LETTERATURA ITALIANA: UGO FOSCOLO

 

Luigi De Bellis

 


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FOSCOLO

 
FOSCOLO: L'indole

Ricostruire la personalità del Foscolo è relativamente facile al biografo, perché il Poeta ci ha lasciato molte confessioni dirette nei suoi scritti ed un voluminoso epistolario, in gran parte “confidenziale”, da cui emerge chiara una virtù fondamentale, quella della schiettezza, che rende attendibili le sue volontarie o involontarie “confessioni”. Ciò non toglie che rimane la difficoltà di penetrare fino in fondo il suo animo, data la complessità dei suoi sentimenti e l'apparente contraddittorietà delle sue idee.

Intanto una sintesi abbastanza efficace e veritiera del “proprio ritratto” ce la fornisce il Foscolo in un sonetto scritto tra il 1801 ed il 1802, in cui ovviamente non si può cogliere alcun segno della successiva evoluzione della sua coscienza:
 

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
tumidi labbri ed al sorriso lenti,
capo chino, bel collo e largo petto;
membra esatte; vestir semplice eletto;
ratti i passi, il pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto,
avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso;
alle speranze incredulo e al timore;
il pudor mi fa vile, e prode l'ira:
in me parla la ragion; ma il core,
ricco di vizi e di virtù, delira.
Morte, tu mi darai fama e riposo.


A quell’epoca il Foscolo, ventitreenne, era già famoso per non poche sue opere, fra cui la tragedia “Tieste”, rappresentata con successo a Venezia il 4 gennaio 1797, l'ode “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo”, non pochi sonetti e prose varie, e soprattutto la prima stampa del romanzo epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, iniziata nel 1798 e interrotta l’anno successivo. Poteva dunque a buon diritto sperare dalla Morte la “fama”. Ma perché sperare anche, e soltanto dalla Morte, il “riposo”? La risposta non è difficile. Nonostante la giovane età, il Foscolo aveva già provato l’esilio, la guerra per la libertà, il disinganno provocato dal vile trattato di Campoformio e tragedie familiari come il suicidio del fratello: gli “eventi” gli erano “avversi” ed egli non poteva che sentirsi “avverso al mondo” e condursi a vivere, secondo l’esempio del suo grande Maestro morale, l’Alfieri, “mesto i più giorni e solo, ognor pensoso”, ormai “alle speranze incredulo”. Ma anche se il suo cuore delirava, il furore lo rendeva prode, e il prode vuole l’azione. Se l’Alfieri, dall’alto del suo titanismo, aveva potuto errare “muto ove Arno è più deserto” e, “irato a' patrii Numi”, cercare conforto e ispirazione nel tempio di S. Croce, a lui solo la Sera, immagine della Morte, riusciva ad assopirgli lo “spirto guerrier”. Ecco perché, se fu giusto definire l’Alfieri il “vate della libertà”, cioè il poeta-profeta della libertà, fu ancora più giusto definire il Foscolo il “poeta-soldato” della libertà. E proprio all’Alfieri il Foscolo dedicò il “Tieste” con questa lettera datata 22 aprile 1797, che il Maestro non degnò di alcuna risposta:

«Al Tragico dell'Italia oso offrire la prima tragedia di un giovane nato in Grecia ed educato fra' Dalmati. Forse l'avrei presentata più degna d'Alfieri, se la rapacità de' tipografi non l'avesse carpita e stampata, aggiungendole a' propri difetti le negligenze della lor arte. Ad ogni modo accoglietela: voi avete de' diritti su tutti coloro che scrivono agl'Italiani, benché l'Italia "vecchia, oziosa e lenta" non può né vuol forse ascoltare. Né forse ve la offrirei, se non sperassi in me stesso di emendare il mio ardire con opere più sode, più ragionate, più alte; più, insomma, italiane.
Addio.»


Fu dunque il Foscolo un amante appassionato e fedele della Libertà e della Patria, ma nutrì sentimenti non meno profondi verso la famiglia (i fratelli e particolarmente la madre), anche se dimostrò di non essere un buon padre, se ebbe cuore di abbandonare al proprio destino la figliuola Floriana, che solo per avventura ritrovò a Londra. In una lettera alla sorella Rubina così scrive da Milano (1803):

«...Lo stato di nostra madre mi tormenta dì e notte l'anima, ma ora mi tormenta assai più la sua malattia. Se alle perpetue fatiche ch'io fo per guadagnarmi il pane, alle angosce della mia situazione, alla mia profonda ed indivisibile malinconia si aggiunge anche questa disgrazia, io sarò l'uomo più infelice della terra... Non avrei lasciata nostra madre senza aiuto né lettere; ma per l'aiuto mi è stato impossibile: non so nulla di certo, ed ho da mantenere il nostro fratello, che mi costa più di quel che posso spendere... Così almeno facesse buona riuscita, come io mi spoglio di tutto per mantenerlo, poiché mi ricordo non solo che è mio fratello, ma che è figlio di quella benemerita madre che mi ha educato, ed io devo in questo giovinetto prepararle un soccorso per la sua vecchiaia.»

E ancora, circa dieci anni dopo, da Milano (1812):

«...Madre mia, benedici il tuo figliuolo, e con me tutti gli altri tuoi figli e nipoti, i quali, spero, vivranno per te, e m'imiteranno, se non altro, in questo, d'amarti, d'onorarti e di aiutarti nella tua vecchiaia.»

E a riguardo degli affetti familiari non si può non ricordare il celeberrimo sonetto “In morte del fratello Giovanni”.
Ma certamente il suo cuore batté in prevalenza per le Muse e l’Amore (“unico spirto a mia vita raminga”, dirà nei “Sepolcri”). Un parziale censimento dei suoi più folli amori, può dare il segno delle sue... virtù amatorie: Isabella Teotochi Albrizzi, Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese, Maddalena Bignami, Cornelia Martinetti, Quirina Mocenni Magiotti, Eleonora Nencini, ecc.
Tuttavia le numerose avventure amorose (che non erano mai semplici avventure galanti), quelle eroiche sui campi di battaglia, i numerosi impegni civili, i problemi non lievi di natura economica, tutto ciò non riuscì mai a distoglierlo dagli studi e dalla poesia, che coltivò sempre con profondo amore, ma anche con geniale intelligenza. A soli trenta anni poteva insegnare all’Università di Pavia e avere l’onore di annoverare un pubblico non di soli studenti. Il 3 febbraio del 1809 così scrisse alla madre:



«...Io me la passo benissimo, e se lavoro non posso lagnarmi degli uomini, dacché non faccio lezione senza che tutta la città venga ad udirmi, e gli stessi professori dell'Università, e senza che la scolaresca non m'accompagni a casa tra gli evviva; di che, a confessare il vero, se ho sentito piacere la prima volta, ora comincio a vergo­gnarmene. Alla mia prima lezione sono venuti da Milano molti uomini dotti e persone del Governo, ed anche Angiolo [uno dei suoi fratelli] col suo generale, e furono testimoni che quando si studia con vigore e si dice nobilmente la verità, anche gl'indifferenti ed i tristi sono costretti a lodarci.»

Di questa virtù andò fiero tutta la vita e già nei “Sepolcri” aveva affermato che costituiva per lui il messaggio che avrebbe consegnato ai posteri:
 

... A noi
morte apparecchi riposato albergo
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l'amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi di liberal carme l'esempio.


Il Foscolo di questi anni è già un uomo diverso da quello rappresentato nelle vesti di Jacopo nel giovanile romanzo epistolare. Non che in lui siano cambiati gli affetti, i princìpi, i valori. Ma certamente in lui si è attutito quel nobile furore che aveva fatto gridare a Jacopo nell’incontro col Parini: “Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore”. Quel furore giovanile rispondeva all’impulso di un animo generoso ma ancora incerto nel dominio delle proprie passioni. Il Foscolo stesso avvertì il mutamento e sentì il bisogno di scrivere una nuova autobiografia nella “Notizia intorno a Didimo Chierico” premessa alla sua traduzione del romanzo “Viaggio sentimentale” dell’umorista irlandese Lorenzo Sterne. Nel XIV capitolo della “Notizia”, quasi a conclusione dell’opera, che vide la luce nel 1813, così scrive:

«Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall'indole sua naturale, s'accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini; però non era orgoglioso né umile. Pareva verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso; perciò parea libero. Quanto all'ingegno, non credo che la natura l'avesse moltis­simo prediletto, né poco. Ma l'aveva temprato in guisa da non poter­si imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per avventura quell'esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre sembravami ch'egli sentisse non so qual dissonanza nell'armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca si desume quanto meritamente si vergognasse della sua giovanile intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di se medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare che di toccare la mèta. Queste a ogni modo sono tutte mie congetture».

Due anni dopo il Foscolo si allontanava dall’Italia per non più tornare.

Possiamo quindi concludere affermando che il Foscolo fu animo ardente e ardimentoso, amante della Libertà, della Patria, della Famiglia, ma anche della Gloria, alla quale e per la quale, per altro, mai subordinò né tanto meno avvilì la propria coscienza e sempre rifuggì da ogni sorta di compromesso. Da giovane manifestò senza freno tutta la insofferenza e la temerarietà dei giovani generosi; da uomo maturo seppe dare ordine e compostezza alle sue passioni, mai rinnegandole, ma sublimandole in una dimensione morale degna di costituire un messaggio di civiltà. Amò e venerò soprattutto la Verità, al cui servizio pose tutta la forza del suo ingegno: a lei sacrificò “onori” e ricchezze che pur gli venivano offerti con dovizia.

I tempi gli furono ostili ed egli reagì prima contrastandoli con rabbia e con furore, poi compatendoli con tristezza e malinconia: sempre animandoli con l'esempio di una coscienza netta e pulita che consentisse di coltivare la speranza di un futuro migliore.


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