Ugo Foscolo nacque a Zante, una delle isole
jonie dipendenti dalla repubblica veneta, il
6 febbraio 1778. Il padre fu Andrea, medico
in quella città: la madre, la bella e dolce
Diamantina Spathis, già vedova di Giovanni
Aquila Serra genovese. Ugo era il maggiore
di parecchi fratelli: Rubina, Gian Dionisio,
Costantino, Angelo, Giulio: che egli amò
tutti paternamente, come teneramente adorò
la madre.
Morto Nicolò, il nonno di Ugo, medico
anch'esso e direttore dell'ospedale di
Spalato, Andrea gli succedette in quell'ufficio.
E della fanciullezza di Ugo, questi di
Spalato furono gli anni più felici. Ma nel
1781 Andrea morì. La vedova Foscolo dovette
spogliarsi d'ogni suo bene dotale, per
soddisfare i creditori del marito. Quindi si
recò a Venezia, dove il marito aveva
lasciato in sospeso alcuni affari. Ugo e gli
altri fratelli ve la raggiunsero verso il
1792. Si stabilirono in una povera casa del
sestiere di Castello.
A Spalato aveva frequentato le scuole del
Seminario. A Venezia fu posto alle scuole di
S. Cipriano, di cui era provveditore Gaspare
Gozzi. È probabile che fosse introdotto
assai presto nel salotto della bellissima
Isabella Teotochi Albrizzi, che forse il
giovinetto amò. Colà conobbe i letterati più
insigni che a quel tempo convenivano in
Venezia: tra gli altri Ippolito Pindemonte e
Melchiorre Cesarotti, che udì, per quanto
saltuariamente, anche dalla sua cattedra di
Padova. Ugo - che credeva più nel genio che
nelle regole - dovette aver cari gli arditi
concetti critici e linguistici del
Cesarotti: benchè egli simpatizzasse con
l'accademia dei Granelleschi, conservatrice
della tradizione letteraria, e si
dichiarasse obbligato al Dalmistro, uno dei
più autorevoli fra quegli accademici. Ma del
Cesarotti il malinconico e fantastico
giovinetto lesse avidamente l'Ossian. Non
però meno lo sedusse l'Alfieri. E una
tragedia alla maniera alfieriana, il Tieste,
rappresentò il 4 gennaio 1797 al teatro S.
Angelo. Piacque tanto, che fu ripetuta per
nove sere consecutive. E il giovanissimo
autore - che fin allora si era provato in
liriche passionali e filosofiche di assai
scarso valore - divenne celebre.
Ma Ugo credette di ritrovare se stesso,
quando gli eserciti del Buonaparte
proclamarono la libertà d'Italia e
minacciarono di invadere l'antica
repubblica. Democratico convinto, il
Foscolo, sin dall'anno precedente, aveva
scritto un fiero sonetto contro la
neutralità di Venezia: e quindi (a scampare
da possibili persecuzioni) si era rifugiato
a Bologna nella Cispadana, arruolandosi
volontario dei cacciatori a cavallo. A
Bologna, nel '97, scrisse la sua sonante ode
Bonaparte liberatore, offrendola ai
cittadini di Reggio, che, primi in Italia,
avevano accolto la rivoluzione. Quando,
abolito il governo della Serenissima, si
fondò in Venezia una municipalità
provvisoria, il Foscolo credette suo dovere
di ritornare subitamente nella sua patria di
elezione. E nei pochi mesi di vita che ebbe
la costituzione repubblicana, egli militò
costantemente nel partito più avanzato e più
puritano e più ingenuo. Fu dei quattro
secretari della municipalità, con incarico
di redigere i verbali: ma più pienamente
espose e difese il suo catechismo di libertà
nella Società della pubblica istruzione, ove
una volta biasimò come nemico della
rivoluzione persino l'Alfieri. Ma spesso
anche parlò contro i demagoghi e gli
"ipocriti della libertà", peggiori dei
tiranni, e ne proponeva lo sterminio, non
senza meraviglia del presidente, che non li
credeva così terribili. In una delle ultime
adunanze caldeggiò una milizia nazionale,
con implicita riprovazione delle milizie
francesi, spadroneggianti in Venezia. E con
l'animo forse già dubitante dei sentimenti
liberali del Buonaparte, scrisse l'Ode ai
Repubblicani: che è un invito ai cittadini
veri a cercare - se la patria sarà oppressa
- la libertà nella morte.
Il trattato di Campoformio, onde Venezia era
ceduta all'Austria, fu per il Foscolo, anche
più che una delusione, una lezione: di
quelle che insegnano molte cose e capitali.
Di lì nacque in lui quella diffidenza, se
non pur quell'odio, verso il Buonaparte e la
democrazia francese, che non lo abbandonò
mai più; di lì sgorgò, o trovò conferma, il
suo desolato credo pessimistico: che il
mondo è dei forti e degli astuti. Di lì
sorse il concetto che l'Italia non deve
attendere la sua risurrezione che da sé e
dalle sue energie: e si iniziò il culto
appassionato per le tradizioni della patria,
violate tutte nel dispregio che il Bonaparte
mostrava per la più antica delle nostre
repubbliche.
Ceduta Venezia all'Austria, pare che il
Foscolo fosse di quelli che proponevano di
dare il fuoco alla città, prima che
lasciarla invadere dallo straniero. Certo
uno spirito libero come il suo non poteva
rimanere sotto il nuovo governo. Che se il
governo francese aveva così oltraggiata la
sua Venezia, la Francia significava pur
sempre la libertà, e l'avvenire. Ugo venne a
Milano, ove chiese ed ottenne la
cittadinanza nella repubblica Cisalpina.
Divenne redattore del Monitore italiano, col
Custodi e col Gioia: specialmente doveva
compilare le relazioni delle sedute del
corpo legislativo e quelle del Consiglio dei
Seniori, e soggiungervi le sue osservazioni:
ufficio da censore più che da pubblicista.
Non tacque dei soprusi delle soldatesche
repubblicane: non delle pertinaci prepotenze
del patriziato: come in una lettera al
cittadino Soprausi ministro di polizia, ove
deferisce un cocchiere che era per
stritolare un vecchio e un bambino, e
propone rigide pene, e contro i cocchieri
protervi, e contro i padroni delle carrozze.
Rivide a Milano il Monti, già conosciuto da
lui a Bologna, e poi presentato a Venezia
alla Società per l'istruzione pubblica. È
probabile s'invaghisse della moglie del
Monti, la bella Teresa Pickler. Comunque sia
di ciò, al Monti si legò di viva amicizia. E
perché il poeta era attaccato dai suoi
nemici, che gli ricantavano l'accusa di aver
lodato i vecchi governi, Ugo sorse
coraggiosamente a difenderlo, nello Esame su
l'accuse contro Vincenzo Monti. E da quella
demagogia, che il Monti avrebbe poi
flagellato nella Mascheroniana, il Foscolo
si staccava violento. Né sopportava la
mentalità tutta borghese dei nuovi
legislatori francesizzanti: onde il
magnanimo e italianissimo sonetto contro la
soppressione nelle scuole della lingua
latina, proposta dal gran Consiglio
Cisalpino nel 1798. Il Foscolo era coi
pochi, insigni per virtù propria, non per
riflesso altrui: coi pochi, già liberi
nell'animo, assai prima che la libertà fosse
proclamata nelle assemblee. Tipo di questi
pochi solitari il vecchio Parini, che il
giovine scrittore del Monitore conobbe alla
vigilia della morte e venerò; e ne fece
l'apoteosi nell'Ortis e nei Sepolcri e nelle
lezioni di eloquenza a Pavia.
Nell'aprile del 1798 il Monitore, troppo
libero e troppo italiano, fu soppresso:
incarcerato il Custodi, perseguiti e
vigilati il Gioia e il Foscolo: i quali
fondarono un giornale anche più arditamente
italiano, l'Italico: che il governo lasciò
vivere soltanto pochi mesi.
Necessità di pane trassero allora il Foscolo
a Bologna, ove ebbe un modesto impiego
cancelleresco alla sezione criminale del
Dipartimento del Reno. E a Bologna, dal
Marsigli, fece stampare - senza però
pubblicarla - la prima parte delle Lettere
di Jacopo Ortis: molto diverse dalla
edizione definitiva: ove protagonisti sono
una vedova, Teresa, una sua figliuoletta,
Giovannina, Odoardo, promesso sposo di
Teresa, e Jacopo Ortis. Ma, alla notizia che
gli Austro-russi invadevano l'Italia, il
Foscolo riprese servizio come luogotenente
della guardia nazionale di Bologna, che dava
la caccia ai contadini insorti; si trovò
alla ripresa di Cento, le cui mura scalò per
primo, e fu ferito d'un colpo di baionetta
in una coscia.
Intanto il Marsigli - che aveva fretta di
terminare e pubblicare il romanzo - con una
leggerezza forse unica nella storia degli
editori - almeno degli editori di autori
viventi — affidò la prosecuzione del romanzo
a un Angelo Sassoli bolognese, dottore di
leggi e giornalista, che continuò
sguajatamente e secondo un piano suo
l'Ortis. Così terminato, anzi deformato, il
romanzo uscì, nei primi di giugno del '99,
con il titolo Ultime lettere di Iacopo Ortis
MDCCXCVIII, anno VII. - (Era il titolo che
il Foscolo aveva dato alla prima parte). -
Ma come, il 30 giugno, gli eserciti
austro-russi entrarono in Bologna, le copie
già in vendita del libro furono ritirate; e
dopo lievi modificazioni, perchè l'opera non
avesse a incorrere nella censura della nuova
polizia, il romanzo fu rimesso in vendita in
due volumetti, col titolo Vera storia di due
amanti infelici, ossia ultime lettere di
Iacopo Ortis, 1799. E riapparve, nel 1801,
al ritorno dei Francesi, nella forma e col
semplice titolo primitivo.
Ma il Foscolo non pensava allora più a
continuare l'Ortis: pensava a combattere. Al
seguito del generale Macdonald fu alla
Trebbia. Negli ultimi del giugno 1799, con
le milizie Cisalpine e Francesi, fu a
Firenze: e vi conobbe il Niccolini. Forse
partecipò alla battaglia di Novi, del 15
agosto. Finalmente riparò in Genova, stretta
d'assedio dagli Austro-russi padroni di
tutta l'Italia settentrionale, e difesa dal
generale Massena. In Genova pubblicò
l'ardito Discorso sull'Italia al generale
Championnet, pieno di idee che noi diremmo
socialistiche: ristampò l'ode al Buonaparte,
con una lettera, ove rimprovera all'eroe il
traffico di Venezia, e l'ammonisce a non
cedere alla tentazione di farsi tiranno.
Corteggiò la marchesa Luisa Pallavicino, e
scrisse un'ode famosa, quand'ella fu gettata
da cavallo, in una sua passeggiata verso
Sestri. Nel dicembre gli fu imposto di
partir per la Francia: giunse a Nizza, e
doveva proseguire per Dijon: ma preferì ed
ottenne di ritornare a Genova, dove pure
l'epidemia e la fame facevano strage. Fu
aggregato al generale Fantuzzi. Si segnalò
alla ripresa del forte dei Due fratelli: fu
ferito al piede nel vano tentativo di
riconquistar la Coronata: quando perì il
generale Fantuzzi, nel quale il Foscolo
vedeva raffigurato tutto il valore italiano;
e ne fece poi eloquente ricordo nella
orazione per i Comizii di Lione.
Arresosi, il 4 giugno, l'eroico presidio, i
vinti, com'era nei patti, furono, su navi
inglesi, sbarcati ad Antibo. Ma la vittoria
di Marengo aveva riaperto loro l'Italia. Il
Foscolo corse a Nizza di Monferrato, dov'era
il quartiere generale: di lì a Milano: dove
venne aggiunto allo stato maggiore del
generale Pino. Fu in questi tempi, per
ragioni del suo ufficio, in più luoghi: a
Lugo, per esterminarvi i briganti: più volte
a Bologna, nel novembre 1800 a Firenze.
Quivi rivide il Niccolini: e conobbe la
giovinetta Isabella Roncioni, destinata
sposa ad un marchese Pietro Bartolomei
fiorentino, che essa non amava. Era forse la
prima volta che si presentava al Foscolo una
bellezza pura e verginale. L'adorò. Sentì
allora il bisogno di continuare l'Ortis, di
trasformarlo. Gli venne alle mani la Vera
istoria dei due amanti infelici metà sua,
metà del Sassoli, anonima, ma col suo
ritratto. Indignato dello strazio fatto
dell'opera sua, pubblicò nella Gazzetta di
Firenze del 3 gennaio 1801 e nel Monitore
Bolognese del 4 un rifiuto di riconoscere
per sue le tre edizioni da lui vedute
dell'Ortis, "apocrife e adulterate dalla
viltà e dalla fame": le aggiunte del Sassoli,
che passava per il raccoglitore delle
lettere, proclamò un "centone di follie
romanzesche, di frasi adulterate e di
annotazioni vigliacche". Riprese il romanzo.
La Teresa, la vedova Teresa, che forse in
origine era stata delineata col pensiero
alla Monti o alla Isabella Albrizzi, diventò
una giovinetta, che adombrò la Isabella
Roncioni. La prima parte del romanzo, così
rifatta, comparve con la indicazione Italia,
1801 (rarissima: se ne conserva un esemplare
a Weimar, mandato dal Foscolo al Goethe, il
cui Werther tanto influì sull'Ortis).
Nell'ottobre del 1802 il romanzo fu
pubblicato intiero a Milano, dal Genio
tipografico: e fu dei più notevoli
avvenimenti letterari dei primi anni
dell'800.
Due anni prima della pubblicazione del
romanzo, il Foscolo era ritornato a Milano.
Ma le ostilità, in alto, contro il poeta,
che non aveva cantato Marengo,
incominciarono. Non gli fu conceduto il
brevetto di capitano. Non era pagato dei
suoi stipendi, o solo in parte e a fatica.
In una lettera nobilmente sdegnosa, egli
domandò le sue dimissioni. Il Monti e altri
amici si interposero. Gli fu concessa la
paga di capitano aggiunto, ed affidatagli la
compilazione di una parte del codice
militare.
Ma si era fatto troppo mondano. E gli
bisognavano danari molti. Giuocava, perdeva.
Un amore malefico e reale contrastava in lui
l'amore, fatto di fantasia e di memoria, per
la Roncioni. Mentre scriveva il romanzo così
appassionato e così puro, una donna
milanese, famosa per bellezze e per licenza,
traduceva per lui in italiano il Werther del
Goethe: la contessa Antonietta Fagnani,
moglie dei conte Marco Arese, figlia di una
marchesa Fagnani, già fatta conoscere al
mondo dall'amabile mordacità dello Sterne.
Documento del violento amore del Foscolo,
c'è tutto un epistolario. Egli, come sempre
gli accadde, amò quella donna con serietà,
con intensità. Ma la donna era infedele e
raggiratrice. I rivali parecchi e indegni.
Dopo due anni di passione esaltata, di
rancori, di sospetti, di umiliazioni, Ugo si
liberò da quella catena.
Ma il Foscolo non aveva soltanto fatto
all'amore in quei due anni. Alle censure
contro il Buonaparte, che si leggono nel
romanzo, egli preparava gli Italiani con una
Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione,
pubblicata nel gennaio 1802. A Lione il
primo console aveva convocato 450 Italiani,
perchè deliberassero intorno alle sorti
della Repubblica Cisalpina: che fu poi
chiamata Italiana, ed ebbe presidente esso
il Buonaparte, e vice-presidente il Melzi.
Il governo commise al Foscolo l'orazione: il
quale, se, con molto impeto declamatorio,
esalta il Buonaparte come "liberatore di
popoli" e "fondatore di repubblica", con
molto calor di eloquenza accusa i demagoghi,
che in nome di lui e della libertà francese
malversavano i popoli della Cisalpina. -
Dopo l'Ortis, nel 1803, il Foscolo
raccoglieva, dedicandoli al Niccolini, i
suoi versi, rifiutando tutti gli altri
divulgati innanzi, e segnatamente l'ode a
Bonaparte liberatore (e probabilmente non
per la sola inferiorità artistica) e il
Tieste; e ne faceva tre edizioni, l'ultima,
la più ricca, comprendente 12 sonetti, l'ode
alla Pallavicini, e l'altra all'Amica
risanata. Nella quale ode, la deificazione
che il poeta fa della donna, la contessa
Fagnani, ritornata gloriosamente e
freddamente bella, non è senza richiamo alle
idee sulla poesia, svolte nella Chioma di
Berenice (pubblicata nel luglio del 1803),
anch'essa dedicata al Niccolini: traduzione
del carme di Callimaco, già voltato in
latino da Catullo, accompagnata da un
commento perpetuo e preceduta e seguita da
considerazioni sulla indole e gli uffici
della poesia e, forse con allusione agli
adulatori napoleonici, sulle apoteosi, che i
poeti sogliono fare dei principi e degli
eroi. Opera scritta in meno di tre mesi,
composta specialmente contro i pedanti e gli
accademici, a dimostrare quanta era dottrina
nell'autore o quanto gli era facile
acquistarla; ma il pensatore rompe continuo
di sotto l'erudito, come già negli scritti
dell'abate padovano Angelo Conti, che il
Foscolo stimò gran demente, e i cui Saggi
qui pare tenesse a modello.
Continuando nelle strettezze, il Foscolo
pensò di abbandonare la milizia. Chiese di
esser mandato segretario di legazione, o a
Parigi, o in Toscana. Da Parigi si rispose
che il Foscolo era "testa assai calda": che
il Console voleva riservata a sé la nomina
dei ministri e dei segretari di legazione. E
il Foscolo, che si teneva già sicuro di
andare almeno in Toscana, non fu nominato:
sgradito come pare che fosse al generale
Murat, comandante supremo dell'esercito
franco-italiano.
Domandò allora il poeta di prender parte
alla spedizione, che il Bonaparte preparava,
o mostrava di preparare, contro
l'Inghilterra, radunando un esercito sulle
coste della Piccardia e della Normandia, nel
quale aveva piacere di arruolare Italiani,
per "donner de l'orgueil et de la fierté
nationale à la jeunesse italienne ", come
diceva in una lettera al vice-presidente
Melzi; e l'unico merito, rispetto
all'Italia, che il Foscolo riconobbe in
Napoleone fu appunto di aver data coscienza
di sè e disciplina militare agli Italiani,
imbelli e fiaccati da secoli di servitù. Non
senza difficoltà fu accolta la domanda del
poeta.
La divisione italiana si mosse nel novembre
del 1803. Ma solo nell'aprile del 1804 il
Foscolo, addetto allo stato maggiore del
generale Pino, col grado di capitano, ebbe
l'ordine di recarsi a Valenciennes. Partì,
molestato dalla indigenza, e col rammarico
di sapersi alienato l'animo del Melzi,
presso cui, in una lunga lettera rimasta
incompiuta, cercò di scolparsi. Confinato a
Valenciennes, al comando delle reclute e
degli invalidi, chiese il posto di
capo-battaglione, che non gli fu conceduto
nè allora nè più tardi: giacchè il Murat,
divenuto governatore di Parigi, " cuore di
leone e testa d'asino", come il Foscolo
l'ebbe più tardi a chiamare, non gli volle
perdonare la troppo franca italianità
dell'orazione pei Comizii di Lione. Il
Foscolo si discolpò al Murat per lettera, e
gli mandò l'orazione: nessuna risposta:
bensì, dall'alto, l'ammonimento a non mandar
più lettere chiuse al governatore di Parigi.
Ogni speranza di avanzamento era finita. Il
Foscolo si confortò come spesso, troppo
spesso, nell'amore. Ammesso in una famiglia
inglese prigioniera a Valenciènnes, vi
conobbe la signorina Sofia o forse Fanny
Emeryth: dalla quale apprese gli elementi
della lingua inglese, e la lasciò con nel
grembo una creatura sua, quella Floriana,
che apparirà, poi, inaspettata, a
confortare, o forse a turbare di rimorsi,
gli ultimi anni del poeta.
Ma tenuto basso dai superiori, il Foscolo
tanto più si affezionava agli inferiori. Fu
patrocinatore dei rei nei tribunali di
guerra; ed è a stampa la difesa che fece del
sergente Armani; accusato di tentato
assassinio del suo capitano. Finalmente fu
mandato a Calais, ispettore delle truppe
imbarcate. Di qui mandò al Monti la
Epistola, commovente di nostalgia, amara di
scetticismo. E quivi in quel facile mondo di
ufficiali francesi ed italiani - corteggiò
più d'una donna, e più puramente e
lungamente delle altre la giovinetta figlia
dell'intendente generale Claudio Pètiet.
Ma l'imperatore sospese l'impresa contro
l'Inghilterra, volendo prepararsi alla
campagna contro l'Austria, del 1805. Gran
parte dell'esercito fu richiamato e il
Foscolo fu destinato a Boulogne: ove ingannò
l'ozio dell'attesa e sfogò il malumore,
traducendo il Viaggio sentimentale dello
Sterne, e riassumendo la sua vita, o meglio
ritraendo il suo carattere e il suo credo
filosofico e morale, nella Notizia di Didimo
Chierico.
Nel gennaio 1806, poiché la spedizione
contro d'Inghilterra pareva aggiornata a
maggio, il Foscolo ottenne un permesso di
quattro mesi, per ritornare a Venezia.
Passando da Parigi, ebbe la debolezza di
pregare - naturalmente invano - per ottenere
le decorazioni della Legion d'onore e della
Corona di ferro. Colà visitò anche il
giovane Manzoni da lui conosciuto a Milano,
e che tra breve avrebbe ricordato, con tanta
lode, in una nota dei Sepolcri: e da lui, e
più dalla madre contessa Beccaria, ebbe una
accoglienza fredda, che lo amareggiò. Era a
Milano nel marzo, donde partì per Venezia.
Vi rivide la madre, la sorella, l'Isabella
Albrizzi Teotochi, più che mai letterata e
autorevole fra i belli ingegni letterati.
Passati i quattro mesi, ritornò, renitente,
a Milano. A Padova visitò il Cesarotti, che
tra qualche anno gli divenne nemico, quando
il Foscolo fu sospettato autore di un
mordacissimo epigramma contro la Pronea,
poema che e tutto un'apoteosi di Napoleone.
A Verona rivide il Pindemonte, che gli lesse
saggi della versione dell'Odissea, e forse
anche il primo canto di un suo poema sui
Cimiteri, rimasto incompiuto dopo la
comparsa dei Sepolcri: e poté essere
eccitamento al carme foscoliano, se un
poema, dove il Foscolo gittò tutto sè
stesso, aveva bisogno di eccitamenti od
occasioni esteriori.
A Milano era ministro della guerra il
generale Caffarelli, che molto amò il
Foscolo e comprese che egli aveva più
diritti ad affermarsi come uomo di lettere
che obblighi di mostrarsi ufficiale modello.
Lo incaricò della traduzione dei Commentarj
della battaglia di Marengo del generale
Alessandro Berthier, e lo volle a Milano a
sua disposizione, senza nessun obbligo di
servizio militare.
La libertà, almeno parziale, di cui venne a
godere, la vicinanza del Monti che gli aveva
letto l'Iliade e il Bardo (sul quale scrisse
un articolo di molta lode), la oramai sicura
coscienza delle proprie energie nella
pienezza dell'ingegno e dell'età,
rianimarono il Foscolo alla produzione
poetica, oltrechè agli studi negli antichi:
cose che in lui, il quale leggeva col cuore
e trasferendo sempre sè nel passato e il
passato nel presente, andavano di pari
passo. Meditò molti Inni (uno sui cavalli):
distese l'inno alla Nave delle Muse, che è
frammento di un poema dal titolo Alceo:
compose - ma restò incompiuto - un Sermone,
oscurissimo, non meno contro i suoi nemici
letterari che contro la strapotenza di
Napoleone. Continuò la traduzione
dell'Iliade, già incominciata in Francia. E
credette giovare agli Italiani col
diffondere quella educazione e quegli
spiriti militari, che più in essi si
desideravano. Onde imprese a illustrare le
opere di un grande capitano italiano,
Raimondo Montecuccoli, non conosciuto sino
allora che in una pessima versione francese:
e letto poi nella edizione del Grassi, assai
migliore di quella del Foscolo.
Nel gennaio del 1807 si recò a Brescia, per
intendersi col tipografo Bettoni; e a
intervalli vi rimase fino al settembre,
attratto dall'amenità del luogo, dalla
cortesia degli amici e dalla simpatia per la
contessa Maria Martinengo Cesaresco. Quivi
pubblicò, nei primi d'aprile, coi tipi del
Bettoni, i Sepolcri; e negli ultimi
l'Esperimento di traduzione dell'Iliade:
contenente una lettera dedicatoria al Monti,
la versione letterale del primo libro fatta
dal Cesarotti, la versione poetica sua, e di
fronte quella del Monti: oltre alcune
considerazioni del Cesarotti, del Monti e
sue sulla difficoltà di tradurre alcuni
singoli passi di Omero, come il cenno di
Giove.
Specie tra i giovani, i Sepolcri destarono
un'eco di universale ammirazione. Ma un
Guillon, ex-prete francese, nel
francesizzante Giornale italiano, del 22
gennaio 1807, si levò a deprezzare il carme,
di cui non aveva sentita l'alta poesia, ma
solo intuito gli spiriti profondamente
italiani. E il Foscolo dette subito fuori,
ex abundantia cordis una Lettera al Guillon
su la sua incompetenza a giudicare i poeti
italiani: un colpo di scudiscio o di scopa
che fece tacere per sempre i! critico; ma
altri, della stessa specie. avrebbero più
tardi presa la rivincita.
Nel maggio del 1808 uscì il primo volume del
Montecuccoli. E la grave e nobile fatica era
giovata non poco ad ottenere al Foscolo, in
quell'anno, la cattedra di eloquenza
all'università di Pavia; per la quale il
governo gli conservava anche la metà dello
stipendio di capitano: in tutto L. 6600: non
poco per quei tempi, anche se poco alle
voglie da grande signore del Foscolo, che a
Pavia volle mettere su una casa in tutto
punto. Vero è che egli sperava di rimanere
sempre a Pavia, in un ufficio nel quale
avrebbe potuto finalmente affermare tutto se
stesso. Poiché l'insegnamento di eloquenza
non voleva per lui essere precettistica
pedantesca, ma una nuova revisione del
prodotto letterario, ricondotto alla sua
origine psicologica, alla sua ragione di
essere politica e sociale. Ciò che si scorge
dalla prolusione, detta il 22 gennaio 1809,
Dell'origine e dell'uffizio della
letteratura, davanti a un pubblico
numerosissimo, presente il Monti, che
quattro anni innanzi aveva pur parlato
eloquentemente da quella cattedra.
Ma, prima ancora che il Foscolo pronunziasse
quella prolusione, la cattedra, insieme con
altre, fu soppressa: conservato ai
professori lo stipendio per quell'anno:
liberi di fare o no le loro lezioni. Il
Foscolo fece le sue lezioni, che durarono
fin al 6 di giugno; e molto si adoperò,
forse sperò che la cattedra gli fosse
conservata. Ma come si sarebbe fatta una
eccezione per lui, che non aveva invitato
alla prolusione i ministri, e si era
rifiutato, nonostante le insistenze anche
del Monti, di fare in essa il solito encomio
a Napoleone e quello al principe Vicerè?
Con questo atto il Foscolo rivendicava la
libertà delle lettere proclamata dal suo
Alfieri e alla quale si mantenne fedele
tutta la vita. Tanto più spiace che neppure
in quegli anni il poeta sapesse imporsi una
condotta più rigidamente morale. Pare che
troppo approfittasse della onerosità di
amici, come di Ugo Brunetti da Lodi
ispettore nell'esercito, e di Paolo
Montevecchi, marchigiano, studente di
matematica e suo coinquilino a Pavia. Anche,
amico di Paolo Bignami, banchiere a Milano,
amò la moglie di lui Maddalena, che tentò di
uccidersi. per salvarsi dai rimproveri del
marito, finalmente indignato. E insieme alla
Bignami, o forse subito dopo, amoreggiò con
la Francesca Giovio, di Como, figlia del
conte Gian Battista, un letterato e patrizio
all'antica, che voleva un gran bene al
Foscolo. Nell'agosto del 1809 il Foscolo
però scriveva alla contessina, pregandola di
dimenticarlo e di accettare il marito, che
il padre le proponeva: un colonnello, il
barone Vautrè.
Ma, ridotto a vivere a Milano in due
stanzucce, con un assegno annuo di 1000
lire, che egli mandava in gran parte a
Venezia alla sua famigliuola, il Foscolo
espiò duramente la vita spendereccia
dell'anno precedente. Domandò, invano, un
posto d'ispettore nella pubblica istruzione.
Domandò invano la cattedra - allora
istituita a Milano - di eloquenza forense,
data a un poetastro nemico del Foscolo,
Angelo Anelli. Ottenne l'umile ufficio di
correttore delle traduzioni dei componimenti
teatrali per la compagnia dei commedianti
italiani al servizio di S. M. il Re
d'Italia. In quella miseria, che troppo
spesso lo metteva in contraddizione con i
suoi principi d'indipendenza, lo colpirono i
suoi nemici: tanto più fieri contro di lui,
quando alcuni uomini del governo, come il
ministro Vaccari, mostravano di proteggerlo.
E gli aizzarono contro il Monti.
L'inimicizia dei due poeti era, in fondo,
diversità di tempra morale: opposta
concezione dell'ufficio e della dignità
delle lettere. Le occasioni al dissidio
furono parecchie. Il Monti dette una volta
al Foscolo la Palingenesi, perché leggesse,
cioè lodasse: il Foscolo tacque. In un
articolo pubblicato nel più serio periodico
italiano del tempo, gli Annali di scienze e
lettere, il Foscolo disse male dei versi
dell'Arici in morte di Giuseppe Trento; e
dell'Arici parlò poco favorevolmente anche
in casa del ministro Venèri, presente il
Monti: protettore dell'Arici. Il Foscolo
scrisse al Monti una nobilissima lettera,
per chiarire i malintesi. Forse non fu
spedita. Ma nulla avrebbe impetrato dal
troppo vanitoso avversario, che del Foscolo
parla in qualche lettera di quei tempi con
un linguaggio e in una maniera assolutamente
indegna; e lanciò contro di lui un epigramma
troppo più cattivo, che non quello notissimo
attribuito al Foscolo.
Ma, ad irritar più universalmente i
letterati di mestiere, apparve, negli
Annali, un articolo del Foscolo, ove,
riprendendo le mosse, o il pretesto, dalla
traduzione pindemontiana dell'Odissea, egli
entrò in campo contro il Salvini, il
Baccelli, il Soave, il Ceruti, vecchi
traduttori di Omero, e contro pedanti, e
accademici, e ciarlatani. Il principe di
quei ciarlatani, il pessimo Urbano Lampredi,
nel Corriere milanese del 15 maggio 1810,
stampò una Varietà, canzonando e malignando
il Foscolo: e addosso al Foscolo si
scagliarono, e allora e poi, parecchi, e
oscuri e magnati delle lettere, e sin
l'editore dei Sepolcri, il Bettoni. E il
Foscolo si difese ancor negli Annali,
pubblicando il Ragguaglio di un'adunanza
dell'accademia dei Pitagorici, ove l'Araldo,
che legge l'articolo del Lampredi, è
interrotto di continuo dagli accademici, che
conciano l'autore dell'articolo come meglio
o come peggio non si potrebbe. E contro
principalmente il Lampredi e il Monti il
Foscolo componeva sin d'allora la violenta
satira dell'Ipercalissi, che avrebbe
lanciata al pubblico qualche anno dopo.
Questa volta il Foscolo fu ancora salvato e
consolato dall'arte sua. Smesso il pensiero
di una tragedia passionale - Bibli e Cauno
-, forse perché seppe che la trattava
l'amico suo Gasparinetti, riprese una
tragedia già tramata sin dal dicembre del
1809: l'Ajace. E negli Annali, durante la
composizione di essa, pubblicò un articolo
su Gregorio VII, che parve la riabilitazione
del pontificato e fu proibito. Verseggiò la
tragedia, con impeto, durante il 1811. Alla
Scala (tanta fu l'affluenza del pubblico,
che non sarebbero bastati teatri minori) fu
data il 9 dicembre di quell'anno. Grande
l'aspettazione degli amici e dei nemici. Il
Foscolo, che assisteva, uscì dopo il secondo
atto. Il Lampredi, durante la
rappresentazione, fece correre pel teatro un
epigramma:
Qui estinto giace il furibondo Ajace,
Requiescat in pace. |
All'atto quinto, il vocativo o Salamini,
fece, si dice, nascere quel riso che uccide
i drammi. In realtà il dramma cadde per
manco di forza intrinseca. E il poeta sperò
indarno in una rivincita a Venezia. Si
videro allusioni a Napoleone. Il dramma fu
proibito: i censori sospesi; benchè il
ministro Vaccari stesso avesse mandato la
copia ai censori con la sua autorizzazione.
Il Foscolo scrisse al Vicerè una lettera
molto remissiva, che in verità dice assai
poco, anche più a scolpare i commedianti,
che se stesso. E fu punito blandamente, con
un congedo di otto mesi, per ragioni di
salute e d'istruzione.
Fu per qualche mese a Venezia, poi a
Belgioioso, ospite di quel principe.
Nell'agosto si avviò a Firenze. Si fermò
prima alcuni giorni a Bologna, a visitarvi
la contessa Cornelia Barbara Martinetti,
nota alla corte del Beauharnais a Milano, a
quella di Napoleone a Parigi, e il cui
salotto vide i più celebri scrittori
italiani e stranieri del tempo. Il Foscolo
si accese anche di lei, e le profferse un
amore che ella non accettò, e rimase una
tenera amicizia.
A Firenze - la città d'Italia che a lui
pareva la più italiana - il poeta abitò, dai
primi d'aprile del 1813, a Bellosguardo. La
Isabella Albrizzi l'aveva presentato per
lettera alla contessa d'Albany - la donna
amata dall'Alfieri, e non da lui solo -: e
la contessa trattò con ogni cortesia il
poeta, che continuava gli spiriti
antifrancesi dell'Alfieri, e suoi. Nel
salotto dell'Albany il Foscolo rivide la
Isabella Roncioni, ora Bartolomei,
corteggiata dal prefetto Strozzi: e
parecchie donne anch'egli corteggiò, come la
Eleonora Nencini. Ma quella che amò non
certo più caldamente, ma nell'amicizia della
quale trovò poi conforto nei momenti
amarissimi, fu la sanese Quirina Mocenni,
moglie ad un Ferdinando Maggiotti, demente e
infermo, da lei piamente vigilato. Il
Foscolo, nelle moltissime lettere che, anche
nei più tardi anni, le scrisse, la chiamò
costantemente la Donna gentile, non senza,
credo, allusione al nome che Dante dette
alla donna, che apparve a confortarlo dopo
la morte di Beatrice. Il Foscolo conobbe la
Quirina nell'agosto del 1812: prima trovò in
lei l'amante; assai presto 1'amica, che lo
sovvenne, sin d'allora, nei suoi bisogni, e
sin d'allora gli perdonò, generosa, amori
sempre più violenti, sempre meno degni, per
altre donne.
Ma l'ambiente fiorentino fu favorevole
quanto mai altro alla produzione del poeta.
Riprese e rielaborò il Viaggio sentimentale
dello Sterne, pubblicandone la versione a
Pisa, nel 1813, con la notizia intorno a
Didimo Chierico. Lavorò alla Ricciarda,
tragedia tra amorosa e nazionale, che fu
rappresentata a Bologna il 18 settembre
1813, con un esito che sarebbe stato assai
più favorevole, se l'autore, "che fa lo
scrittore e non il ciarlatano", non si fosse
rifiutato d'apparire al proscenio: modestia
che parve superbia. Forse dopo la Ricciarda
attese subito all'Edipo, di cui non si
conosce che un abbozzo parziale in prosa. E
a Firenze in gran parte verseggiò il Carme
alle Grazie.
La rotta di Lipsia (1814) significava la
dissoluzione di quel regno d'Italia, che al
Foscolo pareva ormai regno italiano. Anche,
al Vicerè Beauharnais e ai suoi ministri il
Foscolo aveva troppi obblighi. Da Firenze
ritornò dunque a Milano, fermo di combattere
per la patria. E al Vicerè chiese di essere
riammesso nel servizio attivo dell'esercito.
Fu nominato capitano aggiunto di stato
maggiore, al servizio del generale
Fontanelli, ministro della guerra.
Dopo l'abdicazione dell'Imperatore, il
Foscolo caldeggiò il partito che voleva
l'indipendenza del Regno e il Beauharnais re
d'Italia: e sostenne queste idee in un
indirizzo al congresso di Parigi, disteso a
nome dei comandanti della guardia civica.
Vide e cercò d'impedire l'eccidio del
ministro Prina, con che la plebaglia e il
vecchio austriacante patriziato intesero
dimostrare la loro ostilità allo stabilirsi
della dinastia dei Beauharnais. Per
l'energia spiegata in quei giorni, il
Foscolo fu nominato capobattaglione.
Ma gli Austriaci ritornarono. Il Foscolo,
rappresentato come eccitatore della pubblica
tranquillità, si difese presso il Conte
Verri, presidente della reggenza, e il
maresciallo austriaco Bellegarde, che mostrò
per lui la più grande cortesia. Egli, del
resto, s'era tutto raccolto nella lettura
dei poeti suoi e nella traduzione di Omero:
convinto che l'Italia, inerme, non poteva
più nulla e che non aveva bisogno che di
pace: e con in fondo all'animo, se non già
il proposito dell'esilio volontario, almeno
il desiderio di rifugiarsi in una vita di
raccoglimento e di studi, a Venezia, dove la
madre e la sorella avevano già affittata per
lui una nuova casetta.
In quello stato di perplessità e di apatia,
lo vennero a cercare le seduzioni del
governo austriaco, che sarebbe stato felice
di trarre alla sua causa lo scrittore che,
specie sulle nuove generazioni, esercitava
un fascino potente, e che notariamente aveva
avversato il predominio francese. Il
Bellegarde gli propose l'idea di fondare e
dirigere un periodico, che, naturalmente,
avrebbe dovuto diffondere fra le classi
colte la simpatia per l'Austria. La
tentazione era grande: grande il pericolo di
un rifiuto. Il poeta tergiversò; poi accettò
di scrivere il disegno e il programma del
periodico. Pareva che si fosse arreso. Aveva
già fatto credere di essersi ordinata
l'uniforme militare austriaca, pel
giuramento solenne che doveva darsi il 1
aprile. Ma il cantore dei Sepolcri, il
discepolo del Parini e dell'Alfieri, trovo
finalmente la parte migliore di se stesso.
La sera del 30 marzo 1815 il Foscolo partiva
nascostamente da Milano, per l'esilio, onde
non sarebbe ritornato mai più. Rinunciava al
benessere che finalmente e stabilmente
avrebbe trovato. Egli, amante del lusso,
affrontava, non più giovanissimo, disagi,
umiliazioni, miserie; ma la sua dignità di
uomo, di italiano, di scrittore era salva:
la santità delle lettere era attestata col
martirio. E pochi giorni dopo esponeva alla
famigliuola sua i motivi ideali di quello
che non era affatto un gesto di orgoglio, ma
una necessità di coscienza squisita.
Ramingo per la Svizzera: fu a Lugano, a
Roveredo nei Grigioni, a Coira, a San Gallo,
a Zurigo. Quivi conobbe il banchiere
Pestalozzi, e amoreggiò con l'isterica
moglie (di lui; ma quand'ella non volle più
saperne della corte del poeta, il Foscolo
commise un'azione troppo indegna di ogni
galantuomo: rivelò al Pestalozzi la tresca
di sua moglie con un Guido Sorelli, maestro
d'italiano: Provò poi un disperato rimorso,
che confidò alla Donna gentile.
Più lungamente dimorò a Hottingen, villaggio
presso Zurigo, in casa di un pastore
protestante. Conduceva una vita poverissima.
Una volta andò attorno per quei villaggi,
vendendo i suoi anelli e cercando di vendere
anche l'orologio. Era estremamente avvilito.
Ma vegliava su quel vinto la Donna gentile.
Ella si offrì di fargli avere ogni tre mesi
una somma, sino a che non potesse provvedere
a sè più largamente. Acquistò i suoi libri
lasciati a Milano, e gli fece dal Pellico
mandare la somma, senza scoprire chi aveva
comperato quei libri. Tremò di tutte le
sofferenze fisiche e morali dell'amico,
compatì a tutte le sue debolezze: contenta,
come di un premio supremo, che il Foscolo le
ottenesse, come fece, dall'Albany il suo
ritratto dipinto dal Fabre, per farne tirare
una copia. L'Albany naturalmente non amava
più il Foscolo. La sua fuga gli era parsa un
gesto di cattivo gusto.
Ma, in quei primi tempi dell'amarissimo
esilio, l'anima del Foscolo s'inacerbì.
Riprese e ampliò il Didimi clerici prophetae
minimi Hypercalypseos liber singularis: una
satira, o libello, in versetti biblici,
sulla maniera dell'Apocalisse: divisa in
diciannove capitoli: che sferzano il
Lampredi (Jeromomo) e gli amici suoi, il
Paradisi, il Lamberti, il Bettoni, l'Anelli,
il pittore Bossi, l'amica e la protettrice
di tutti costoro, la vecchia letterata
Annetta Vadori. Anche il Monti vi è
deprezzato come poeta, oltraggiato come
marito. Nè mancano giudizii sulla decadenza
irrimediabile dell'Italia, e su Parigi
(Babilonia maxima) su Roma (Babilonia
perpetua) su Milano (Babilonia minima). Il
tutto sotto nomi così strani, e così oscuri
velami, che l'autore aggiunse all'opuscolo
una chiave, a spiegare le allusioni. L'Hypercalipsis
fu stampata in pochissimi esemplari
destinati agli amici. È l'unico scritto men
che nobile pubblicato dal Foscolo.
Un'altra operetta, polemica - almeno nella
mossa iniziale - pensò il Foscolo, contro un
libello sulla rivoluzione di Milano del 20
aprile 1814, che accusava gli indipendenti
alla maniera del poeta di essere stati la
causa della rovina del regno d'Italia. Il
Foscolo, per risposta tracciò un Discorso
sulla rovina del regno d'Italia, che poi
trovò uno sviluppo più adeguato in un
Discorso proemiale e in tre Discorsi della
servitù d'Italia, pubblicati però dopo la
sua morte. In essi è tutta la professione
politica del Foscolo e il suo pessimismo,
saldamente radicato nella storia vecchia
d'Italia e nella recente.
Anche pubblicò il Foscolo a Zurigo, il 1816,
ma con la falsa data di Londra 1814, una
nuova edizione dell'Ortis, con la lettera
contro il Buonaparte, soppressa in tutte le
precedenti edizioni meno che nella prima: e
nel 15 l'operetta Vestigio della Storia del
Sonetto italiano dall'anno 1200 al 1800, che
mandava in dono alla Donna gentile, ultimo
saluto a lei, prima di andare in
Inghilterra.
Giacchè il Foscolo aveva deciso di tentare
più sicura fortuna in Inghilterra, dove lo
scrittore antinapoleonico non poteva non
essere accolto onoratamente. La stessa
Quirina lo incuorò al viaggio. Il Foscolo le
offrì di sposarla: giacchè il marito di lei
era morto. Ella conosceva troppo bene il
poeta, per non intendere che egli domandava
ad una donna tutto ciò che ella, non più
giovane e non bella, non poteva dare. Lo
amava troppo, per imporgli una catena. E non
accettò.
Il Foscolo, per Basilea e Francoforte sul
Meno, giunse il 7 settembre 1816 ad Ostenda:
di dove si imbarcò per l'Inghilterra. L'11
settembre era a Londra.
Grandi speranze, in principio; specie da poi
che Giuseppe Binda, un gentiluomo lucchese
che dimorava colà, l'ebbe presentato nella
casa di Lord Holland, convegno dei più
nobili spiriti. Ma i guai incominciarono
assai presto: cioè le strettezze economiche.
Unica via di guadagno - se non di fortuna -
il lavoro letterario, che al Foscolo pareva
un delitto tradurre in industria, e pel
quale mancavano a lui le virtù del metodo e
della costanza: per non dire che, non
abbastanza pratico di inglese, doveva prima
scrivere in italiano, né sempre era agevole
trovar traduttori della sua difficile prosa.
Comunque, tentò presso editori. Ripubblicò,
con poco o punto frutto, l'Ortis,
dedicandolo al poeta Roger, che aveva
conosciuto in casa Holland. Incominciò, per
l'editore Murray, una serie di lettere sugli
Usi, la letteratura e la storia politica
dell'Inghilterra e dell'Italia: che furono
poi i frammenti del Gazzettino del bel
mondo, pubblicato postumo. Ma aveva bisogno
di danaro subito. I debiti si succedevano ai
debiti.
I1 24 maggio 1817 moriva sua madre.
L'abbattimento del poeta crebbe a dismisura.
Gli balenò l'idea di stabilirsi al Zante,
per vigilare sui tenui interessi che erano
già di competenza della morta. Nel viaggio
si sarebbe recato a Firenze. Avrebbe
viaggiato coi deputati delle isole Ionie,
venuti a presentare al principe reggente la
nuova costituzione. Ma non ne fece nulla, e
raccomandò i suoi affari a quei deputati,
tra i quali era un suo cugino, Dionisio
Bulzo, che lo sovvenne con qualche
larghezza.
Si ritirò a Kensington, avendo a sua
disposizione la biblioteca dello Holland.
Lavorò non più per editori, ma per
periodici; il compenso poteva essere ben
altro e ben più pronto. Scriveva in francese
articoli tradotti subito in inglese. Il
primo, sopra Dante, fu pubblicato nella
Rivista di Edimburgo. Gli fu pagato 32
sterline per ogni foglio, invece delle 15
solite. Fu sollecitato a mandare altri
articoli sulla letteratura italiana. Il
Foscolo vide il benessere, e lo annunziò con
gioia alla Donna gentile. Conto di dare
annualmente alle Riviste otto articoli, e di
guadagnare 400 lire sterline, quante gli
bisognavano, per vivere in Londra
tollerabilmente. Ma in quell'accensione
subita di grandi speranze, pensò ad un'opera
gigantesca, a cui non sarebbe bastata la
vita di un uomo, sia pur dell'attività
(intermittente, ma intensissima) del
Foscolo: pubblicare in 36 volumi i classici
italiani, con biografia, introduzione sui
tempi dell'autore, collezione dei testi, e
tutto insomma quell'apparato storico e
filologico che doveva illustrare l'autore,
collocandolo nella sua età: secondo la
maniera generosa di critica, che il Foscolo
voleva appunto iniziare. Fra pochi anni si
riprometteva un capitale di 10.000 lire
sterline. Bastava trovare 560 associati. Qui
era appunto il difficile. Ma pieno di questa
futura ricchezza, e persuaso che in
Inghilterra non merita nessuna fiducia il
letterato che è - o apparisce - povero, il
Foscolo incominciò a sfoggiare. Affittò una
villa a Mouisey, la montò riccamente, volle
carrozza e cocchiere.
John Cam Hobhouse, uomo di stato, amico del
Byron, volendo, a commento del canto quarto
del Giovane Aroldo, dare un brevissimo
saggio della letteratura italiana
contemporanea, si rivolse al Foscolo, che
aveva conosciuto nel principio del 1818.
Comparve il Saggio sulla letteratura
italiana piena di aneddoti irriverenti e di
notizie inesatte su scrittori italiani del
tempo; ma grandi lodi erano fatte al
Foscolo. Lo scandalo in Italia fu grande.
L'Hobhouse ammise, a sua discolpa, che il
saggio era del Foscolo. Il Foscolo negò
recisamente, segnatamente in una lettera del
30 settembre 1818 al Pellico. E davvero pare
impossibile sia cosa di lui, anche se è
probabile che egli abbia dato all'Hobhouse
notizie e materiale. Così egli si ruppe con
l'amico; perdendo le 50 sterline al mese da
lui promessegli, a patto di preparare i
documenti sulle ultime rivoluzioni italiane.
E intanto il Foscolo aveva trascurato di
scrivere altri articoli per le riviste,
interrotta, appena sul principio, la sua
edizione dei classici: e ripiombava nella
temuta povertà; anzi, non ne usciva affatto.
E tuttavia continuava, come poteva, a pagare
la casa in campagna, e anche aveva un
appartamento in città; come Leopoldo
Cicognara, recatosi a Londra, scriveva alla
Donna gentile. Vero è che in città era
ritornato, a causa dell'ultimo e più ardente
forse dei suoi amori. Intimo della famiglia
Russell, si innamorò della giovinetta
Carolina, a cui parlava di lettere italiane
e di preferenza commentava il Petrarca.
Quando, con la famiglia, la signorina si
recò in Isvizzera e rimase lungamente a
Losanna presso una sorella ammalata, il
Foscolo le scrisse lettere piene di
passione. Ma la Carolina non potè mai
offrire al poeta più che dell'amicizia, né
sempre calda. E nel principio del '20 la
relazione, durata quasi due anni, si troncò.
Rimasero, documento delle letture e
conversazioni petrarchesche con la
giovinetta indarno amata, i Saggi sul
Petrarca, composti già nel 20, pubblicati
nel 21, in una edizione di gran lusso in
soli 12 esemplari. Su quello che ritenne per
sè e su quello destinato a Carolina, il
Foscolo scrisse l'ode in inglese a Calliroe,
con innanzi l'epigrafe miltoniana. "La sua
forma era velata. Ma all'estatico mio
sguardo Amore, Dolcezza, Bontà splendevano
nella sua persona. Ahimè! Mi svegliai"!
Si svegliò, nella prosa di una vita vuota
oramai di ogni lusinga. Si buttò al lavoro.
Pubblico dal Murray la Ricciarda, sperando
in un guadagno che si tradusse in un debito.
Continuò nella versione di Omero, e il terzo
libro mandò a Gino Capponi, che lo pubblicò
nella Antologia di Firenze. Scrisse - e
talvolta tirò giù - molti articoli letterari
e storici per periodici inglesi. Dai quali
lavori ingrati e non tutti da lui, si
ritraeva a comporre un'opera di più
solidità, di più eloquenza, di più nobiltà:
la storia degli eventi riguardanti la
cessione di Parga ai Turchi, che voleva
essere una apologia di quel piccolo ed
eroico popolo tradito, e un atto di accusa
contro il governo britannico, che aveva
sopportato la iniquità.
Annunziato già nel 20, dall'editore Murray,
come di prossima pubblicazione, il libro non
comparve poi più, e uscì solo molti anni
dopo la morte del poeta, tradotto in
italiano da Scipione Emiliani Giudici.
Corse, in Italia, la voce calunniosa che il
Foscolo si fosse fatto pagare dal governo
inglese il suo silenzio. Egli affermò che
non volle pubblicare il libro, per non
comprometter gli amici, che gli avevano
comunicati i documenti. Forse, depresso più
che mai dal lavoro ingrato e dalle angustie
economiche, non trovò più il coraggio di
affrontar le ire del Governo (che già contro
il breve saggio foscoliano su Parga
pubblicato nella Edimburgh Review, faceva
inserire, nella Quarterly, una diatriba
minacciosa) e di esulare anche da quella
terra, che pur l'aveva sì generosamente
accolto.
Ma nel 1822 Ugo ritrovò la sua figliuola
naturale, natagli in Fiandra: la madre era
passata a nozze: e la piccola affidata ad
una sua nonna, che ora, morendo, le lasciava
in legato circa 3000 lire sterline,
investite in terreni e in tre villette.
Si chiamava Floriana: aveva diciassette
anni: era bella: mitissima. Il padre, che
forse appena sapeva della sua esistenza,
dovette essere anche più esaltato che
commosso. Sognò un suo vecchio sogno e che
questa volta pareva realtà: una vita serena,
un tramonto sereno, da artista e da
studioso, in una casa propria. E subito si
dette - sulla dote della figliuola - a
costruire una villa, cui pose nome
Digamma-Cottage (dal titolo di un suo
lunghissimo e travagliosissimo saggio sul
Digamma Eolico, che l'inglese Bentley aveva
mostrato quanto importasse alla
ricostruzione della metrica del testo
omerico). L'ammobiliò ed arredò
signorilmente: volle uomini e donne al suo
servizio: e per cagione d'una di esse ebbe
un duello alla pistola con un certo Graham,
traduttore dei suoi articoli.
Ma i debiti erano cresciuti a dismisura
nella fabbrica e nell'arredamento del
Digamma-Cottage. Il Foscolo non si era
ancora installato che già, in mezzo al lusso
apparente, si sentiva circondato e strozzato
dalla miseria. S'affrettò a pubblicare, nel
1823, dal Murray i Saggi sul Petrarca (in
un'edizione più completa della precedente),
con l'intento di inserire poi su tutte le
gazzette di Londra che l'autore di quei
saggi era disposto a dar lezioni di lingua e
letteratura italiana, in casa di chiunque lo
volesse chiamare.
Lady Dacre, a cui il poeta faceva questa
desolante confidenza, lo sovvenne,
facendogli tenere un corso di letteratura
italiana a pagamento per sottoscrizione. Al
Foscolo parve umiliazione intollerabile quel
parlare ad un pubblico, che veniva a udire,
o a vedere l'uomo celebre ridotto alla
povertà, non già ad ascoltare la parola del
pensatore. Pure accettò; e i sottoscrittori
furono molti. Ma il provento non bastò a
nulla. Nuove angosce, nuovi tormenti.
Nell'ottobre di quell'anno, 1823, Ugo
scriveva alla sorella Rubina di esser
costretto a lavorare sino a quattordici ore
al giorno, e a nutrirsi di solo riso. Lady
Dacre lo scongiurava alle economie.
All'economia lo scongiurava il generale
Santorre Santarosa, che dimorava da più
tempo esule in Londra. Quando egli, il 2
marzo del 24, si reco per salutarlo l'ultima
volta, trovò sua figlia; non lui. Egli si
era nascosto; poichè i creditori avevano
fatto spiccar contro di lui un mandato
d'arresto. La villa e i mobili furono messi
all'asta.
Il 24 novembre del 1824 il Foscolo fu, pare,
arrestato. Da allora la sua vita fu tutta
una lotta per isfuggire ai creditori, o per
calmarli in parte, e un lavoro disperato, in
cui impiegava tutte le ore del giorno;
riservandosi la notte a scorrere i libri da
consultare. Ruppe ogni legame cogli amici
inglesi e più cogli Italiani, anche più
maligni che curiosi. Mutò nome; e perché non
si sapesse che il miserabile randagio era
Ugo Foscolo, e perchè bisognava sfuggire ai
creditori, alle calcagna sempre. Si fece
chiamare prima Mr. Merriat; poi, facendo suo
il cognome della figliuola tapinante con
lui, Mr. Emerith. Cambiò domicilio,
spessissimo. Ora fu in campagna, a
Totteridge Hertz; ora di nuovo in Londra,
d'uno in altro dei quartieri più poveri.
Dette lezioni private a condizioni le più
modeste; e nei giorni più duri andò persino
attorno vendendo ad uno ad uno i suoi libri,
eccettuati Dante ed Omero; e una volta fu
preso per uno spacciatore di libri rubati.
Eppure, in quelle strettezze estreme, il
Foscolo condusse avanti il più meraviglioso,
per densità di pensiero, per dovizia di
dottrina, per originalità di vedute, dei
suoi lavori critici: il Discorso sul testo
della Divina Commedia (1825), cioè il primo
volume dei quattro, in cui 1'editore
Pickering avrebbe pubblicato Dante: compenso
alla pubblicazione totale 1200 sterline,
ipotecate senza più ai creditori: 4 sterline
ogni settimana durante il lavoro. Il
Pickering venne meno ai patti: e il Foscolo
negò il manoscritto degli altri volumi,
anche perchè si lusingava di poter rifare
tutto secondo il disegno suo primitivo,
molto più ampio; essendo suo ardente
desiderio, come si esprimeva in una lettera
al Capponi del 26 settembre 1826, che gli
Italiani vedessero finalmente quanto egli
aveva sentito addentro nel maggior loro
poeta.
Nè le sventure fiaccarono l'uomo. Rari i
lamenti nelle lettere di questi miserrimi
anni; alta, virile più che mai la filosofia,
che pervade gli scritti letterari. Si
direbbe che in quella durissima vita il
Foscolo provi come una gioia di espiazione.
E in quella solitudine gli sovvenne più che
mai l'amicizia dei buoni. Se un esule come
lui, Giovanni Berra, suo copista, rivelò per
danaro il suo domicilio, un altro esule,
Fortunato Prandi, gli faceva da
intermediario con editori e direttori di
periodici: Francesco Manni, già profugo in
Francia e ora, a 66 anni, in Inghilterra,
maestro di lingue, gli offrì tutti i suoi
servigi, in compenso dell'avergli il
Foscolo, in tempi più lieti, trovate delle
lezioni. E molto si affezionò al poeta, in
quegli anni, il gentiluomo Hudson Gurney, a
cui il Foscolo dedicò, grato, il discorso
dantesco. A lui dovette, se potè abbandonare
l'orrendo quartiere di S. Giles e
trasferirsi in Henriette Street, ottenendo,
pel cambiamento d'aria, una qualche tregua
alla febbre biliosa, che lo travagliava da
più tempo.
Pensò un'ultima volta di ritornare al Zante.
Lì avrebbe tenuto volentieri, perchè
compreso ed amato, quelle lezioni di
letteratura, che in Inghilterra faceva suo
malgrado. Avrebbe condotto a fine i suoi
lavori, che poi in Inghilterra gli sarebbero
stati pagati convenientemente. E già pregava
il cugino Bulzo di fermargli una casa colà.
Sarebbe partito, appena avesse i danari.
In realtà quella sete di riposo ultimo e di
pace era stanchezza estrema. Il Foscolo non
poteva oramai lavorare più. E la
infiammazione del fegato e degli intestini
incrudiva. Oramai non si sentiva in grado
che di dar lezioni ai giovanetti: di greco,
di latino, di italiano. Ma anche questo
umile lavoro mancava. Forse l'unico guadagno
nell'ultimo anno della sua vita gli venne
dal Pickering, che, riaccordatosi con lui,
ottenne i rimanenti volumi danteschi e gli
pagò lire sterline 167. Ma sin dal dicembre
1826, o per nascondersi o per riprender
salute, il Foscolo si era stabilito nel
villaggio di Turnham Green, a Bohemian
House: frequentatovi da pochissimi, il Manni,
il dottor Negri, Giulio Rossi, il canonico
Miguel Riego. I suoi ammiratori, fra i quali
il poeta Campbell, si adoperarono, perché
ottenesse in Londra una cattedra
universitaria di letteratura italiana. Ma il
Foscolo rimaneva indifferente: e compilava,
con l'amico Giulio Rossi, una Antologia
inglese dei poeti italiani.
Nell'agosto del 1827, lord Hudson Gurney
seppe della abitazione del poeta e si recò a
visitarlo. Lo trovò a letto, enfiato
dall'idropisia, e stoicamente forte contro
il male. Altri amici inglesi accorsero,
benefici: lord Russell fra gli altri.
L'infermo fu operato due volte. La seconda,
la molta acqua levatagli lo prostrò
talmente, che rimase senza coscienza, o
quasi: né potè riconoscere il Conte Capo
d'Istria, che egli aveva desiderato di
rivedere, per raccomandargli forse i suoi
tenui interessi al Zante.
Morì la sera del 10 settembre 1827. Un
biglietto tracciato per la figlia mostra
che, anche presso l'agonia, lo stringeva la
preoccupazione economica, ed era lieto
(pare) di aver soddisfatto i suoi debiti. I1
18 settembre fu sepolto nel cimitero di
Chiswick: cinque soli amici ve
l'accompagnarono: il Riego, il Manni, il
Negri, il generale Demuster, Edward Roscoe.
Fu aperta, dalla Litterary Chronicle, una
sottoscrizione per la tomba del poeta; ma
non fruttò molto. Il Gurney fece porre lui,
più tardi, sulla fossa una lapide, con le
indicazioni del giorno di morte e del numero
degli anni. E poi sostituì la lapide, con
una piccola tomba in forma di altare. Nel
1871 le reliquie del poeta furono trasferite
a Firenze, nel tempio delle glorie italiane,
da lui esaltato con versi immortali: in
Santa Croce.
Floriana fu affidata alla tutela del
canonico Riego; sovvenuta dal Gurney e da
altri. Morì di mal di petto, quando non si
sa, ma pochi anni dopo il padre. Ella lasciò
tutti i manoscritti paterni al Riego, che li
vendette nel 1835 al Capponi, a Enrico Mayer
e a Pietro Bastogi. Nel 1844 passarono alla
biblioteca Labronica a Livorno(1).
Il Foscolo fu uomo di "vizii ricco e di
virtù", come si definì egli stesso. Le virtù
erano nel suo profondo, i vizii apparivano
nella sua vita esteriore, agli occhi di
tutti: e chi si fermò a questa deplorò e
detestò l'uomo, che destò invece indomiti e
tenaci amori in chi visse vicino all'anima
sua. - Il Foscolo fu nel medesimo tempo:
violento e tenerissimo: facile agli amori
non tutti nobili, e pur cultore e ammiratore
della verecondia; pronto alla collera, ma
anche più pronto a dimenticare e a
disprezzare; e professò che la pietà è la
più umana e più sociale delle virtù.
Certo, noi vorremmo che alcune macchie non
apparissero nella storia di quell'uomo. Amò
troppe donne, anche se nell'amore egli
cercava l'esaltazione dello spirito, assai
più e meglio che l'appagamento dei sensi. Fu
dedito al giuoco. Contrasse debiti molti.
Piatì troppo spesso per aumenti di paghe.
Fece spese troppo superiori alle entrate. Ma
egli, come tanti poeti moderni, come il
Byron, il Lamartine, il Chateaubriand e
qualche famoso contemporaneo, provò forse
quell'invincibile bisogno della ricchezza e
dello splendore, senza di che può apparire
inanimata la stessa bellezza. E bisogna
infine collocare il poeta nell'età sua, per
intenderne, cioè per valutarne anche la
figura morale. Ogni individuo volle vivere
ed affermarsi negli anni della Rivoluzione e
dell'Impero. L'adattamento alla mediocrità
della vita e alla necessità delle cose
sarebbe venuta poi. E il Foscolo fu un
prepotente individuo, che volle vivere sino
al punto culminante la sua vita, anzi le sue
molte vite. Il giovinetto tribuno, che a
Venezia declamava i suoi versi rivoluzionarj
avvolto in un mantello logoro e stinto,
sarebbe stato l'ufficiale che in Genova,
durante l'assedio, si nutriva di pane nero e
dormiva sulla paglia, come i suoi soldati.
Ma anche sarebbe stato l'ufficiale elegante
e mondano, che faceva all'amore colle più
belle donne, anche se mogli de' suoi
superiori: e il professore di eloquenza, che
credeva giusto che anche gli uomini della
cattedra avessero una bella e comoda casa,
da quanto i negozianti e i proprietari: e lo
scrittore, credeva diritto e dovere di
essere ricco anche lui, o almeno di
apparirlo. L'intemperanza è perciò la
caratteristica del Foscolo: un Foscolo senza
quella intemperanza non sarebbe più lui. Era
la caratteristica anche del suo Alfieri, né
gli sarebbe rimproverata, se avesse goduto
le rendite dell'Alfieri. Del quale egli
serbò intatto, con eroicità di sacrificio
l'alto concetto della indipendenza delle
lettere e dello scrittore: sia dall'impero
della folla rivoluzionaria, come dal cenno
di Napoleone e dalle insidie dell'Austria.
Il Foscolo non scrisse forse mai una sola
pagina, di cui avesse ad arrossire o a
pentirsi poi: non una sola pagina sacrificò
al suo convincimento, alla sua coscienza.
Dissimulare dovette qualche volta, simulare
non volle mai.
Perciò il Foscolo vero è tutto nel Foscolo
scrittore. E la grandezza e l'austerità
dello scrittore è tanta, da far dimenticare
le debolezze dell'uomo.
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(1) I dati di fatto sulla vita del Foscolo
ho preso in piccola parte dalla vecchia vita
del Foscolo, che il CARRER premise
all'edizione delle opere foscoliane, di
Venezia, del 1842, e in parte assai maggiore
dalla diligentissima vita, che del Foscolo
scrisse G. CHIARINI (Firenze, Barbera,
1910). Non però condivido sempre i giudizii
che dell'uomo recano questi due biografi,
l'uno troppo facile panegirista, l'altro
troppo rigido censore. Molto utilmente è
stata ristampata da P. Tommasini-Mattiucci
(Città di Castello, 1915) la più vecchia
delle vite del Foscolo, quella scritta il
1830 da Giuseppe Pecchio, che conobbe il
poeta, qua e là ostile; ma, negli spiriti
dello scrittore, il Pecchio penetra molto
bene talvolta, e molto bene rappresenta il
mondo ideale e reale, in cui il poeta si
mosse.