compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza!
Mi dica lei chi era don Abbondio! eppure vivono
eterni, perché - nati vivi germi - ebbero la
ventura di trovare una matrice feconda, una
fantasia che li seppe allevare e nutrire per
l'eternità.
Dal
discorso di Fileno possiamo capire due cose:
-
-
la vera forma
dell'esistenza è quella del personaggio,
anche se nell'opera pirandelliana abbiamo un
fluire continuo dalla persona al personaggio e
viceversa. Tipico esempio è il dramma Sei
personaggi in cerca d'autore, nel quale
troviamo la netta distinzione tra i sei
personaggi e gli attori, persone che non sono
ancora entrati nella parte, che nulla
rappresentano e che, soprattutto, non hanno
alcuna forma. In generale possiamo affermare,
anche se un po' schematicamente, che
nell'opera pirandelliana a una prima parte in
cui vediamo agire individui che sono ancora
persone, corrisponde una seconda parte, in cui
le persone assumono tutte le caratteristiche
dei personaggi;
-
-
La fantasia creatrice dello scrittore domina
sui personaggi, e non viceversa, come la
natura domina sugli esseri umani e crea uomini
e cose. Per questo molti critici hanno parlato
di una ostilità di Pirandello nei
confronti dei suoi personaggi, come se questi
gli scatenassero dentro un senso di
ripugnanza, perché visti nelle loro miserie e
debolezze.
Il
contrasto fra Pirandello e i suoi personaggi nasce
dalla volontà dello scrittore di mettere a nudo
l'anima dei personaggi, di scomporne l'apparente
impassibilità e indifferenza di fronte ai casi
della vita e di capirne l'intima composizione per
metterne in mostra la loro vera forma
che si concretizzerà una volta per tutte. Ed è
contro questo atteggiamento dell'artista che i
personaggi tendono a ribellarsi, a mostrarsi
insofferenti, per impedire la spietata analisi che
inevitabilmente ne metterà a nudo miserie e
grandezze, ma anche per essere descritti così
come essi si sentono e sono veramente dentro.
L'uomo
non ha della vita un'idea, una nozione assoluta,
bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i
tempi, i casi la fortuna. Ora la logica, astraendo
dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare
quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare
un valore assoluto a ciò che è relativo. E
aggrava un male già grave per se stesso. Perché
la prima radice del nostro male è appunto in
questo sentimento che noi abbiamo della vita.
(154)
Pirandello
ha colto questa illusione e la mette a nudo,
scatenando non di rado vive reazioni nei suoi
personaggi e nei suoi lettori, che in alcuni casi
diventeranno aperta contestazione durante le
rappresentazioni teatrali.
RAPPORTI
TRA PERSONAGGI
Il
personaggio non ha nessun'àncora di salvezza,
nessuno scoglio cui aggrapparsi per mutare la
propria maschera o
per andare oltre i limiti imposti dalla fantasia
creatrice dello scrittore: non ha nessuna
possibilità di instaurare rapporti umani con gli
altri personaggi, perché ciascuno è obbligato a
recitare la sua parte indefinitamente e
indipendentemente da quella rappresentata dagli
altri: deve accontentarsi, rassegnarsi a
recitare la propria parte e capire che solo nella
rappresentazione della propria parte può
diventare personaggio vivo.
Proprio sul piano di questo rapporto si verifica
la disintegrazione fisica e spirituale dei
personaggi che possiamo riassumere in tre punti
essenziali che sono la teoria
della triplicità esistenziale:
-
-
come il personaggio vede se stesso;
-
-
come il personaggio è visto dagli altri;
-
-
come il
personaggio crede di essere visto dagli altri.
Le
conseguenze della triplicità
sono tre:
-
-
il
personaggio è uno quando viene messa
in evidenza la realtà-forma che lui si
dà;
-
-
è
centomila quando
viene messa in evidenza la realtà-forma
che gli altri gli danno;
-
-
è
nessuno quando
si accorge che ciò che lui pensa e ciò che
gli altri pensano non è la stessa cosa,
quando la propria realtà-forma
non è valida sia per sé che per gli altri,
ma assume una dimensione per sé e un'altra
per ciascuno degli altri.
La
triplicità è un
elemento tecnico che serve al Pirandello per
esaminare come i personaggi sono fatti veramente
dentro e capire come essi si vedono.
} UNO-CENTOMILA-NESSUNO~
sono le tre dimensioni dell'essere e della realtà
del personaggio, nelle quali possiamo trovare
l'origine dell'alienazione e della forma:
-
-
abbiamo
l'alienazione quando la dimensione
UNO lascia il
posto alla dimensione NESSUNO,
e il personaggio si rende conto di dover
vivere non per come si crede di essere ma per
come gli altri credono che lui sia;
-
-
abbiamo la forma
quando la dimensione UNO
si concretizza in una delle CENTOMILA
dimensioni che gli altri danno al
personaggio.
La
conseguenza della disintegrazione del personaggio
nelle tre dimensioni è la profonda coscienza nel
personaggio sia di non poter conoscere se stesso e
gli altri, sia di non poter superare la condizione
di solitudine, determinata dall'evidente
impossibilità di comunicazione, in quanto ognuno
possiede non solo UNA
ma CENTOMILA
dimensioni, non solo UNA
ma CENTOMILA forme,
nelle quali realizzare il gioco delle parti.
La molteplicità delle condizioni esistenziali
si presenta al personaggio come una drammatica
scoperta, nella quale tutto diventa inutile, perché
il personaggio non è più UNO,
ma tanti quanti sono quelli che lo vedono,
addirittura tanti quanti sono gli stati d'animo di
coloro che lo vedono, lo conoscono o credono di
conoscerlo; ed è anche NESSUNO,
perché nessuna di quelle forme che gli altri gli
danno corrisponde a quellla che lui si dà. E il
dramma diventa ancor più profondo quando ci si
rende conto che ciascuna di quelle forme è come
un'ombra estranea, e come le ombre provengono dal
corpo ma non sono il corpo, così le forme ci
fanno vedere il personaggio ma non sono il
personaggio stesso.
I
PERSONAGGI E LA FORMA
La
forma è la maschera,
l'aspetto esteriore che l'individuo-persona
assume all'interno dell'organizzazione sociale per
propria volontà (come Enrico IV nell'epilogo del
dramma) o perché gli altri così lo vedono e lo
giudicano: è nella forma
che l'individuo-persona diventa personaggio.
La forma è
determinata dalle convenzioni sociali, dalla
ipocrisia, che è alla base dei rapporti umani,
regolati più dall'egoistica valutazione di
vantaggi e svantaggi o da meschine preoccupazioni
per i propri interessi, che da un vero
attaccamento ai grandi valore. L'illusione nella
quale vivono i personaggi viene scoperta e messa a
nudo attraverso una riflessione
che scompone ogni cosa fin nei suoi aspetti più
nascosti e che i personaggi stessi non oserebbero
confessare.
Più rigida è la forma-maschera,
più l'uomo si allontana dalla verità, dalla
realtà, dalla normalità. Esiste una forma,
nella tematica pirandelliana, che
-
-
l'individuo-personaggio dà a se
stesso;
-
-
gli altri danno all'individuo-personaggio;
-
-
l'individuo-personaggio crede che gli
altri gli diano;
-
-
gli altri danno all'individuo-personaggio
-
-
ciascuno individuo e ciascun personaggio crede
di darsi nei rapporti con gli altri.
È
questo il ragionamento di Moscarda in Uno
nessuno centomila:
In
astratto non si è. Bisogna che s'intrappoli
l'essere in una forma, e per alcun tempo si
finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni
cosa, finché dura, porta con sé la pena della
sua forma, la pena d'essere così, e di non poter
più essere altrimenti...
E come le forme gli atti.
Quando
un atto è compiuto, è quello; non si cangia più.
Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che
poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò
che ha fatto resta: come una prigione per lui. Se
avete preso moglie, o anche materialmente, se
avete rubato e siete stato scoperto; se avete
ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le
conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra,
attorno, come un'aria densa, irrespirabile, la
responsabilità che per quelle azioni e le
conseguenze di esse, non volute o non previste, vi
siete assunta.
Quando
il personaggio scopre
di essere calato in una forma
determinata da un atto accaduto una sola volta e
di essere riconosciuto attraverso quell'atto e
identificato in esso, come può essere
identificato in centomila altri atti diversi ma
tutti ugualmente soffocanti, cade in una
condizione angosciosa senza fine, perché si rende
conto che
-
-
la realtà di un momento è destinata a
cambiare nel momento successivo,
-
-
la realtà è un'illusione perché non
si identifica in nessuna delle forme che gli
altri gli hanno dato.
Accanto
alle centomila forme,
che cambiano in continuazione, a seconda delle
circostanze nelle quali agisce, esiste una forma
che incatena il personaggio per tutta la vita
determinandone gli atti: una forma
che non cambia mai se non quando scompare il
personaggio stesso.
È quanto accade, ad esempio, nella novella La
carriola al personaggio principale, del quale
l'autore non ci dice nemmeno il nome, perché
potrebbe essere chiunque, caratterizzato soltanto
dai suoi titoli onorifici, scientifici e
professionali. Un giorno, mentre torna a casa in
treno, stanco e un po' annoiato, si appisola e
comincia a sentire piano piano che gli è estraneo
tutto ciò che fino a quel momento ha vissuto,
tutto ciò che ha creato e gli altri hanno creato
per lui sulla base delle convenzioni che legano i
rapporti sociali.
Scopre all'improvviso di non aver mai vissuto per
sé e di non poter riconoscere come sua quella
vita; il suo spirito non si ritrova più in colui
che tutti ricercano, rispettano, ammirano,
"di cui tutti volevan l'opera, il consiglio,
l'assistenza, senza mai dargli un momento di
requie". Scopre, insomma, la forma,
quel modo di vivere che si era trascinato dietro
fino a quel momento senza saperlo, subendolo come
una cosa morta.
Perché
ogni cosa è una morte.
Pochissimi
lo sanno; i più, quasi tutti lottano,
s'affaticano per farsi, come dicono, uno stato,
per raggiungere una forma; raggiuntala
credono d'aver conquistato la loro vita, e
cominciato invece a morire. Non lo sanno, perché
non si vedono; perché non riescono a staccarsi più
da quella forma moribonda che hanno
raggiunta; non si conoscono per morti e credono
d'essere vivi. Solo si conosce chi riesca a veder
la forma che si è data o che gli altri gli hanno
data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui
ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma,
è segno che la nostra vita non è più in essa...
Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò
che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Quando
si conosce il personaggio si sente soffocato e
schiacciato dalla forma,
da questo modo di essere che noi chiamiamo vita e
che, invece, rappresenta la morte.
FORMA
UGUALE MASCHERA
Abbiamo
già detto che i concetti di forma
nelle novelle e nei romanzi e di maschera
nella produzione teatrale sono equivalenti.
È nella maschera che
ritroviamo un contrasto più profondo fra illusione
e realtà, fra l'illusione che la propria
realtà sia uguale per tutti e la realtà che si
vive in una forma,
dalla quale il personaggio
non potrà mai salvarsi.
La maschera è la
rappresentazione più evidente della condanna
dell'individuo a recitare sempre la stessa parte,
imposta dall'esterno, sulla base di convenzioni
che reggono l'esistenza della massa.
Nella società l'unico modo per evitare
l'isolamento è il mantenimento della maschera:
quando un personaggio cerca di rompere la
forma, o quando ha capito il gioco,
inevitabilmente viene allontanato, rifiutato, non
può più trovare posto nella massa in quanto si
porrebbe come elemento di disturbo in seno a quel
vivere apparentemente rispettabile, in quanto
sottomesso alle norme, ma fondamentalmente
condannabile, in quanto affossatore dei bisogni
basilari dell'uomo.
La maschera, comunque non può essere presa come
un elemento negativo in modo assoluto, perché
come rileva anche C. Alvaro, sotto di essa il
personaggio cerca di } riguadagnare il senso vero
della personalità umana, e qualcosa che supera la
stessa personalità e volontà dell'uomo.
La maschera è il
simbolo, in negativo del rifiuto delle
false convenzioni sociali, dello sfruttamento dei
pochi sulle masse e della schiavitù dell'uomo
sottomesso a norme che lo costringono a
un'esistenza disumanizzata; in positivo del
tentativo di un ritorno alla verità,
riconquistata dopo averla sezionata nelle sue
mille sfaccettature e nelle mille impressioni che
da essa ciascuno riceve. Sotto la maschera
l'uomo si rivolta, come Enrico IV, come tutti i
personaggi che, sfuggendo alle norme, vogliono
riconquistare un proprio spazio vitale e un valore
morale dei sentimenti.
LA
FORMA E L'ACCIDENTE
Sia
nella struttura dell'opera teatrale che in quella
narrativa, troviamo spesso un elemento tecnico di
grande importanza che tende a rompere la forma.
La rottura della forma,
se da un lato ridona nuova vita al personaggio,
dall'altro provoca la perdita di quella
rispettabilità di cui aveva goduto fino a quel
momento agli occhi della massa che compone il
mondo variopinto e indistinto delle persone
che credono di vivere e invece non sanno che
anch'esse recitano una parte.
Nella novella Il treno ha fischiato
Pirandello rappresenta con chiarezza entrambi i
concetti:
forma
Circoscritto...
sì; chi l'aveva definito così? Uno dei suoi
compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca,
entro i limiti angustissimi della sua arida
mansione di computista, senz'altra memoria che non
fosse di partite aperte, di partite semplici o
doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e
impostazioni... casellario ambulante: o piuttosto
vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre
d'un passo, sempre per la stessa strada la
carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene,
cento volte questo vecchio somaro era stato
frustato, fustigato senza pietà, così per
ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a
farlo imbizzire un po', a fargli almeno, almeno
drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a
dar segno che volesse levare un piede per sparar
qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate
ingiuste e le crudeli punture in santa pace,
sempre, senza neppur fiatare, come se gli
toccassero, o meglio, come se non le sentisse più,
avvezzo com'era da anni e anni alle continue e
solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile,
dunque, veramente, quella ribellione in lui, se
non come effetto d'un'improvvisa alienazione
mentale.
accidente
Cammin
facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato
ricoverato seguitai a riflettere per conto mio:
-
A un che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè
con una vita 'impossibile', la cosa più ovvia,
l'incidente più comune, un qualunque lievissimo
inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per
via, possono produrre effetti straordinarii,
di cui nessuno si può dar la spiegazione se non
pensa appunto che la vita di quell'uomo è 'impossibile'.
Bisogna condurre la spiegazione là,
riattaccandola a quelle condizioni di vita
impossibili, ed essa apparirà allora semplice e
chiara.
Nella
poetica pirandelliana l'accidente
serve a distruggere la forma,
che fa esistere il personaggio nell'alienazione e
a fargli riscoprire l'originaria personalità
repressa.
L'accidente è usato
soprattutto nella novella a struttura
binaria aperta,
e serve a ristabilire, secondo norme di giustizia
derivanti dalla Natura, quell'equilibrio
spirituale nell'uomo e nell'organizzazione sociale
e statuale, che è stata messa in crisi da
un'errata valutazione delle qualità umane.
L'elemento dell'accidente
è rappresentato da qualsiasi cosa: il fischio
d'un treno; un sasso urtato per via, che
all'improvviso si trasforma in un mondo pieno di
vita e di creatività; la frase di una donna (come
nel romanzo Uno nessuno centomila, la
rivelazione del naso che pende verso destra fatta
a Moscarda dalla moglie Dida); lo strappo di un
filo d'erba nella novella Canta l'epistola:
Ora,
da circa un mese egli aveva seguito giorno per
giorno la breve storia d'un filo d'erba, appunto:
d'un filo d'erba tra due grigi macigni tigrati di
musco, dietro la chiesetta abbandonata di Santa
Maria di Loreto.
Lo
aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel
crescer lento tra altri più bassi che gli stavano
attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima
timido, nella sua tremula esilità, oltre i due
macigni ingrommati, quasi avesse paura e insieme
curiosità d'ammirar lo spettacolo che si
spalancava sotto, della verde, sconfinata pianura;
poi, su, su, sempre più alto, ardito, baldanzoso,
con un pennacchietto rossigno in cima, come una
cresta di galletto.
E
ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e
vivendone la vita, aveva con esso tentennato a
ogni più lieve alito d'aria; trepidando era
accorso in qualche giorno di forte vento, o per
paura di non arrivare a tempo a proteggerlo da una
greggiola di capre...
Ebbene,
quel giorno venendo alla solita ora per vivere
un'ora con quel suo filo d'erba, quand'era già a
pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro a
questa, seduta su uno di quei due macigni, la
signorina Olga Fanelli... La signorina era sorta
in piedi, forse seccata di vedersi spiata da lui:
s'era guardata un po' attorno: poi,
distrattamente, allungando la mano, aveva
strappato giusto quel filo d'erba e se l'era messo
tra i denti col pennacchietto ciondolante.
Tommasino
Unzio s'era sentito strappar l'anima e
irresistibilmente le aveva gridato: - Stupida! -.
L'accidente
serve a portare l'individuo-personaggio alla
scoperta dell'originario se stesso e trasforma il personaggio
circoscritto nella forma in persona libera
che la massa non può più comprendere né
accogliere, perché questa crea una propria
mutevole condizione di vita, mutevole come l'aria,
il vento: tutto ciò che non si rapprende o assume
forma, libera da ogni aspetto di quell'alienazione
che abbrutisce.
FOLLIA
E ALIENAZIONE
Ogni
personaggio ha una sua realtà dipendente
fondamentalmente da tre fattori:
-
-
tempo,
-
-
ambiente geografico,
-
-
rapporto con gli altri personaggi, coi quali
si crea spesso un insanabile contrasto.
La
forma rappresenta la
realtà fissata per sempre, tanto che quando
interviene l'accidente
che libera il personaggio, tutti pensano che la
diversità di comportamento sia dovuta
all'improvvisa alienazione mentale del
personaggio, a una sua forma di follia che scatena
in tutti il riso, perché non è comprensibile da
parte della massa.
La follia, o alienazione mentale, è la condizione
nella quale i fatti commessi sono caratterizzati
dalla a-normalità,
dall'uscire dalle norme che regolano i
comportamenti della massa.
Solo la follia o la a-normalità
assoluta, e incomprensibile per la massa,
permette al personaggio il contatto vero con la
natura, (quel mondo esterno alle vicende umane nel
quale si può trovare la pace dello spirito) e la
possibilità di scoprire che rifiutando il mondo
si può scoprire se stessi. Ma questi contatti
sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili
perché troppo forte il legame con le norme della
società.
Così accade a Belluca, quando si ribella al
capufficio in modo tanto furioso, pronunciando
parole sconnesse, poetiche e incomprensibili, da
essere portato all'ospizio per i matti.
Così accade a Enrico IV, un nobile del primo
Novecento fissato per sempre nella
rappresentazione del personaggio storico da cui
prende il nome, dopo aver battuto la testa per una
caduta da cavallo. In Enrico IV troviamo
l'esasperazione del conflitto fra apparenza e
realtà, fra normalità
e a-normalità, fra
il personaggio e la massa, fra l'interiorità e
l'esteriorità. Per superare questo conflitto il
personaggio tende sempre più a chiudersi in se
stesso, per cui la anormalità diventa sistema di
vita.
Enrico IV è il personaggio più disperato e
tragico di Pirandello, e racchiude i temi di una
poetica e di una visione della vita che porta
all'isolamento e alla disgregazione, alla rottura
drammatica e totale non solo con la storia
contemporanea e con la cronaca quotidiana, ma
anche con la realtà del passato e con l'illusione
del futuro. È il personaggio-maschera
che personifica la scoperta del grigiore e
dell'invecchiamento delle cose e dell'uomo,
insieme alla coscienza dell'irrecuperabilità del
tempo passato, che non può più ritornare neppure
nello spazio riservato alla fantasia, perché la
vigile e riflessiva ragione avverte che le cose
mutano e non ritornano mai ad essere le stesse di
una volta.
La guarigione di Enrico IV dalla pazzia,
improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il
personaggio nelle vicende quotidiane, ma lo rende
anche consapevole di non poter più recuperare i
12 anni vissuti 'fuori di mente', per cui non gli
resta che fingersi ancora pazzo dopo aver
constatato che nulla era rimasto ormai della sua
gioventù, del suo amore, e che molti lo avevano
tradito.
È in questa consapevolezza che la persona
diventa personaggio e
prende definitivamente le sembianze di Enrico IV,
assumendo una forma immutabile agli occhi di
tutti, ma non di se stesso, rifugiandosi nel già
vissuto, dove ogni effetto obbediente la sua
causa, con perfetta logica, nella quale ogni
avvenimento si svolge 'preciso e coerente' in ogni
suo particolare, proprio perché, essendo già
vissuto, non può più mutare.
Ogni
uomo nasce dotato di una personalità che la
Natura gli ha dato:
-
-
è normale quando questa personalità
si sviluppa secondo le norme della Natura
stessa;
-
-
è a-normale, invece, quando,
attraverso le norme sociali, l'uomo non
sviluppa più la sua originaria personalità,
ma ne acquista un'altra, secondo le norme che
la società si è imposta per sopravvivere.
L'alienazione,
quindi, è composta da una personalità espressa
non secondo natura, ma secondo le regole della
società, e può essere identificata con la maschera-forma,
l'esistenza nelle centomila forme che si creano
nel corso dell'esistenza; l'accidente,
distruggendo la maschera-forma,
distrugge l'alienazione,
riportando il personaggio alla sua condizione
originaria, ma impedisce alla massa di capire il
personaggio e le fa pensare che questi è uscito
di senno.
D'altra parte, proprio nell'alienazione,
come nel caso di Belluca, e in quello più tragico
di Enrico IV, il personaggio riesce a risolvere la
condizione esistenziale, mentre la riflessione
serve per mettere a nudo le contraddizioni del
mondo nel quale si trova a vivere, a mettere in
risalto quel senso di solitudine che un mondo
fatto di finzioni, e ormai anche di macchine,
porta con sé.
Alienazione, quindi, non tanto come elemento
negativo, ma come elemento fondamentale della
condizione umana, nella quale, appunto stemperare
la propria angoscia e il proprio dramma. Per
questo, Pirandello cerca nella propria opera il
continuo contatto con i lettori, e approda al
teatro come definitiva ricerca del dialogo con gli
spettatori, un dialogo senz'altro più immediato e
caldo di quello che si può realizzare con i
lettori, coi quali il contatto è più artificioso
ed incontrollabile, anche perché mentre il
lettore si può rifiutare di continuare a leggere,
chiudendo il libro, lo spettatore è costretto a
restare seduto sulla propria poltrona fino alla
fine della rappresentazione, se non altro per
educazione verso gli altri spettatori.
Ma proprio in questo contatto, l'autore scopre
l'ennesima e più grande delusione, perché l'atto
della parola diventa solo una forma di confessione
e di espiazione dei propri errori. I drammi si
compiono parlando, ma l'intima essenza di ciascuno
rimane sepolta nella coscienza e nella
consapevolezza di una incomunicabilità di natura
esistenziale per la quale egli non sa né può
trovare una soluzione che dia alla sua arte il
carattere di compiutezza e di definitiva
riabilitazione dell'uomo, al di là di un profondo
senso di condanna.
Alienazione, quindi, come soluzione estrema e follia
come estremo rifugio, per potersi salvare dal
dramma dell'esistenza.
LIVELLO
LINGUISTICO
Pirandello distingue:
-
-
uno stile di cose,
-
-
uno stile di parole.
Importante
è lo stile di cose
col quale si dà la preminenza ai fatti e ai
personaggi da rappresentare: le parole di per sé
sono vuote, sono come abiti appesi nel guardaroba
che non hanno sostanza né importanza, se non
quando noi li abbiamo indossati. Sono fantasmi
senza concretezza né realtà, che acquistano un
significato solo quando siamo noi a darglielo.
Così scrive l'autore in Uno nessuno centomila:
Io
posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci
credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di
metterci d'accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo
intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
- Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto
così e così?
Così e così, perfettamente. Ma il guajo è che
voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai
comunicare come si traduca in me quello che voi mi
dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato,
io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma
che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé,
sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del
senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle,
inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo
creduto di intenderci; non ci siamo intesi
affatto.
L'impossibilità
di trovare una parola che abbia per tutti il
medesimo significato insieme a una realtà che sia
valida e uguale per tutti, senza possibilità di
incomprensioni presenti o future con il
sopraggiungere della riflessione, crea una
situazione di solitudine e di incomunicabilità
per cui ogni personaggio è irrimediabilmente
solo: la parola, come il gesto, diventa priva di
significato universale, perché ognuno le dà il
suo significato.
Di qui la necessità di trovare e di mettere in
atto uno stile di cose, in cui le parole
possano acquistare un più realistico ed oggettivo
significato proprio attraverso oggetti,
sentimenti, pensieri facilmente riconoscibili da
parte di tutti.
Anche la creazione del personaggio, come l'analisi
dei fatti, non sfugge a questa regola. Il
comportamento dei personaggi, l'assurdità e il
grottesco di certi avvenimenti, dipendono
dall'interpretazione che i personaggi hanno della
realtà delle cose.
Uno stile fatto di cose significa:
-
-
rifiuto dei tradizionali modelli espressivi
retorici,
-
-
rifiuto del modello verista, secondo il quale
dovevano essere i fatti a presentarsi da sé,
utilizzando un linguaggio che doveva essere
quello usato nella realtà dai protagonisti, a
seconda della classe sociale cui appartenevano
(anche con forme dialettali, proverbi, ecc.).
Per
far raggiungere con maggiore immediatezza al
lettore la comprensione di certe situazioni,
Pirandello accentua nella descrizione i lati
grotteschi:
-
di
certe azioni, come quella del personaggio de La
carriola che nel chiuso del suo studio fa
camminare il suo cane sulle zampe anteriori
sollevandogli quelle posteriori: facendogli
fare la carriola,
-
di
certe situazioni (come quella di Belluca ne Il
treno ha fischiato, che vive con due
cieche, due figlie vedove con sette figli
scatenati in una casa troppo angusta per
l'eccessivo numero degli occupanti),
-
di
certi personaggi, che si impongono con la loro
bruttezza quasi bestiale, come Matteo Falcone
del romanzo L'esclusa.
È
un grottesco che richiama alla memoria una certa
forma di verismo, con la differenza che mentre nel
verismo si mettevano in evidenza gli aspetti
esteriori, che avrebbero potuto essere migliori in
presenza di una migliore condizione sociale, nella
quale sparisce qualsiasi forma di bestialità,
Pirandello mette in evidenza gli aspetti interiori
e le tragiche conseguenze derivate dalle piccole
cause.
Proprio attraverso la parola i personaggi cercano
di uscire dal doloroso isolamento nel quale sono
costretti dall'impossibilità di capire e capirsi.
Per questo il dialogo
diventa la forma espressiva più importante,
ponendo in secondo piano la forma descrittiva e
rappresentativa, anche se si svolge con molte
difficoltà, sia perché, come abbiamo visto, alle
parole ciascuno dà un suo significato, sia perché
nel dialogo ognuno
cerca di nascondere i moti più nascosti del
proprio animo, le sensazioni che non si ha il
coraggio di confessare nemmeno a se stessi.
Attraverso il dialogo
i personaggi possono analizzare se stessi e capire
gli altri, anche se questo porta a soluzioni non
sempre accettabili e a capire situazioni intime
che sarebbe stato meglio non capire.
In molte novelle prevale una sorta di monologo
del personaggio, che espone le sue idee con un linguaggio
discorsivo che monopolizza l'attenzione
generale, cercando di coinvolgere anche il
pubblico, e quindi i lettori, ai quali si rivolge
direttamente, senza, però, aprire con essi un
vero dialogo.
Per evitare che i personaggi cadano nel vicolo
cieco dell'incomunicabilità, Pirandello inventa
tecnicamente la figura del personaggio al di
fuori dell'azione che introduce la riflessione
e crea un contatto tra i personaggi
e i lettori, tra gli attori e il pubblico
spettatore, per far diventare tutti partecipi e
protagonisti dello stesso dramma, in quanto tutti
vivono la stessa situazione di solitudine.
La
riflessione serve al personaggio-fuori-azione,
che spesso è lo stesso Pirandello, a mettere a
nudo le contraddizioni del mondo nel quale vivono
i protagonisti dell'azione e quella condizione di
solitudine che è già dentro il mondo moderno,
fatto di macchine, che porta a un vivere falsato
nella sua naturalità e genera nell'uomo un senso
d'angoscia irrisolvibile perché lo circoscrive
nell'alienazione.
Ma proprio in quel contatto. il Pirandello--personaggio--fuori--azione
scopre l'ennesima e più profonda delusione:
il dialogo come atto
di parola è solo una forma di confessione che
resta circoscritta al personaggio senza diventare
universale ed oggettiva e una forma di espiazione
dei propri errori.
I drammi si compiono parlandone (da questo,
insieme a venature di caratteri filosofeggiante,
l'accusa di pirandellismo), ma tutto tornerà ad
essere sepolto nella coscienza di ognuno e nella
condizione di solitudine esistenziale alla quale
nessuno può né sa trovare una soluzione. E lo
stesso Pirandello nella sua arte non sa trovare un
carattere di compiutezza per l'uomo del Novecento
e non tenta una sua qualche riabilitazione, ma lo
lascia immerso nei tanti problemi e nelle tante
illusioni che con sempre maggior forza si
scontrano con la realtà esterna. In questa
incompiutezza troviamo le due guerre mondiali, lo
scontro EST-OVEST, il capitalismo borghese contro
il comunismo capitalista di stato,
l’individualismo contro il collettivismo e,
infine, la perpetuazione della società universale
nella quale gli oppressori (ricchi, potenti)
stanno sempre da una parte e gli oppressi (poveri,
deboli) stanno sempre dall'altra.
L'ARTE
UMORISTICA
Dopo
aver spiegato il procedimento dell'arte umoristica
nelle sue componenti (avvertimento del contrario
vs aspetto comico ---> riso, e sentimento del
contrario vs aspetto drammatico --->
dolore), vediamo di capire meglio l'intimo
processo dell'arte umoristica, cioè la tecnica
con cui Pirandello affronta e descrive realtà
e peronaggi, citando dal Saggio su l'umorismo:
...
L'arte, come tutte le costruzioni ideali o
illusorie, tende a fissar la vita: la fissa in un
momento o in varii momenti determinati: la statua
in un gesto, il paesaggio in un aspetto
temporaneo, immutabile...
L'arte in genere astrae e concentra, coglie cioè
e rappresenta così degli individui come delle
cose, l'idealità essenziale e caratteristica. Ora
pare all'umorista che tutto ciò semplifichi
troppo la natura e tenda a rendere troppo
ragionevole o almeno troppo coerente la vita. Gli
pare che delle cause, delle cause vere che muovono
spesso questa povera anima umana agli atti più
inconsulti, assolutamente imprevedibili, l'arte in
genere non tenga quel conto che secondo lui
dovrebbe. Per l'umorista le cause, nella vita, non
sono mai così logiche, così ordinate, come nelle
nostre comuni opere d'arte, in cui tutto è, in
fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che
lo scrittore si è proposto.
L'arte
di Pirandello non rispecchia la 'realtà' così
come comunemente è intesa, ma va alla ricerca
delle piccole cause che generano conseguenze
imprevedibili e sono troppo spesso ritenute
insignificanti. Sono le piccole cause che fanno
cadere le illusioni in cui culliamo le nostre
certezze e fanno crollare le forme fittizie che ci
siamo creati.
Pirandello raccoglie i casi comuni della vita, che
diventano particolari per le cause vere che li
generano e che non sempre gli uomini riescono a
cogliere e a sentire. Le azioni sono messe in
rilievo da un fondo di vicende ordinarie e comuni
che però si trovano in contraddizione con gli
aspetti ideali della vita, che, non potendosi
realizzare nella realtà quotidiana, costringono
gli uomini a commettere fatti contrari a quelle
azioni ideali così ben costruite nella logica e
nelle illusioni.
E le azioni non sono descritte nella loro globalità,
ma nei particolari contrasti e nelle
contraddizioni quotidiane che mutano di momento in
momento senza una logica apparente, spesso in
opposizione con la logica tanto vantata da tutti
ma troppo spesso irrealizzabile.
http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/index.htm.
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