Nel 1812
il Foscolo, da qualche tempo malato di
febbri, parte per la Toscana per curarsi.
Durante il viaggio si ferma a Bologna, dove
rivede la bella e famosa Cornelia
Martinetti. A Firenze rivede la Eleonora
Nencini, che era già stata confidente del
suo amore per Isabella Roncioni; è durante
questa dimora a Firenze, che dura
dall’autunno 1812 fino al luglio dell’anno
successivo, che il Foscolo concretizza un
primo e vero disegno, che rimarrà immutato
nonostante le molte modificazioni che la
struttura subirà man mano che la concezione
del carme si verrà allargando, sia passando
da un Inno solo a tre Inni sia allargando
l’ampiezza degli argomenti e quindi dei
significati che voleva trasmettere ai suoi
lettori.
A Firenze, dunque, vive quasi
un anno, affittando la villa di Bellosguardo,
posta su un bellissimo poggio dal quale lo
sguardo poteva spaziare sui colli fiorentini
e sulla stessa Firenze: su un panorama
straordinario che avrebbe potuto essere
giustamente abitato dalle stesse Grazie,
forte e civile allo stesso tempo. E
d’altronde il poeta non poteva che essere
innamorato di quel paesaggio, dopo averlo
ammirato e descritto nei Sepolcri, e
aver comunicato tutta la sua commozione nel
veder raccolte in esso "le itale glorie".
All’Aristocrazia fiorentina viene presentato
da Luisa Stolberg, contessa d’Albany, che
teneva in Firenze un famoso e frequentato
salotto letterario. La contessa, già avanti
negli anni, rotta ad ogni intrigo anche un
po’ malizioso e con un occhio talvolta
malevolo verso le giovani belle e spesso
avvolte in una superbia frutto più della
loro bellezza e gioventù che di un carattere
maligno dopo aver conquistato il centro
dell’attenzione generale scalzando le
Signore mature e un po’ attempate, divenne
protettrice e consigliera del poeta, che nel
frattempo aveva conosciuto Quirina Mocenni
Magiotti, che nella vita di Foscolo assumerà
un ruolo importante e diverrà famosa con
l’appellativo di "Donna gentile",
infelicemente sposata con un uomo debole e
malato di mente, l’unica che seppe
conservargli il suo amore negli anni, e alla
quale sempre potè rivolgersi anche
dall’esilio svizzero e britannico e che
riuscì a sopportare la sua "indole
burrascosa".
Proprio a Bellosguardo, nella
villa dell’Ombrellino, Foscolo trova
l’ambiente ideale per rimettersi dalla
malattia e per iniziare la stesura del carme
delle Grazie, ispirato al gruppo marmoreo
del Canova, e in particolare alla statua di
Venere che lo scultore aveva terminato per
la Galleria degli Uffizi e che verrà
acquistato dal Duca di Bedford, (nel 1822
"adorna la galleria delle sculture
nell'abbazia di Woburn" – Foscolo,
Dissertazione) proprio quando Ugo giunge
a Firenze; col carme Foscolo intendeva
giungere all’espressione più compiuta del
mondo classico attraverso una poesia tessuta
di quella armonia che può essere dono solo
"delle tre Dee e di Venere".
Le Grazie sono il canto
elevato alla bellezza e all’amore, alla
donna e all’armonia delle sue forme, alla
visione della donna nella sua triplice
espressione identificabile nella poesia,
nella musica e nella danza. Quando la
struttura del Carme comincia a farsi sempre
più complessa, Foscolo passa dalla
concezione in un solo Inno a quella in tre
Inni (vedi il passaggio dal primo al terzo
Sommario), presumibilmente nel mese di
maggio del 1813, identificando le tre Grazie
con tre donne che fino a quel momento
avevano rappresentato per lui l’amore e la
gioia di vivere: Eleonora Nencini, di
Firenze, Cornelia Martinetti di Bologna e
Maddalena Bignami di Milano, ciascuna con le
proprie caratteristiche, che esprimono la
bellezza animatrice di gioia ed armonia,
fondamento di una specie di filosofia
della bellezza.
Nella prima divisione in tre
Inni, come scrive Giuseppe Chiarini nel suo
saggio, il primo doveva "celebrare le lodi
della suonatrice d’arpa, il secondo della
donna delle api e il terzo della
danzatrice".
Vediamo ora due schemi che
esemplificano il lavoro sulle Grazie:
primo schema |
tre dee
tre Grazie
tre Muse |
tre donne |
tre
caratteristiche o sistemi |
significato |
inno 1:
più storico perchè
illumina la vita della Grecia
antichissima e le origini dell’uomo e
della sua civiltà |
Venere
: bella natura apparente |
Eleonora Nencini
Firenze |
musica
beltà
suonatrice
- storico |
animo temprato di
dolce pietà per gli effetti della
musica |
inno 2:
più civile perchè ci
riporta all’epoca presente, Ottocento,
con possibile maggiore incivilimento
dell’Italia |
Vesta:
nume verginale e
custode del fuoco eterno che anima i
cuori gentili |
Cornelia Martinetti
Bologna |
poesia
virtù
pittura poetica |
Fantasia espressa
dalla amabilità della parola –
La poesia congiunge |
inno 3:
più metafisico, perché
ci trasporta in un mondo ideale dopo
che il potere della bellezza e delle
arti ha avuto il sopravvento sulle
passioni umane |
Pallade:
dea delle arti
consolatrici della vita e maestra
degli ingegni |
Maddalena Bignami
Milano -
i vv finali dell’inno
terzo cantano l’amore di Ugo per lei |
danza ingegno –
ballerina - metafisico - morale
allegorica |
Le Grazie che si
mostrano allo sguardo nella eleganza
dei gesti |
secondo
schema – Tratto dalla "Dissertazione"
Lavorano al
velo |
Tre Dee |
Pallade
– Dirige il lavoro
delle molte Dee intorno al velo |
Psiche
- siede silenziosa, compresa dalla
memoria della lunga serie dei suoi
affanni, e tesse |
Ebe
- viene tacitamente tra le altre
Deità, e dal suo vaso spande ambrosia
sulla tela fatale, e la rende
incorruttibile |
Tre Muse
– solo tre su nove, che
corrispondono a tre donne amate dal
poeta (vedi schema precedente) |
Tersicore
- si volge intorno al telaio e a
Psiche danzando per divertirla e
animarla a finir l'opera |
Talia
– suona la lira |
Erato
– ammaestra Flora
e le detta cantando le
mille varietà dei colori in gruppi di
figure e e volti |
Tre Parche -
le incomprensibili
Deità di Platone, coronate di quercia
e avvolte in lunghi manti di porpora |
Cloto – Lachesi –
Atropo – mettono sulla
spola una
porzione dello stame (il filo
dell’ordito) interminabile (quello di
che il destino fila la vita degli Dei,
e che trasparente e flessibile come
l'aria ha di più lo splendore e la
durezza del diamante |
Tre Ore |
traggono i fili
dell'ordito dai raggi del sole e li
preparano per il telaio |
Tre Dee
che si adoperano a farne gli
adornamenti |
Iride
- dà i colori |
Flora
- Flora disegna figure e gruppi e li
colora ammaestrata da Erato |
Aurora
- adorna i lembi del velo con rose,
ignote fino allora alla terra, benchè
i mortali ne avessero sentita la
fragranza, indizio d'alcun essere
celeste che s'avvicina |
Sul
piano dell'invenzione,
cioè della creazione del contenuto e della
sua disposizione, della contestualità
storica sia della memoria dell’antica
classicità greca che della attuale (ai tempi
foscoliani, corrispondenti agli anni
1812-1813 e quindi alla fine dell’Impero
Napoleonico, possiamo distinguere questi
elementi, sulla scorta del manoscritto di
Valenciennes:
Secondo il sistema
poetico, Le Grazie sono
deità intermedie fra il cielo e la terra, e
ricevono da' Numi tutti que' doni che esse
vanno poi dispensando a' mortali.
Secondo il
sistema storico,
le Deità diffusero i loro benefizi più
particolarmente alla Grecia antica
dov'ebbero l'origine, e all'Italia dov'hanno
trasferita la loro sede.
Secondo le
idee metafisiche,
la grazia è una delicata armonia che
spira (?) contemporaneamente spontanea
dalla beltà corporale, la bontà del cuore e
la vivacità dell'ingegno, congiunto in sommo
grado in una sola persona, e che
ingentilisce sommamente (?) e consola
la vita educando gli uomini all'idea
divina del bello, al piacere della virtù ed
allo studio delle arti, che con l'imitazione
possono perpetuare e moltiplicare gli
effetti delle Grazie .... nelle poche
persone che sono... ornate di mano della
natura.
Questi tre
sistemi, poetico
storico e metafisico, costituiscono
la macchina del Carme, che è tutto
allegorico.
Per
questo:
il
primo Inno è
intitolato Venere, divinità che ha per
distintivo la bella natura apparente;
il
secondo Inno è
intitolato Vesta, nume verginale e custode
del fuoco eterno che anima i cuori gentili;
il
terzo Inno è
intitolato Pallade, dea delle arti
consolatrici della vita e maestra degli
ingegni.
- ma
quanto al disegno aggiungi a questa la prima
nota dell'Inno secondo; e quanto allo stile
la prima del terzo, e avrai un'idea generale
del Carme.
Mentre
lavorava al Carme un complesso di fatti, e
soprattutto l’amore per la Bignami, lo
costringe a partire da Bellosguardo per
Milano il 24 luglio. Un mese dopo, ai primi
di settembre, se ne allontana per andare a
fare una rapida visita ai suoi familiari a
Venezia; riparte per Firenze dove resta un
paio di mesi per tornare a Milano. Si reca a
casa Bignami, ma una grave malattia colpisce
il maggiore dei suoi figli: ma una volta
guarito il bambino si acuisce la gelosia del
marito nei confronnti di Foscolo che è così
costretto a spezzare in pratica il rapporto
con la donna.
Ma forse
il ritorno a Milano non era stato causato
tanto dall’amore per la Bignami, quanto da
una nuova conoscenza amorosa che aveva il
nome di Lucietta Battaglia, per la quale era
funestamente impazzito, come scrive
alla Quirina Magiotti.
Verso la
fine del 1814 scrive alla Magiotti che ha
ormai quasi terminato il Carme alle
Grazie, ma non finito: ma il destino
stava per portare definitivamente il poeta
fuori dall’Italia. Costretto dalle nuove
vicissitudini abbandona il Carme per non
porvi più mano, pur ripensandoci qualche
volta, come è dimostrato in due lettere del
1818 (alla Magiotti e a Silvio Pellico).
In
edizione HTML presentiamo le tre più
importanti edizioni del Carme:
a)
l’edizione Chiarini, del 1904, sicuramente
la più importante sul piano critico, l’unica
pubblicazione che cerca di mettere insieme i
frammenti seguendo il Sommario terzo
senza violentare la volontà del poeta con
aggiunte arbitrarie o altro e proponendo ai
lettori tutti i frammenti dei tre Inni per
un totale di circa cinquemila versi;
b)
l’edizione Ferrari, che parte dall’edizione
Chiarini, ricalcandola e togliendo quelle
parti che non corrispondono alla volontà del
poeta;
c)
l’edizione Orlandini del 1848, che il
critico fece servendosi anche dei
suggerimenti della Magiotti (la Donna
gentile): Orlandini presentò il Carme in tre
Inni
Nella
Dissertazione, scritta in inglese nel
1822 e che noi offriamo integralmente in
edizione HTML e in italiano, critici più
recenti hanno individuato un ulteriore
sommario, o meglio un racconto del carme,
non diviso rigidamente in tre inni,
presentato come i resti di un antico inno
greco:
"I frammenti di quest'inno greco sono per
verità curiosissimi e di grande
importanza, conservando tradizioni che ci
erano sconosciute fin qui, intorno alla
mistica mitologia delle Grazie. Noi li
produrremo qui in una versione italiana,
dando loro talvolta forma di parafrasi, e
traducendoli talvolta letteralmente.
Le Grazie erano Deità poste in mezzo fra
gli uomini e gli Dei; abitavano sulla
terra invisibili ai mortali, eppur facendo
sentire intorno i buoni effetti di lor
presenza. Secondo il sistema simbolico del
politeismo che assegnava un pianeta a
ciascun iddio, il globo della terra
consideravasi sottoposto alla immediata
influenza d'Amore, il quale fecondandolo,
infiammava tutti i suoi abitatori di
ardenti passioni, simili a quelle che
tuttavia imperversano tra le belve e i
cannibali. Venere, che secondo lo stesso
sistema era il simbolo della natura
universale, mossa a pietà del genere
umano, vedendo che esso non era capace di
migliorare e perfezionarsi, creò le Grazie
e primamente comparve con esse a Citèra.
Colà, non si erano mai udite preci ai numi
- nè mai vedute danze giulive - nè cantici
d'imeneo erano mai risuonati; ululati di
bestie rapaci e latrar di cani ferivano
l'aria di continuo; e tutto era pieno di
terrore e spavento pel fischiar degli
strali, per le grida degli uomini
contendentisi l'orso da loro ucciso, e pei
gemiti dei cacciatori feriti. Cerere avea
fatto loro, già tempo, il dono
dell'aratro, e, provvida Dea, avea
chiamato Bacco che adornasse di vigneti i
colli di Citèra. - Ma indarno: il vomere
irrugginì abbandonato entro il solco che
appena avea cominciato a segnare; e i
grappoli furono divorati, prima che
cominciassero a imporporarsi dei raggi di
un sole d’autunno. Ma non sì tosto
comparve Venere con con le Grazie in mezzo
agli abitatori di Citèra, i cacciatori, le
donnzelle, i fanciulli lasciarono cadersi
di mano gli archi e gli strali e d'un
tratto passarono dal terrore alla
meraviglia, dalla ferocia alla gentilezza:
lasciarono la caccia e divenner pastori.
Non prieghi d'inni o danze
d'imenei,
Ma di veltri perpetuo l'ululato
Tutta l'isola udia, e un suon di
dardi,
E gli uomini sul vinto orso
rissosi,
E de’ piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l'aratro
A que' feroci; invan d'oltre
l'Eufrate
Chiamò un di Bassarèo, giovane
dio,
A ingentitir di pampini le rupi:
Il pio strumento irrugginia su'
brevi
Solchi, sdegnato; e divorata,
innanzi
Che i grappoli recenti
imporporasse
A' rai d'autunno, era la vite: e
solo
Quando apparian le Grazie, i
cacciatori
E le vergini squallide, e i
fanciulli
L'arco e il terror deponean,
ammirando. |
All’apparir delle Grazie, la terra si
coperse di fiori; ma quelli esseri divini
non se ne adornarono: Venere solamente:
Mille
habet ornatus, mille decenter habet.
Le
Grazie son sempre ignude, adorne di loro
natia amabilità, protette dall'innocenza
propria e dalla innocenza che ispirano,
Gratia
cum Nymphis geminisque sororibus audet
Ducere nuda choros.
Intrecciano viole e rose bianche, e quelle
trecce avvolgono a un ramoscello di
cipresso, e aggiuntevi delle perle (le
perle che coronavano Venere quando emerse
dal fondo dell'oceano) offrono siffatta
ghirlanda alla madre loro. D'allora in poi
i Greci usarono sempre di cantar inni alle
Grazie all'ombra del cipresso e di offrire
sul loro altare una tazza di latte
ghirlandata di bianche rose, perle e
viole. - I versi che seguono sono tradotti
letteralmente da uno dei frammenti greci.
Fu quindi
Religïone di libar col latte
Cinto di bianche rose, e cantar
gl'inni
Sotto a' cipressi ed offerire
all'ara
Le perle, e il primo fior nunzio
d'aprile, |
Donde
appare che le offerte di tortore, colombe
e frutta che, nel romanzo pastorale di
Longo, Dafni e Cloe porgono alle tre
Grazie, debbono essere innovazioni di una
età posteriore. Secondo i riti più
antichi, i sacrifizi alle Grazie erano di
latte, in memoria della introdotta vita
pastorale, le cui pacifiche arti eran
succedute alle selvagge abitudini della
caccia; e si usavano ghirlande di cipresso
per ciò che il cipresso era fra gli
emblemi della morte, non obliata mai dagli
antichi nelle festive adunanze: e quella
mesta allusione che spesso incontrasi nei
canti dei conviti e nelle giulive canzoni
d'Anacreonte e d'Orazio non solamente ha
in sè un proposito morale, ma fa ancora in
poesia l'effetto d'un chiaroscuro.
L'idea
di rappresentare le Grazie come ancelle
ministre di Venere, addette all'uffizio di
ornarne la persona, sembra venuta dopo i
tempi di Omero. Ma siccome, nel vero,
tutti gli allettamenti della bellezza
derivano dalle Grazie, l'allegoria fu
immaginata acconciamente, ed ha suggerito
molte belle immagini ai poeti antichi, ed
eleganti composizioni e disegni agli
artisti.
In
quest'inno greco Venere si fa vedere nel
momento che sorge dall'Oceano; ed una
delle Grazie asterge le chiome stillanti
della Dea e le compone a trecce; un'altra
invita i Zeffiri a predar l'ambrosia dal
seno di Venere per fecondarne i fiori di
primavera; mentre la terza spande un velo
su le belle forme della Dea, affinchè non
sieno profanate dal cupido sguardo degli
uomini ispidi ancora ed incolti.
L'una tosto a la Dea col radïante
Pettine asterge mollemente e
intreccia
Le chiome de l'azzurra onda
stillanti;
L'altra ancella a le pure aure
concede,
A rifiorire i prati a primavera,
L'ambrosio umore ond'è irrorato il
petto
De la figlia di Giove; vereconda
La lor sorella ricompone il peplo
Su le membra divine, e le contende
Di que' mortali attoniti al desio. |
Tutti i pensieri ond'è
composto l'estratto seguente si trovano in
diversi frammenti dell'inno; e provano
abbastanza, che gli antichi credevano la
coltura della razza umana essere stata
opera delle Grazie.
Poichè Venere ebbe dapprima
introdotto le Grazie alla vista dei
mortali in Citèra, le lasciò per tre
giorni andare per la Grecia; la cui
geografia è così descritta da mostrare o
che il poeta appartenne ad un'età
antichissima, o che egli desiderò far
credere che il suo inno era di quelli
attribuiti ad Omero.
" Citèra
non era ancor circondata dalle onde del
mare: perchè là, dove ora noi vediamo le
navi spander le vele ai venti, i nostri
maggiori vedeano una negra foresta
stendersi coll'ombra sua. "
" Di là
il culto degli Dei era sbandito, i figli
della terra si guerreggiavano l'un l'altro
a morte; e il superstite vincitore facea
convito delle membra del caduto nemico.
Come prima quei selvaggi ebber visto il
carro delle Grazie e della madre,
mandarono orrende grida e misero mano ai
ferri. La Dea stringendosi al seno le
giovinette figlie trepidanti e coprendole
del suo velo gridò: - Sommergiti, o
foresta! - e di subito la foresta e il
terreno ond'era surta e che allora
congiungeva Citèra al continente della
Laconia, disparve e fece via al mare. "
Ancor Citèra
Del golfo intorno non sedea regina;
Dove or miri le vele alte su l’onda,
Pendea negra una selva ed esiliato
N'era ogni Dio da' figli della terra
Duellanti a predarsi: e i vincitori
D'umane carni s'imbandian convito.
Videro il cocchio e misero un
ruggito,
Palleggiando la clava. Al petto
strinse
Sotto al suo manto accolte, le
tremanti
Sue giovinette, e: Ti sommergi, o
selva!
Venere disse, e fu sommersa. Ahi
tali
Forse eran tutti i primi avi
dell'uomo!
Quindi in noi serpe, ahi miseri, un
natio
Delirar di battaglia; e se pietose
Nel placano le Dee, spesso riarde
Ostentando trofeo l'ossa fraterne. |
" I tre
dì che le Grazie stettero nella Grecia
cangiarono l'aspetto del paese, stato fino
allora irto di foreste e insanguinato dai
cannibali, in un giardino popolato di
cultori. "
Si ha
pure in questi frammenti alcuna traccia di
quelle pratiche religiose che i Greci
primamente sostituirono ai sacrifizi
umani. A spiegar questi versi sarebbe
mestieri avventurarsi troppo nelle
congetture e supplire alle lacune con
tradizioni appartenenti ad altri periodi
dell'antichità.
È ben da
lamentare che i tempi abbian reso quasi
affatto illeggibile un lungo tratto che
sembra aver descritta l'influenza delle
Grazie non solo nel perfezionare e far
progredire le belle arti, ma nel farle
primamente apparire in Grecia. Ciò
nondimeno è chiaro che l'autore dell'inno
seguiva la dottrina, che dall'armonia
riconosceva l'origine delle leggi di
natura e le forme impresse nelle varie
opere della potenza creativa.
Venere,
nel momento di lasciar la terra per
rendersi all'abitazione degli Dei, menò le
Grazie sulla cima del monte Ida, e
pervenuta a quell'altezza dove le creste
del monte apparivano colorate d'un roseo
celeste e dalle stelle pareano effondersi
fiumi di aurea luce, accomiatossi dalle
sue figlie, dicendo loro che, le regioni
celesti essendo felici abbastanza, le
Grazie doveano rimanere alla terra,
dov'erano assai sventure che domandavano
conforto, e il Cielo affiderebbe loro
molti beni da dispensare fra gli uomini. "
Quando gli Dei, continuava Venere, avranno
deliberato di non sopportare più a lungo
le iniquità degli uomini, ma di far loro
sentire quanto pesi la punizione, io vi
ritrarrò nel Cielo framezzo ai turbini e
alle folgori che circondano mio padre, e
voi li mitigherete. Ora io vi lascio, ma
tosto che sarò giunta alle stelle, voi
udirete scendere dal Cielo l'armonia, la
cui virtù solo per voi può esser diffusa
fra i mortali. Essa ispirerà, dirigerà la
mente degli uomini per alleggerirne i
travagli e le pene, e liberarli dal
terrore della morte. I campi elisi vi
saranno anch'essi gradevole albergo; colà
rallegrete del vostro sorriso i poeti che
colsero allori con mani incontaminate,
principi che regnarono benigni, giovani
madri che non diedero mai a suggere ai
loro bamboli il latte di una straniera,
modeste fanciulle che non tradirono mai il
segreto del loro amore, ma nel fior della
vita lo si recarono inviolato nella tomba,
e giovani valorosi che caddero combattendo
alla difesa della patria. Siate immortali,
ed eterna sia la vostra bellezza. "
Mentre
proferiva queste ultime parole, e fissi
gli occhi intentamente nelle figlie, la
Diva impartì loro la carnagione e la
freschezza dell'aurora, e lasciolle. Le
Grazie continuarono a riguardare verso di
lei cogli occhi suffusi di lagrime; ed
ella, quando ebbe quasi raggiunto le
celesti magioni, si volse a guardar le sue
figlie, e disse: " Il destino vi sta
apparecchiando afflizioni che vi faranno
degne di gioja immortale. "
Non
appena la Dea ebbe ripreso albergo nel suo
pianeta, tutto quanto il Cielo fu commosso
delle note giulive dell'armonia
dell'universo.
E solette radean lievi le falde
De l'Ida irriguo di sorgenti; e
quando
Fur più al Cielo propinque, ove una
luce
Rosea le vette al sacro monte
asperge,
E donde sembran tutte auree le
stelle,
Alle vergini sue, che la seguieno
Mandò in core la Dea queste parole:
- Assai beato, o giovinette è il
regno
De' Celesti ov'io riedo; a la
infelice
Terra ed a' figli suoi voi rimanete
Confortatrici: sol per voi sovr’essa
Ogni lor dono pioveranno i Numi:
E se vindici sien più che clementi,
Allor fra' nembi e i fulmini del
Padre,
Vi guiderò a placarli. Al partir mio
Tale udirete un'amonia dall'alto,
Che diffusa da voi farà più liete
Le nate a delirar vite mortali,
Più deste all'Arti e men tremanti al
grido
Che le promette a morte. Ospizio
amico
|
Talor sienvi gli Elisi: e
sorridete
A' vati, se cogliean puri l'alloro,
Ed a’ prenci indulgenti ad a le pie
Giovani madri che a straniero latte
Non concedean gl'infanti, e a le
donzelle
Che occulto amor trasse innocenti al
rogo,
E a' giovinetti per la patria
estinti.
Siate immortali, eternamente belle!
-
Più non parlava, ma spargea co'
raggi
De le pupille sua sopra le figlie
Eterno il lume da la fresca aurora,
E si partiva: e la seguian cogli
occhi
Di lagrime suffusi, e lei da l'alto
Vedean conversa, e questa voce udiro;
- Daranno a voi dolor novello i fati
E gioja eterna. - E sparve; e
trasvolando
Due primi cieli, s'avvolgea nel puro
Lume deiresire suo. L'udì Armonia,
E giubilando l'etere commosse. |
Questa
dottrina dell'armonia dell'universo,
sembra essere stata esposta e invigorita,
anzi che inventata, da Pitagora; essa
attribuisce ogni perfezione od
imperfezione, qualunque virtù o vizio, la
felicità e le miserie che si ritrovano fra
gli uomini ad un maggiore o minor grado di
armonia. Laonde, per rispetto alle belle
arti, come la musica dipende dall'armonia
de' suoni, così la scultura dall'armonia
delle forme, e la pittura dall'armonia
delle linee e dei colori. Nella stessa
guisa il più o meno di felicità goduta da
ciascheduno sta in ragione dell'armonia
che regna nelle sue passioni, e noi siamo
infelici per effetto di discordia o di
dissonanza fra' nostri sentimenti. Scosse
improvvise, commozioni violente,
perturbando, squilibrando la mente umana,
mettono in noi lo stordimento e
l'agitazione, ed allora ne va smarrita
ogni amabile idea, ogni grazioso
sentimento. E però smodata gajezza e
dolore profondo sono ignoti alle Grazie;
queste Deità sorridendo talora con
temperata letizia, e talor sospirando con
gentile pietà, fanno a quando a quando che
l'uom si ricordi di essere stato affidato
alle alterne cure del piacere e del
dolore, come a due guide che debbono
sostenerlo, a correr diritto o sorvolare
per lo spazio di vita assegnatogli. Il
piacere gli dà forza e coraggio a
tollerare, il tocco crudele del dolore,
dal quale gli viene insegnato il cammino
della virtù e della gloria.
Rimembran come il Ciel l'uomo
concesse
A le gioje e agli affanni, onde gli
sia
Librato e vario di sua vita il volo,
E come a la virtú guidi il dolore,
E il sorriso e il sospiro errin sul
labbro
De le Grazie; e a chi son fauste e
presenti,
Dolce in core ei s'allegri e dolce
gema. |
Ma come
le violente passioni avrebbero distrutto
le più miti aspirazioni delle Grazie,
sovvenne al poeta l'avventuroso pensiero
di proteggere quelle Deità con un velo
dagli assalti dell'Amore, che governa
questo globo impetuosamente e da tiranno.
È sì trasparen quel velo, che da un lato
non nasconde, dall’altro non adombra le
bellissime forme a guisa di amuleto
invisibile le difende dal fuoco delle
passioni divoratrici.
Di
questo velo fu per avventura creduto che
altro non fosse se non un simbolo di
modestia; ma se si consideri in che modo è
descritto, ci è mestieri supporre che
nella sua allegoria avvolgeasi un senso
più astruso e molteplice. Esso è lavoro di
molte Dee, che sono dirette da Pallade. I
fili dell'ordito son tratti dai raggi del
sole e preparati per il telaio dalle Ore;
una porzione dello stame interminabile
(quello di che il destino fila la vita
degli Dei, e che trasparente e flessibile
come l'aria ha di più lo splendore e la
durezza del diamante) è messo sulla spola
dalle Parche. Psiche siede silenziosa,
compresa dalla memoria della lunga serie
dei suoi affanni, e tesse; mentre
Tersicore le si volge intorno al telaio,
danzando per divertirla e animarla a finir
l'opera. Iride dà i colori e Flora li
moltiplica in mille varietà di tinte e
figure, di che eseguire il ricamo, che
Erato le detta cantando al suono della
lira di Talia.
Il
ricamo è fatto di gruppi, che
rappresentano la gioventù, l'amor
coniugale, l'ospitalità, la pietà filiale
e la tenerezza materna. Le immagini e la
morale del gruppo mentovate per ultimo
danno un'idea abbastanza esatta degli
altri.
" Una
giovine madre seduta alla culla del suo
primo nato, temendo che quei gemiti siano
pronostico di vicina morte, si rivolge al
Cielo con tutta la importunità delle
preghiere e delle lagrime. - Oh quanto è
felice quella tenera madre che non sa!
dice Erato a Flora: ella non conosce che
ai fanciulli è la morte un benefizio, e
che i loro pianti sono luttuosi presagi
dei travagli e delle pene a cui l'uomo è
nato. "
Non
appena Flora ha finito il ricamo, l’Aurora
adorna i lembi del velo con rose, ignote
fino allora alla terra, benchè i mortali
ne avessero sentita la fragranza, indizio
d'alcun essere celeste che s'avvicina. Nè
però il velo era compiuto. Ebe viene
tacitamente tra le altre Deità, e dal suo
vaso spande ambrosia sulla tela fatale, e
la rende incorruttibile.
Non è
improbabile che le più antiche pitture
storiche fossero rappresentate per
trapunti nelle vesti. Omero, che non fa
mai motto di pittura, parla degli arazzi
come di lavori cui venivano avvezze le
figlie e le mogli dei re. Quando Paride si
arma per andare a combattere con Menelao,
Elena siede al telaio:
tessea
A doppia trama una splendida e larga
Tela, e su quella istorïando andava
Le fatiche che molte a sua cagione
Soffriano i Teucri e i coturnati
Achei. |
L'espediente cui s'appigliano talora i
poeti, di descrivere pitture e sculture
storiche, invece di parlare in loro
propria persona, produce il doppio
vantaggio e di variare il tono della
narrativa e d'introdurre episodi con più
naturalezza. Virgilio ed alcuni epici
moderni nel valersi di questo privilegio
ne hanno abusato, e senz’aggiungere alcuna
novità all’antico espediente, le loro
imitazioni rimangono di gran lunga
inferiori alla descrizione degli scudi di
Achille e di Ercole lasciataci da Omero e
da Esiodo. Ma il trapunto del velo delle
Grazie, benchè sembri ispirato dagli
stessi prototipi, è nondimeno trattato in
guisa, che ha vista di concepimento
originale. Figure e gruppi non sono
descritti dal poeta, ma Flora li disegna
ella medesima, e li colorisce ammaestrata
da Erato, e pare, mentre noi stiamo
ascoltando il canto delle Muse, che quelle
figure l'una dopo l'altra sorgano e si
muovano innanzi agli occhi nostri. Anche
il concetto morale di esso è ovvio; perchè,
sebbene Aristotile, o piuttosto i
dommatici interpreti de' suoi oracoli,
insegnino il contrario, i poeti non devono
scriver versi a diletto solamente degli
oziosi: gli antichi fecero ciò veramente,
in special modo quelli che scriveano inni
da esser cantati nei tempj mentre venivano
offerti i sacrifizi nelle feste solenni.
Quanto a tutti gli altri inni pervenuti
fino a noi (da quelli attribuiti ad Omero
ed Orfeo a quelli de' poeti della scuola
alessandrina), il misticismo di che sono
avviluppati era inteso a farne altrettanti
strumenti che consacrassero e
conservassero favolose tradizioni e riti
di culto, piuttosto che a dirigere gli usi
e costumi. Forse il solo che fa eccezione
a ciò è il carme secolare di Orazio.
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http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/bios/bio048.htm
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