E' un romanzo epistolare che il Foscolo
iniziò nel 1796 col titolo di “Laura,
lettere”, quando aveva appena 18 anni. Il
primitivo disegno era di narrare la storia
di due giovani ed infelici amanti, ma la
grande delusione patriottica che il Foscolo
soffrì in seguito al Trattato di
Campoformio, lo indusse a modificare il
piano dell’opera e ad aggiungervi il tema
politico. Così modificata, ne iniziò la
pubblicazione a Bologna, nel 1798, col
titolo di “Ultime lettere di Jacopo Ortis”
(Laura diventa Teresa, perché nel frattempo
il Foscolo si era innamorato perdutamente,
ma senza successo, di Teresa Pikler, la
moglie del Monti), senza però portarla a
temine.
L’editore la fece continuare da un certo
Sassoli e la presentò al pubblico col titolo
di “Vera storia di due amanti infelici”. Il
Foscolo ovviamente non riconobbe quest’opera
e provvide, nel 1802, in Milano, a dare alle
stampe una sua prima edizione completa.
Ristampò poi il romanzo, rielaborato in modo
definitivo, a Zurigo nel 1816 e infine a
Londra l’anno successivo.
A questo romanzo giovanile il Foscolo lavorò
quindi per oltre vent’anni, avendo cura però
sempre di lasciare inalterato il segno
primitivo della baldanza e del furore della
propria giovinezza. L’opera infatti è
dichiaratamente autobiografica, ma l’Autore
si sforzò sempre di calare in essa
l’immagine primordiale - e certamente più
affascinante - di se stesso (tant’è che poi
sentì la necessità di lasciare un'altra
testimonianza della sua personalità matura
nella “Notizia intorno a Didimo Chierico”).
Ecco cosa scrisse il Foscolo nella premessa
all’edizione londinese: «Così (dal nome in
fuori e dall'atto del suicidio consumato) lo
scrittore rappresentò sé medesimo tale quale
era ne' casi della sua vita, nell’indole e
nell'età ch'egli aveva, nelle sue opinioni
ed errori, e in tutti i moti tempestosi
dell'anima sua».
Il protagonista del romanzo, Jacopo Ortis,
in una serie di lettere indirizzate
all’amico Lorenzo Alderani, racconta le sue
tristi vicissitudini relative ad un amore
impossibile per una fanciulla conosciuta sui
Colli Euganei, Teresa, già promessa ad un
amico del padre, ed alla sua condizione di
fuggiasco che impotente vede fatta serva la
sua patria.
Costretto ad abbandonare il suo rifugio, si
reca dapprima a Milano, ove ha l’opportunità
di incontrare il Parini, ormai vecchio e
rassegnato, al quale confida i suoi nobili
sentimenti. Passa poi a Firenze, ove visita
commosso le tombe dei Grandi del passato
conservate in Santa Croce, e di qui decide
di esiliare in Francia. Ma, giunto al
confine, è distolto dal suo programma e
decide di tornare a Venezia. Dopo un ultimo
saluto alla vecchia madre, già determinato a
morire, si reca sui Colli Euganei per
rivedere Teresa. Apprende però che la
giovane è andata sposa al ricco Odoardo e,
senza ulteriore indugio, si uccide col
pugnale. Lorenzo Alderani, fedele custode
degli sfoghi dell’amico, conosciuto il
doloroso epilogo della sua travagliata
esistenza, decide di pubblicarne le lettere,
premettendovi questa avvertenza al Lettore:
«Pubblicando queste lettere, io tento di
erigere un monumento alla virtù sconosciuta;
e di consacrare alla memoria del solo amico
mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di
spargere sulla sua sepoltura. E tu, o
Lettore, se uno non sei di coloro che
esigono dagli altri quell'eroismo di cui non
sono eglino stessi capaci, darai, spero, la
tua compassione al giovane infelice dal
quale potrai forse trarre esempio e
conforto. - Lorenzo Alderani -».
Una cosa infatti è mutata dal primitivo
disegno, che doveva essere solo una storia
d’amore, e che invece divenne in seguito
principalmente il diario di un patriota
deluso e sconfitto, non perché siano in lui
scemati la passione e l'ardimento, ma perché
in lui è chiara la consapevolezza che nulla
si può fare ormai e non resta che il
suicidio per salvare l’onore e la libertà.
Lo stesso Foscolo, nella premessa
all’edizione di Londra del 1817, sorvola sul
tema amoroso e così presenta il protagonista
del romanzo: «Un giovane di forse vent'anni,
ingeritosi nelle sciagurate cose politiche
dell’Italia, s’era disingannato delle teorie
di perfezione politica fra' mortali; ma la
passione di libertà gli s'era inviscerata
nel cuore, e lo struggeva di ostinati
desiderii, e impotenti. Spatriò da Venezia
irato a' Francesi che l'avevano
proditoriamente venduta, e agli Austriaci
che l'avevano turpemente comprata; irato
assai più alla dappocaggine de' suoi propri
concittadini, e alle sette municipali che da
più secoli vanno infamando l'Italia: e
attese a scrivere intorno a quelle sciagure
ch'esso aveva veduto».
In una lettera da Ventimiglia, datata 19 e
20 febbraio 1799, dopo aver descritto il
fiero e rude paesaggio alpino, ove “non v'è
albero, non tugurio, non erba. Tutto è
bronchi; aspri e lividi macigni;”, Jacopo
prorompe in questo lamento che è piuttosto
un’invettiva:
«I tuoi confini, o Italia, son questi!
ma sono tutto dì sormontati d'ogni parte
dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove
sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se
non la forza della concordia. Allora io
spenderei gloriosamente la mia vita infelice
per te: ma che può far il solo mio braccio e
la nuda mia voce? - Ov'è l'antico terrore
della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni
dì memorando la libertà e la gloria degli
avi, le quali quanto più splendono più
scoprono la nostra abbietta schiavitù.
Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i
nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E
verrà forse giorno che noi, perdendo e le
sostanze e l'intelletto e la voce, sarem
fatti simili agli schiavi domestici degli
antichi, o trafficati come i miseri Negri; e
vedremo i nostri padroni schiudere le tombe,
e disseppellire e disperdere al vento le
ceneri di que' Grandi per annientarne le
ignude memorie: poiché oggi i nostri fasti
ci sono cagione di superbia, ma non
eccitamento dall'antico letargo».
Ma se i motivi fondamentali del romanzo sono
patriottismo e amore - che restano per altro
staccati tra loro, non riescono a fondersi
in un unico motivo di ispirazione, anche
perché nati in tempi diversi, rendendo così
l’opera frammentaria -, non mancano gli
altri motivi cari al Foscolo e che troveremo
in tutte le altre sue opere: il senso della
solitudine, la tristezza dell’esilio,
l’amore disperato per la famiglia e
soprattutto per la madre, la necessità di
venerare i morti attraverso il culto delle
tombe e di trarre dalle urne dei Grandi non
motivo di vano orgoglio ma “auspici” per
magnanime imprese, la consapevolezza -
tuttavia - che Gloria, Amore, Libertà sono
soltanto “illusioni” mentre la realtà è che
tutto deriva “dall'ordine universale, e il
genere umano serve orgogliosamente e
ciecamente a' destini” e che solo la Poesia
può sfidare il Tempo e rendere imperitura la
Memoria dei magnanimi, il desiderio di morte
(che qui è reso disperato perché si carica
del senso della protesta, della virile
ribellione, altrove sarà solo aspirazione ad
approdare finalmente in “un porto di
quiete”).
Il romanzo è perciò interessantissimo
anzitutto come premessa e guida allo studio
del Foscolo maggiore, ma non solo per
questo. Infatti, al di là della mancata
unità di ispirazione - difetto grave per
un’opera d’arte - e di altri difetti - come
l’eccessivo autobiografismo, il tono a volte
troppo solenne e finanche enfatico, una
certa mancanza di equilibrio generale -, il
romanzo presenta chiaramente l’impronta del
futuro grande poeta. Non per niente fu il
libro che rese famoso il Foscolo in tutta
Europa e fu tenuto sacro dagli uomini del
nostro Risorgimento: il Mazzini ne
raccomandava la lettura soprattutto ai
giovani. Già dal suo primo apparire, l’
“Ortis” fu avvicinato dai critici al
“Werter” del Goethe, ma il Foscolo respinse
l’accostamento e cercò di spiegare la
differente natura dei due giovani personaggi
ed anche delle vicende in cui erano calati.
Meglio di lui il De Sanctis dimostrò che i
due romanzi sono distinti l’uno dall’altro,
non foss’altro perché mentre il “Werter” è
il frutto di un atto creativo in sé
compiuto, l’ “Ortis” nasce e cresce e si
evolve continuamente col suo stesso autore.
Più opportuno appare il giudizio di coloro
che riscontrano nel romanzo foscoliano una
certa influenza della “Nouvelle Héloise” del
Rousseau e sembra quasi certo che se il
Foscolo attribuì al suo personaggio il
cognome di un giovane padovano suicida
(Gerolamo Ortis), preferì però dargli il
nome di Jacopo desunto dal Rousseau (infatti
il Foscolo il nome del Rousseau, Jean
Jacques, lo traduceva: Gian Jacopo).
Però se riflettiamo sul suicidio di Jacopo,
possiamo concludere che è un personaggio
tutto foscoliano, che ha poco da spartire
con Werter e con Rousseau. Lo stesso Foscolo
ci spiega il significato del suicidio quando
afferma nella “Notizia” premessa
all’edizione londinese: «L'autore tende a
persuadere sé e gli altri che a vivere da
liberi e da forti bisogna imparare a poter
liberamente e fortemente morire». E Luigi
Russo, uno dei più sottili ed onesti critici
del nostro tempo, così commenta: «La morte
nel libro è una vocazione lirica, e non una
inclinazione di vita, ed essa è invocata non
per spirito di negazione e di scetticismo,
ma come simbolo di fede e di lotta, se la
fine di Jacopo vuole servire di esempio e
conforto».
|