Ricostruire la personalità del Foscolo è
relativamente facile al biografo, perché il
Poeta ci ha lasciato molte confessioni
dirette nei suoi scritti ed un voluminoso
epistolario, in gran parte “confidenziale”,
da cui emerge chiara una virtù fondamentale,
quella della schiettezza, che rende
attendibili le sue volontarie o involontarie
“confessioni”. Ciò non toglie che rimane la
difficoltà di penetrare fino in fondo il suo
animo, data la complessità dei suoi
sentimenti e l'apparente contraddittorietà
delle sue idee.
Intanto una sintesi abbastanza efficace e
veritiera del “proprio ritratto” ce la
fornisce il Foscolo in un sonetto scritto
tra il 1801 ed il 1802, in cui ovviamente
non si può cogliere alcun segno della
successiva evoluzione della sua coscienza:
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
tumidi labbri ed al sorriso lenti,
capo chino, bel collo e largo petto;
membra esatte; vestir semplice eletto;
ratti i passi, il pensier, gli atti, gli
accenti;
sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto,
avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso;
alle speranze incredulo e al timore;
il pudor mi fa vile, e prode l'ira:
in me parla la ragion; ma il core,
ricco di vizi e di virtù, delira.
Morte, tu mi darai fama e riposo. |
A quell’epoca il Foscolo, ventitreenne, era
già famoso per non poche sue opere, fra cui
la tragedia “Tieste”, rappresentata con
successo a Venezia il 4 gennaio 1797, l'ode
“A Luigia Pallavicini caduta da cavallo”,
non pochi sonetti e prose varie, e
soprattutto la prima stampa del romanzo
epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis”,
iniziata nel 1798 e interrotta l’anno
successivo. Poteva dunque a buon diritto
sperare dalla Morte la “fama”. Ma perché
sperare anche, e soltanto dalla Morte, il
“riposo”? La risposta non è difficile.
Nonostante la giovane età, il Foscolo aveva
già provato l’esilio, la guerra per la
libertà, il disinganno provocato dal vile
trattato di Campoformio e tragedie familiari
come il suicidio del fratello: gli “eventi”
gli erano “avversi” ed egli non poteva che
sentirsi “avverso al mondo” e condursi a
vivere, secondo l’esempio del suo grande
Maestro morale, l’Alfieri, “mesto i più
giorni e solo, ognor pensoso”, ormai “alle
speranze incredulo”. Ma anche se il suo
cuore delirava, il furore lo rendeva prode,
e il prode vuole l’azione. Se l’Alfieri,
dall’alto del suo titanismo, aveva potuto
errare “muto ove Arno è più deserto” e,
“irato a' patrii Numi”, cercare conforto e
ispirazione nel tempio di S. Croce, a lui
solo la Sera, immagine della Morte, riusciva
ad assopirgli lo “spirto guerrier”. Ecco
perché, se fu giusto definire l’Alfieri il
“vate della libertà”, cioè il poeta-profeta
della libertà, fu ancora più giusto definire
il Foscolo il “poeta-soldato” della libertà.
E proprio all’Alfieri il Foscolo dedicò il
“Tieste” con questa lettera datata 22 aprile
1797, che il Maestro non degnò di alcuna
risposta:
«Al Tragico dell'Italia oso offrire la prima
tragedia di un giovane nato in Grecia ed
educato fra' Dalmati. Forse l'avrei
presentata più degna d'Alfieri, se la
rapacità de' tipografi non l'avesse carpita
e stampata, aggiungendole a' propri difetti
le negligenze della lor arte. Ad ogni modo
accoglietela: voi avete de' diritti su tutti
coloro che scrivono agl'Italiani, benché
l'Italia "vecchia, oziosa e lenta" non può
né vuol forse ascoltare. Né forse ve la
offrirei, se non sperassi in me stesso di
emendare il mio ardire con opere più sode,
più ragionate, più alte; più, insomma,
italiane.
Addio.»
Fu dunque il Foscolo un amante appassionato
e fedele della Libertà e della Patria, ma
nutrì sentimenti non meno profondi verso la
famiglia (i fratelli e particolarmente la
madre), anche se dimostrò di non essere un
buon padre, se ebbe cuore di abbandonare al
proprio destino la figliuola Floriana, che
solo per avventura ritrovò a Londra. In una
lettera alla sorella Rubina così scrive da
Milano (1803):
«...Lo stato di nostra madre mi tormenta dì
e notte l'anima, ma ora mi tormenta assai
più la sua malattia. Se alle perpetue
fatiche ch'io fo per guadagnarmi il pane,
alle angosce della mia situazione, alla mia
profonda ed indivisibile malinconia si
aggiunge anche questa disgrazia, io sarò
l'uomo più infelice della terra... Non avrei
lasciata nostra madre senza aiuto né
lettere; ma per l'aiuto mi è stato
impossibile: non so nulla di certo, ed ho da
mantenere il nostro fratello, che mi costa
più di quel che posso spendere... Così
almeno facesse buona riuscita, come io mi
spoglio di tutto per mantenerlo, poiché mi
ricordo non solo che è mio fratello, ma che
è figlio di quella benemerita madre che mi
ha educato, ed io devo in questo giovinetto
prepararle un soccorso per la sua
vecchiaia.»
E ancora, circa dieci anni dopo, da Milano
(1812):
«...Madre mia, benedici il tuo figliuolo, e
con me tutti gli altri tuoi figli e nipoti,
i quali, spero, vivranno per te, e
m'imiteranno, se non altro, in questo,
d'amarti, d'onorarti e di aiutarti nella tua
vecchiaia.»
E a riguardo degli affetti familiari non si
può non ricordare il celeberrimo sonetto “In
morte del fratello Giovanni”.
Ma certamente il suo cuore batté in
prevalenza per le Muse e l’Amore (“unico
spirto a mia vita raminga”, dirà nei
“Sepolcri”). Un parziale censimento dei suoi
più folli amori, può dare il segno delle
sue... virtù amatorie: Isabella Teotochi
Albrizzi, Isabella Roncioni, Antonietta
Fagnani Arese, Maddalena Bignami, Cornelia
Martinetti, Quirina Mocenni Magiotti,
Eleonora Nencini, ecc.
Tuttavia le numerose avventure amorose (che
non erano mai semplici avventure galanti),
quelle eroiche sui campi di battaglia, i
numerosi impegni civili, i problemi non
lievi di natura economica, tutto ciò non
riuscì mai a distoglierlo dagli studi e
dalla poesia, che coltivò sempre con
profondo amore, ma anche con geniale
intelligenza. A soli trenta anni poteva
insegnare all’Università di Pavia e avere
l’onore di annoverare un pubblico non di
soli studenti. Il 3 febbraio del 1809 così
scrisse alla madre:
«...Io me la passo benissimo, e se lavoro
non posso lagnarmi degli uomini, dacché non
faccio lezione senza che tutta la città
venga ad udirmi, e gli stessi professori
dell'Università, e senza che la scolaresca
non m'accompagni a casa tra gli evviva; di
che, a confessare il vero, se ho sentito
piacere la prima volta, ora comincio a
vergognarmene. Alla mia prima lezione sono
venuti da Milano molti uomini dotti e
persone del Governo, ed anche Angiolo [uno
dei suoi fratelli] col suo generale, e
furono testimoni che quando si studia con
vigore e si dice nobilmente la verità, anche
gl'indifferenti ed i tristi sono costretti a
lodarci.»
Di questa virtù andò fiero tutta la vita e
già nei “Sepolcri” aveva affermato che
costituiva per lui il messaggio che avrebbe
consegnato ai posteri:
... A noi
morte apparecchi riposato albergo
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l'amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi di liberal carme l'esempio. |
Il Foscolo di questi anni è già un uomo
diverso da quello rappresentato nelle vesti
di Jacopo nel giovanile romanzo epistolare.
Non che in lui siano cambiati gli affetti, i princìpi, i valori. Ma certamente in lui si
è attutito quel nobile furore che aveva
fatto gridare a Jacopo nell’incontro col
Parini: “Ché non si tenta? morremo? ma
frutterà dal nostro sangue il vendicatore”.
Quel furore giovanile rispondeva all’impulso
di un animo generoso ma ancora incerto nel
dominio delle proprie passioni. Il Foscolo
stesso avvertì il mutamento e sentì il
bisogno di scrivere una nuova autobiografia
nella “Notizia intorno a Didimo Chierico”
premessa alla sua traduzione del romanzo
“Viaggio sentimentale” dell’umorista
irlandese Lorenzo Sterne. Nel XIV capitolo
della “Notizia”, quasi a conclusione
dell’opera, che vide la luce nel 1813, così
scrive:
«Insomma pareva uomo che essendosi in
gioventù lasciato governare dall'indole sua
naturale, s'accomodasse, ma senza fidarsene,
alla prudenza mondana. E forse aveva più
amore che stima per gli uomini; però non era
orgoglioso né umile. Pareva verecondo,
perché non era né ricco né povero. Forse non
era avido né ambizioso; perciò parea libero.
Quanto all'ingegno, non credo che la natura
l'avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma
l'aveva temprato in guisa da non potersi
imbevere degli altrui insegnamenti; e quel
tanto che produceva da sé, aveva certa
novità che allettava, e la primitiva
ruvidezza che offende. Quindi derivava in
esso per avventura quell'esprimere in modo
tutto suo le cose comuni; e la propensione
di censurare i metodi delle nostre scuole.
Inoltre sembravami ch'egli sentisse non so
qual dissonanza nell'armonia delle cose del
mondo: non però lo diceva. Dalla sua
operetta greca si desume quanto meritamente
si vergognasse della sua giovanile
intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi,
più disingannato che rinsavito; e che senza
dar noia agli altri, se ne andasse
quietissimo e sicuro di se medesimo per la
sua strada, e sostandosi spesso, quasi
avesse più a cuore di non deviare che di
toccare la mèta. Queste a ogni modo sono
tutte mie congetture».
Due anni dopo il Foscolo si allontanava
dall’Italia per non più tornare.
Possiamo quindi concludere affermando che il
Foscolo fu animo ardente e ardimentoso,
amante della Libertà, della Patria, della
Famiglia, ma anche della Gloria, alla quale
e per la quale, per altro, mai subordinò né
tanto meno avvilì la propria coscienza e
sempre rifuggì da ogni sorta di compromesso.
Da giovane manifestò senza freno tutta la
insofferenza e la temerarietà dei giovani
generosi; da uomo maturo seppe dare ordine e
compostezza alle sue passioni, mai
rinnegandole, ma sublimandole in una
dimensione morale degna di costituire un
messaggio di civiltà. Amò e venerò
soprattutto la Verità, al cui servizio pose
tutta la forza del suo ingegno: a lei
sacrificò “onori” e ricchezze che pur gli
venivano offerti con dovizia.
I tempi gli furono ostili ed egli reagì
prima contrastandoli con rabbia e con
furore, poi compatendoli con tristezza e
malinconia: sempre animandoli con l'esempio
di una coscienza netta e pulita che
consentisse di coltivare la speranza di un
futuro migliore.
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