LETTERATURA ITALIANA: IL DECADENTISMO

 

Luigi De Bellis

 


 

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DECADENTISMO





GIOVANNI PASCOLI

Nacque a S. Mauro di Romagna (oggi S. Mauro Pascoli, in provincia di Forlì) nel 1855, da famiglia non agiata, ma neppure bisognosa fino a quando fu in vita il padre, che era amministratore di una tenuta dei principi Torlonia. Il 10 agosto del 1867 il padre fu assassinato, lasciando nella miseria la vedova e i suoi sette figli ancora in tenera età. L’anno successivo gli morirono la madre e la sorella maggiore, ma nonostante l’angoscia morale per queste disgrazie e le ristrettezze economiche, riuscì a condurre a termine gli studi liceali. Grazie ad una borsa di studio del Comune di Bologna poté lì frequentare la facoltà di lettere, ma intanto l’animo esacerbato dalle traversie lo indusse a partecipare all’attività politica del movimento anarchico-socialista di Andrea Costa e a trascurare gli studi. Arrestato per la sua attività rivoluzionaria, dopo tre mesi di carcere fu assolto grazie anche alla testimonianza in suo favore del suo maestro Giosue Carducci. Ripresi gli studi, si laureò nel 1882 ed iniziò la carriera di docente di lettere nei licei. Nel 1897 ottenne la cattedra di letteratura latina all’università di Messina. Da qui passò, nel 1903, all’università di Pisa ed infine, nel 1907, succedette al Carducci sulla cattedra di letteratura italiana dell’università di Bologna. Morì nel 1912.

Se l’assassinio impunito del padre e l’abbandono della sua famiglia al proprio destino di miseria gli avevano fatto maturare un sentimento di avversione e di rivolta contro la società; se le lunghe e tragiche pene d'una esistenza giovanile vissuta fra le disgrazie familiari e l’umiliazione del bisogno economico gli avevano fatto sviluppare un senso di oscuro rancore verso la vita e il destino; la triste esperienza del carcere e gli studi prediletti delle letterature classiche lo condussero gradualmente verso una dolorosa accettazione del “male di vivere”, verso una sorta di rassegnazione che favorì la ricerca di una nuova dimensione spirituale, in virtù della quale potesse riconciliarsi con la Natura. Di qui la scoperta del “fanciullino” che fu determinante per la concezione della sua poetica e la realizzazione della sua arte.

La poetica e l'arte 

Nella prosa “Il fanciullino” è esposta chiaramente l'estetica pascoliana: 

«E' dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che per primo in sé lo scoperse, ma lacrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia, noi ingrossiamo ed arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d’anima donde esso risuona... Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra di sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione... Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario...

Il poeta, se e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce... ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano... Ma il poeta non deve farlo apposta. Il poeta è poeta, non è oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo...». 

Quindi anche per il Pascoli, come per i decadenti, la poesia costituisce un vero e proprio strumento di conoscenza, l’unico che possa permetterci, attraverso la intuizione e dando ascolto alla voce segreta del nostro inconscio, di scoprire il misterioso legame che ci lega all’universo.

La poesia non ha bisogno di scienza e neppure di un’arte retorica, dal momento che al poeta basta trascrivere quello che detta il “fanciullino” usando lo stesso suo linguaggio ingenuo e spontaneo.

Ne risulta una poesia completamente svincolata da ogni tradizione stilistica, rivolta a cogliere nelle “piccole cose” il “murmure” misterioso con cui la Natura si rivela a noi per consolarci delle nostre pene, o nella “infinità cosmica” il senso della vita; una poesia naturalmente “frammentaria” (perché l’attenzione del “fanciullino” non dura a lungo sullo stesso soggetto ed il suo umore è estremamente volubile) e realizzata con largo impiego di “simbolismo” e di “onomatopeia” (perché il “fanciullino” ha la tendenza a trasfigurare le cose e ad imitarne i suoni).

Le opere 

La ricca produzione poetica del Pascoli è distribuita in varie raccolte, alcune di ispirazione intima (e sono le migliori), come “Myricae” (1891),”Primi poemetti” (1904), “Nuovi poemetti” (1909) e “Canti di Castelveccchio” (1913); altre di ispirazione classica, come i “Poemi conviviali” (1904) ed i “Carmina” (versi in latino); altre infine di argomento civile (che egli non considerava vera poesia), come “Odi ed inni” (1906), “Canzoni di Re Enzio” (1909), “Poemi italici” (1911) e “Poemi del Risorgimento” (interrotti dalla morte).

Non bisogna trascurare però che il Pascoli fu anche un brillante prosatore (come testimoniano i numerosi scritti umanitari) ed un ragguardevole critico letterario (particolarmente famosi i saggi di critica dantesca: “Minerva oscura”, “Sotto il velame”, “La mirabile visione”, “Conferenze e studi danteschi”).

Svolgimento dell'arte pascoliana 

MYRICAE è il titolo della prima raccolta di poesie pubblicate dal Pascoli nel 1891 (meno di trenta componimenti) e ripubblicata successivamente più volte con vari ampliamenti, fino all’ultima edizione, del 1903, che comprendeva 150 liriche. Il titolo - che è il nome latino delle tamerici, umili arbusti sempre verdi - fu suggerito al Poeta da un verso virgiliano, come egli stesso confessa: «E' la parola che usa Virgilio per indicare i suoi carmi bucolici, poesia che si eleva poco da terra, humilis». E' giudizio pressoché unanime che queste poesie esprimano più autenticamente la profonda ispirazione del Poeta, che, sconvolto dalle tragedie familiari e avvilito dalla perversità della società, si rifugia nella campagna, ove, a contatto con la Natura - “madre dolcissima che ci vuol bene” - riesce a trovare conforto alle sue pene, dando libero sfogo al “fanciullino” che gli è dentro. A definire il clima spirituale delle “Myricae” giova ricordare una pagina famosa di Alfredo Galletti, tratta dal suo “Il Novecento”: 

«Da quasi un secolo in Europa critici e poeti cercavano ansiosa­mente la fontana di gioventù della poesia ingenua, della poesia "primitiva", della poesia che abbia distrutto dietro di sé tutti i ponti che la congiungevano un tempo al pensiero cosciente ed alla tradizione letteraria. Ma che è l'ingenuità in arte? Come può l'homo sapiens (piò o meno) dei tempi moderni rinnovare in sé la disposizione spirituale dell'uomo primitivo che contempla il mondo con occhi nuovi, che tutto vede e ammira per la prima volta? Non c'è altro modo che quello tenuto... dal Pascoli nello scrivere le Myricae: abolire in se stessi la riflessione e la storia, addormentare l'intelletto col lento incanto di una malia che non lasci in noi se non una specie di stupore religioso. Storicamente l'uomo si è contrapposto e si è imposto alla natura lottando, scrutando, affermando e costruendo sui dati dell'esperienza un sistema di leggi ed una scala di valori: queste costruzioni bisogna distruggere in noi per abbandonarci ingenuamente al fluire delle immagini, per vibrare, consentendo, a tutte le voci che la vita ci manda... Il sognatore che per disgusto della vita pratica e del tumulto sociale, ove gli uomini si corrompono e imbestiano, si è rifugiato nella solitudine e nella contemplazione, ha dentro di sé la speranza che la natura gli riveli quel principio divino il quale si è offuscato nella coscienza dell'uomo civile; che da quel colloquio religioso cogli alberi e colle acque, cogli astri e coi fiori possano derivare al suo animo una serenità e una certezza che la triste esperienza dell'ipocrisia sociale ha distrutto».

In questo clima di solitudine e di contemplazione il Poeta narra la sua pena e il suo conforto, guarda con occhi incantati i vari scenari naturali in cui si svolge lo scorrere del tempo, e si inebria della voluttà del mistero che avvolge anche le “piccole cose” del creato: nella terza ed ultima strofa di “Novembre” la solitudine consente al Poeta di udire lontano il fragile cadere delle foglie e questo conduce al pensiero della morte, che è pace, che è mistero:


Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti.


In “X Agosto”, rievocando la brutale uccisione del padre, il Pascoli trae dalla pietà del Cielo, che in quel giorno inonda la Terra di stelle cadenti, motivo di conforto al suo dolore: «Il dolore personale, la tragedia domestica ricevono una significazione cosmica attraverso queste spontanee rispondenze che li ricollegano al dramma universale della vita» (Pazzaglia):


San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
..............................................
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!


I POEMETTI comparvero la prima volta nel 1897, poi, arricchiti, videro la luce in due distinte raccolte, “Primi poemetti” (1904), “Nuovi poemetti” (1909), tutti in terzine. Con essi il Poeta sembra voler uscire dal guscio della propria intimità e ricollegarsi al mondo esterno, sul quale tuttavia trasferisce la medesima problematica spirituale della pena del vivere e della necessità di attutirne il dolore abbandonandosi nelle braccia della Natura. Infatti la parte centrale dei “Poemetti” è imperniata sulla vita di una famiglia di contadini (padre, madre e quattro figli) che vivono la propria esistenza all’unisono con la vita della campagna: ad esempio, l’amore fra la prima figlia del contadino ed un cacciatore si svolge nell’arco di quattro stagioni: in autunno, tempo di semina, si ha il primo incontro (“La sementa”); nell’inverno, quando il grano nasce sotto terra, affiora nei protagonisti un primo indistinto sentimento di simpatia (“L’accestire”); in primavera sboccia il loro amore insieme col fiorire del grano (“La fiorita”); in estate, tempo di raccolta, l’amore fra i due giovani si realizza pienamente con le nozze (“La mietitura”). Altri poemetti esaltano il lavoro umano, la vita semplice dei campi, in tono georgico; altri sprofondano l’animo nel mistero della vita; altri ancora invitano alla solidarietà umana. A proposito dei “Poemetti” dice il Galletti: «Quando il Pascoli vorrà uscire dalla sua solitudine misteriosa e vocale per riaffacciarsi alla vita, (poiché arriva sempre l’ora in cui la vita storica ed i suoi contrasti richiamano imperiosamente a sé l’uomo moderno, per quanto scontrosa sia la solitudine in cui è rinchiuso), egli non potrà e non saprà che cercarne il significato occulto, il senso nascosto sotto il velo dei fenomeni, per esprimerlo in forme simboliche». Ne “Il libro” il senso del mistero non è sentito dal Pascoli in quanto individuo, ma in quanto “uomo”:


Sopra il leggio di quercia è nell'altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar leggiero -
le carte. E l'uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all'estrema, rapido, e pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell'ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l'impaziente mano.
E poi li volge a uno a uno, lentamente,
esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta... Trovò? Non gemono le porte
più; tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?... Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.


Ed è proprio questo mistero che avvolge l’uomo che dovrebbe renderlo più buono:


Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, ed a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragor della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra. 


Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intessa,
quando non vista, sopra voi si chini
la morte con la sua lampada accesa. 


                                  
(da “I due fanciulli”) 


Giustamente, a proposito dei “Poemetti” il Pazzaglia nota: «Non fu soltanto, il Pascoli, poeta delle umili cose, ma degli spazi sterminati del cosmo: nelle une e negli altri avvertiva la stessa presenza inquietante del mistero, con un sentimento, però, di prevalente dolcezza quando s’immergeva nella contemplazione della campagna solitaria, con un’angoscia sgomenta quando si immergeva nella visione dei mondi infiniti, vaganti per l'etere immenso». Ed a proposito del tema del poemetto “La vertigine” così afferma il critico: «... potremmo chiamarlo il tema dello smarrimento cosmico. E tuttavia l’abisso di cieli tende qui a diventare il culmine d'una suprema ascesa. Dall’angoscia del mistero nasce una disperata e vana, e tuttavia appassionata, ricerca di Dio». In questo poemetto il Pascoli esprime l’angoscioso desiderio di poter essere sradicato dalla Terra e precipitare nell’immenso mare degli astri, con in cuore una speranza sincera, ma forse vana, di trovare Dio:


se mi si svella, se mi si sprofondi
l'essere, tutto l'essere, in quel mare
d'astri, in quel cupo vortice di mondi!
veder d'attimo in attimo più chiare
le costellazioni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!
precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso:
sprofondar d'un millennio ogni momento!
di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
forse, giù giù, via via, sperar... che cosa?
La sosta! il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!


I CANTI DI CASTELVECCHIO, composti contemporaneamente ai “Poemetti”, tra il 1897 ed il 1907, ma pubblicati in edizione definitiva soltanto dopo la morte del Poeta, nel 1913, riportano, nella Prefazione del Pascoli stesso, un giudizio che ben si addice anche ai “Poemetti”: «La vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico». Questo il Poeta scriveva quasi a volersi timidamente giustificare che nei “Canti di Castelvecchio” comparisse, con insistenza, il senso cupo della morte, pur tra tanti canti e voli di uccelli: «Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d'assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortore, di cincie, di verlette, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano... E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto».

In effetti questi canti, composti per lo più nella casa di campagna di Castelvecchio di Barga, dove il Poeta amava rifugiarsi spesso per sfuggire al clamore della vita di città o, meglio, della vita civile, riprendono i temi del dolore umano, della personale tragedia familiare (si ricordi la celeberrima “La cavalla storna”), della pace campestre, dell’attonita suggestione che promana dalle umili insignificanti piccole cose della natura: temi tipici delle “Myricae”, che qui, però, vengono sviluppati e approfonditi certamente con maggiore perizia stilistica, ma forse con minore spontaneità di ispirazione. Non per niente il Pascoli stesso definì “myricae autunnali” questi canti, tra i quali si annoverano “Il ciocco”, “Il bolide”, “L’imbrunire”, “Il gelsomino notturno”, “La mia sera”, “La tessitrice”, “La voce”, “Valentino”, “Le ciaramelle”. 

I POEMI CONVIVIALI, così intitolati perché alcuni di essi apparvero per la prima volta sulla rivista letteraria “Il convito” di Adolfo De Bosis, furono raccolti e pubblicati dal Pascoli nel 1904. Questi venti componimenti si ispirano all’antico mondo greco e attraverso la rievocazione di vicende e personaggi mitici e storici esaltano l’antica civiltà non senza, però, avvolgerla, anch’essa, in un'aria di arcano mistero, del senso dell’effimero. Qui compare l’umanista, il profondo conoscitore del mondo classico, che sa coniare versi di stampo classico, senza per altro smentire la sua più genuina spiritualità di uomo moderno (e “decadente”). In “Alèxandros” il Poeta immagina che Alessandro Magno, giunto con le sue conquiste al limite estremo delle terre, ultimo confine concesso agli uomini, al di là del quale c’è solo il mistero dell’infinità oceanica, mediti e pianga sulla inutilità di tutte le sue conquiste, mentre in patria la madre e le sorelle, che non si son mosse dalla propria terra natale, dall’ambiente e dalla gente a loro familiari, serenamente tessono la milesia lana per il grande assente e ascoltano le care semplici voci della natura:


- Giungemmo: è il Fine.
..................................
Fiumane che passai!
..................................
Montagne che varcai!
.................................
Azzurri come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare;
il sogno è l'infinità ombra del Vero.
.................................................
Oh! più felice, quanto più cammino
mi era d'innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!
.................................................
O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
Ma questo è il Fine, è l'Oceàno, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua.
.......................................................
In tanto nell'Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellio di un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
le grandi querce bisbigliar sul monte.


Il Croce, che non apprezzò l’opera del Pascoli nelle sue novità, per i “Poemi conviviali” espresse un giudizio lusinghiero: «In essi, a prima, sorprende un’aria di compostezza, una fluidità ed egualità d’intonazione, onde par di avere innanzi un’altra persona, o tale che si è sviluppata così improvvisamente e magnificamente che non lascia riconoscere l’antica. Che cosa è mai accaduto? Il Pascoli, oltre che poeta, è anche umanista... In questi poemi egli sposa la sua ispirazione poetica alle forme della poesia greca, che sa abilmente imitare e rifare... Il libro è un trionfo della virtù assimilatrice, un capolavoro di cultura umanistica». 

I CARMINA, poesie latine composte tra il 1885 e il 1911, con cui il Poeta partecipò ai concorsi annuali banditi dall’Accademia Hoefftiana di Amsterdam, meritando ben tredici volte il primo premio, sono anche essi di ispirazione classica, ma svolgono argomenti di storia romana e cristiana. Comprendono il “Libro dei poeti” (“Liber de Poetis”), la “Storia dei Romani” (“Res Romanae”), i “Poemi cristiani” (“Poemata Christiana”), vari inni, poemetti rurali, poemi ed epigrammi. Per essi il D’Annunzio giudicò il Pascoli «il più grande latinista che sia sorto nel mondo dal secolo di Augusto ad oggi» ed affermò che «nei suoi più alti poemi egli non è un imitatore, ma un continuatore degli antichi». 

Le altre raccolte di poesie (“Odi ed inni”, “Canzoni di Re Enzio”, “Poemi italici” e “Poemi del Risorgimento”) sono di argomento civile e rappresentano la parte più caduca dell’opera del Pascoli. D’altra parte lo stesso Poeta non le considerava opera di autentica poesia, confermando la tesi da lui già espressa ne “Il fanciullino”: «Il poeta, se e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce... ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano... Ma il poeta non deve farlo apposta. Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non tribuno o demagogo». 

La fortuna 

L’attività poetica del Pascoli si svolge tutta nell’arco di un ventennio, dal 1891 - anno della pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, “Myricae” - al 1911 - anno della pubblicazione della sua ultima raccolta di versi, i “Poemi Italici”.

Sono anni confusi e contraddittori, tipicamente di transizione, in cui si contrastano e si confondono positivismo e neoidealismo, verismo (“I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo” del Verga sono rispettivamente del 1881 e del 1888) e deca­dentismo (“Malombra” del Fogazzaro è del 1881 e “Il piacere” del D’Annunzio è del 1889), la critica “storica” del Carducci e quella “estetica” del De Sanctis. Inoltre, in campo socio-politico, si assiste alla crisi del pensiero liberale ottocentesco, all’affermarsi del movimento socialista, all’ingresso in politica dei cattolici (dopo l’attenuarsi, se non proprio la revoca, del “non expedit”), al sorgere di correnti nazionalistiche che porteranno all’avvento del fascismo. In questa congerie così vasta e multiforme di posizioni intellettuali e sentimentali, ideologiche, fu naturale che la critica letteraria si lasciasse influenzare da pregiudizi di natura politico-filosofico-religiosa piuttosto che lasciarsi guidare dal giudizio estetico, guardasse più al “contenuto” che alla resa poetica dell’ispirazione.

L’opera del Pascoli fu così soggetta a molte incomprensioni: fra i critici di area liberale, quelli di “sinistra” gli furono favorevoli apprezzando quel suo socialismo umanitario ed il suo scetticismo teologico, mentre quelli di “destra” gli furono contrari per lo stesso motivo, perché non apprezzarono quel suo persistere «nel solco di un socialismo sia pure pacifista ed idillico» (Mazzamuto); fra i critici di area cattolica, generalmente ostili al Pascoli, non mancarono dei convinti sostenitori della sua arte che riconobbero al poeta romagnolo una certa «ansia tutta cristiana e francescana del suo filantropismo» (Mazzamuto); di contro i critici di area socialista si vendicarono della defezione del Pascoli dal socialismo militante (avvenuta dopo l’esperienza del carcere), giudicando l’uomo un “conservatore egoista” e il poeta uno che attinge la propria ispirazione, “refrattaria ai cimenti della nuova idea”, dalle “scuderie della borghesia”.

Come si vede, son tutti giudizi derivanti da dissensi o consensi di tutt’altra natura che di quella estetica.

Il primo a dare un’impostazione adeguata alla critica sul Pascoli fu Benedetto Croce con un saggio apparso su “La critica” nel 1906. In questo saggio il Croce mostrò non poche perplessità circa la validità dell’arte pascoliana, la cui ispirazione - che definì di natura idilliaca - gli parve frammentaria ed impressionistica, qualità, queste, che il critico non apprezzava punto. Successivamente le perplessità iniziali si mutarono in vero e proprio dissenso man mano che il Croce maturò la propria avversione al decadentismo in generale. A proposito dell’estetica pascoliana dettata ne “Il fanciullino” il Croce osservò che il poeta confondeva la fanciullezza “ideale” tipica della poesia con quella “realistica” che «si aggira in un piccolo mondo perché non conosce e non è in grado di dominarne uno più vasto». Ma già nel 1918 il Galletti confutava queste tesi affermando invece che quella del Pascoli è «un’estetica dedotta con coerenza dal misticismo sentimentale e da essa deriva logicamente anche il carattere prevalentemente musicale della poesia pascoliana» (Puppo).

Si dà così l’avvio ad una ricerca più sensata, per così dire “più scientifica”, della vera natura dell'arte pascoliana, che viene inquadrata dai più nell’ambito del decadentismo europeo, con specifici richiami al simbolismo francese, e da non pochi sulla scia di una tradizione classicista e nazionale che va da Omero e Virgilio al Carducci. Il che viene di volta in volta dimostrato con acute analisi stilistiche e linguistiche, oltre che con la puntualizzazione sempre più lucida dei motivi poetici che si vanno costantemente ampliando ed approfondendo: al poeta delle “piccole cose”, al poeta “idillico-georgico”, al poeta “campestre” succede il poeta “cosmico”, il poeta del mistero, il poeta che sa cogliere la religiosità del mistero e resta attonito di fronte al male di cui è capace quest’atomo opaco che è la Terra, e che per questo sente di dover lanciare un accorato appello alla fraternità universale.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it