1) Leopardi nasce a Recanati (Marche, ma
allora Stato della Chiesa) nel 1798,
primogenito di 9 fratelli, 5 dei quali
sopravvissuti. La sua famiglia è di origine
nobile, anche se titolata di recente: essa
traeva sostentamento da un precario reddito
agrario e dal gioco di destrezza
rappresentato dalla richiesta e
dall'assegnazione di dote. Il patrimonio
comunque era stato dissestato dalle manie
collezionistiche e dalla cattiva
amministrazione del padre Monaldo (un conte
di idee legittimiste e sanfediste). La
madre, Adelaide Antici, sembrava vivere con
l'unico scopo di restaurare la passata
ricchezza. Nella primavera del 1798, quando
Napoleone passò per la Marca anconetana e
direttamente da Recanati, Monaldo, che era
il nobile più in vista del luogo, si rifiutò
di vederlo.
2) La puerizia di Giacomo fu "mozartiana":
estro, grazia, destrezza, capacità di
memoria e di assimilazione prodigiose.
Tuttavia, nel 1810, i genitori
improvvisamente decisero, per ragioni
rimaste ignote, ch'egli non avrebbe goduto i
privilegi del maggiorascato e che invece si
doveva favorire la sua carriera
ecclesiastica: e così fu tonsurato.
3) Già a 10 anni, poiché non lo
soddisfacevano i due precettori cui l'aveva
affidato la famiglia, inizia a studiare da
solo nella ricchissima (anche se antiquata)
biblioteca paterna (12.000 volumi), che era
stata messa insieme comperando all'asta i
fondi sequestrati dai francesi a conventi,
congregazioni, istituti religiosi. Si
applica soprattutto alla filologia greca e
latina, impara l'ebraico e le lingue
moderne. Con 7 anni (1812-17) di studio
"matto e disperatissimo" si rovina la salute
in modo irreparabile e diventa un ragazzo
prodigio.
4) In questo periodo compone circa 240
opere: traduzioni, saggi eruditi e
filologici, tragedie, inni, commenti,
discorsi, ecc. Tutte di scarso valore
contenutistico, ma utili per comprendere il
retroterra culturale del giovane Leopardi.
Egli infatti non aveva studiato solo gli
autori antichi, ma anche i testi degli
illuministi e materialisti francesi e
inglesi del Settecento: Locke, Helvetius,
Voltaire, Montesquieu, d'Holbach, Rousseau.
Le idee di questi Illuministi vengono
combinate con una posizione teorico-politica
piuttosto conservatrice, frutto
dell'ambiente arretrato in cui il giovane
Leopardi viveva. Ad es. egli si compiace
della sconfitta di Murat ad opera degli
austriaci nel 1815 (Murat era stato messo da
Napoleone sul trono di Napoli), esalta
l'assolutismo illuminato (cioè attende dal
"principe" ciò che ormai i patrioti
aspettavano dal popolo), considera
l'unificazione nazionale un'utopia (vedi ad
es. Orazione agli italiani del 1815), non
mette in discussione i valori delle classi
privilegiate... Non dimentichiamo ch'egli
trascorse tutta la sua vita durante il
periodo più oscuro della ventata
restauratrice seguita al Congresso di Vienna
del 1815. Nel Discorso di un italiano sulla
poesia romantica (1817) assume una posizione
antiromantica e antispiritualista.
5) Fra i 17 e i 18 anni matura un improvviso
mutamento di gusto letterario: passa dalla
astratta erudizione e dalla retorica alla
poesia e alla letteratura. Questo mutamento
probabilmente dipese dal fatto che la
pessima condizione fisica l'aveva portato a
una forte crisi esistenziale, ovvero a una
riflessione più personale sulla propria
vita. Inizia a leggere le opere di Alfieri,
Monti, Parini, Foscolo, Goethe, Byron... per
sentirsi più vicino alla sensibilità e alle
problematiche del Romanticismo. Del quale
però se condividerà certi atteggiamenti
esistenziali, come l'angoscia, l'oblio, la
malinconia, nonché la polemica contro la
mitologia greca e l'imitazione pedissequa
della tradizione classica, non accetterà mai
l'esaltazione eroica, la passionalità, il
sentimentalismo, il nesso
letteratura/politica, ecc. Nel 1817 inizia a
raccogliere note letterarie, filosofiche,
personali, nello Zibaldone che, continuato
sino al 1832, verrà pubblicato postumo nel
1898.
6) Si sente particolarmente valorizzato
quando un grande letterato come Pietro
Giordani apprezza la sua traduzione di una
parte dell'Eneide. Anzi, l'amicizia col
Giordani, di idee democratico-illuministiche,
lo porterà a modificare sensibilmente le sue
opinioni politiche conservatrici. Tanto che
le canzoni civili All'Italia e A Dante
(1818) gli attirano le simpatie degli
ambienti carbonari. Ad es. nella canzone
Monumento a Dante, egli rimprovera alla
Francia le confische dei nostri beni
artistici e la perdita delle divisioni
italiane durante la campagna di Russia.
7) Avrebbe voluto nel '19 recarsi a Roma per
contattare ambienti culturali più stimolanti
di quello di Recanati, ma non avendo
ottenuto nella capitale alcun lavoro e non
essendo la sua famiglia disposta a
stipendiarlo, è costretto a rinunciare. Il
desiderio di uscire da Recanati, come da una
prigione, è un motivo centrale della sua
vita: esprime in una forma concreta quella
sua ansia romantica di una realtà diversa da
quella in cui con la "ragione illuministica"
s'era chiuso. Egli infatti dell'Illuminismo
(almeno fino all'incontro col Giordani) non
aveva apprezzato le idee politiche
democratiche ma solo quelle idee filosofiche
orientate verso il materialismo
meccanicistico e sensistico.
8) Eppure la produzione migliore del
Leopardi avviene proprio nel periodo di
Recanati (in cui passerà 25 dei suoi 39 anni
di vita): L'infinito, La sera del dì di
festa, Alla Luna, Ultimo canto di Saffo, Ad
Angelo Mai... Il motivo sta nel fatto che il
Leopardi riesce a coniugare una perfezione
stilistica pressoché assoluta con una
profonda liricità e con una acuta percezione
della vanità delle cose. Frustrato sul piano
dei sentimenti e delle relazioni amorose,
privo di attività lavorativa, poco attratto
dalla vita sociale del suo paese, Leopardi
matura idee sempre più pessimiste,
decisamente avverse a ogni forma di
illusione o di consolazione. Lo testimonia
anche il contenuto delle sue Operette
morali, composte nel 1824 (pubblicate a
Milano nel '27, mentre la censura borbonica
sequestrerà una seconda edizione stampata a
Napoli nel '36). Il tema dominante delle
Operette (scritte in forma dialogica) è
l'analisi dei profondi limiti della ragione
umana nella lotta contro la natura. Lo stato
d'animo con cui vennero concepite -a detta
dello stesso Leopardi- era quello
ironico/satirico/ribellistico. Esse
s'imporranno negli anni Venti del nostro
secolo come modello supremo di ogni prosa
moderna.
9) Quando finalmente ottiene di potersi
recare a Roma, la sua delusione è totale:
Roma gli appare come una grande Recanati,
vuota e superficiale. Tuttavia gli si aprono
alcune prospettive. Riceve da un editore di
Milano l'incarico di curare un'edizione
delle opere di Cicerone e un commento al
Petrarca. L'assegno mensile gli permette di
fare alcuni viaggi a Milano, Bologna,
Firenze e Pisa ove incontra alcuni degli
intellettuali più in vista dell'epoca: dal
Monti al Manzoni. Finché, incapace di un
proficuo lavoro a causa delle sue precarie
condizioni di salute, abbandona l'impiego e
ritorna a Recanati, dove in 16 mesi di cupa
disperazione (1828-30) compone liriche
famosissime come Passero solitario, La
quiete dopo la tempesta, Il sabato del
villaggio, Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia. Esce dalla disperazione
accettando la generosa offerta che alcuni
intellettuali di Firenze gli fanno per
poterlo avere nella loro città.
10) Nel 1831, in occasione dei moti
carbonari, il paese di Recanati lo elegge,
all'unanimità, deputato all'Assemblea
Nazionale che doveva convocarsi a Bologna,
ma la città viene rioccupata dagli
austriaci, per cui il Leopardi, che era a
Firenze, deve rifiutare l'incarico.
11) Sempre alla ricerca di un clima adatto
al suo fisico malato (asma, idropisia
polmonare, neurastenia...), muore a Napoli
nel 1837. Le ultime opere sono ironiche e
satiriche, contro l’ottimismo del secolo e
la sua fede positivista nel progresso,
contro gli austriaci che a Napoli avevano
soffocato i moti liberali degli anni '20, ma
anche contro i liberali che s'illudevano di
poter realizzare facilmente l'unificazione
nazionale, e contro i pontifici che erano
del tutto avversi a tale unificazione. La
critica del Leopardi continua ad essere
anche contro l'atteggiamento ostile ch'egli
ravvisava nella natura e nel destino nei
confronti degli uomini (vedi La Ginestra,
nella quale esalta i valori della
compassione e della solidarietà umana).
12) A. Schopenhauer lo consacrò come
pensatore nei Supplementi al quarto libro
del Mondo come volontà e rappresentazione e
nel 1858 gli dedicò un percorso di letture.
F. Nietzsche considerava Leopardi come il
massimo prosatore del secolo, anche se sul
piano filosofico scorgeva in lui un
rappresentante del "cattivo nichilismo". Da
notare che le Università di Bonn e di
Berlino offrirono a Leopardi la cattedra di
filologia, che egli rifiutò adducendo motivi
di salute.
13) Nel Palazzo Leopardi di Recanati è
possibile visitare la Biblioteca, insieme
coi manoscritti giovanili del poeta (si
conservano gli originali dell'Inno a Nettuno
e della Canzone ad Angelo Mai). In un
edificio moderno attiguo vi è la sede del
Centro Nazionale di Studi Leopardiani che,
costituito nel 1937, raccoglie 6.000 volumi.
IDEOLOGIA E POETICA
1) Per tutta la sua vita egli rimase fedele
alle teorie ateo-materialistiche dei
filosofi illuministi, con particolare
preferenza verso le tendenze meccanicistiche
e fatalistiche.
2) In un primo momento contrappone la natura
alla società (sul modello di Rousseau),
poiché riteneva che la scienza, portando gli
uomini alla dura verità delle cose,
distruggesse le illusioni che, anche se
destinate a non realizzarsi, sono pur sempre
fonte di vita e di movimento. In questo
senso il mondo classico, con la sua
ingenuità, gli appariva superiore a quello
moderno, troppo cinico e spietato per essere
vissuto con innocenza.
3) In seguito però Leopardi critica la
stessa natura, che gli appare "matrigna",
perché con la sua legge della perenne
trasformazione delle cose, non può dare un
senso alla vita degli uomini. La natura cioè
ha leggi cieche e meccaniche che sovrastano
completamente le capacità umane di
conoscerle e dominarle.
4) La natura è "matrigna" anche per un'altra
ragione: essa ha instillato nel cuore
dell'uomo un desiderio di felicità che è
destinato a rimanere inappagato (di qui il
sentimento della "noia" quale percezione
della nullità delle cose). Le illusioni
quindi non servono a niente.
5) Se dunque anche il Leopardi, come il
Foscolo, considera illusori valori come
libertà, amore, patria, gloria..., rifiuta
categoricamente di costruirci sopra, a
differenza del Foscolo, una giustificazione
della vita. La filosofia del Leopardi è
coscienza dolorosa della tragica condizione
umana.
6) Tuttavia Leopardi esclude come soluzione
finale quella del suicidio o dell'oblìo:
l'uomo -a suo giudizio- deve combattere
questo assurdo destino se vuole sentirsi
"umano". Il dolore va vinto con la lotta
interiore, con la dignità di sé. Alla
concezione pessimista della filosofia
bisogna opporre quella propositiva della
poesia. Nella filosofia del Leopardi non vi
è solo una logica implacabile dell'illusorietà
della vita, ma anche un rifiuto istintivo di
questa conclusione drammatica della ragione:
cioè vi è un'ansia romantica di
infinito-assoluto-eterno.
7) Da notare che Leopardi non ha particolare
interesse per le contraddizioni sociali o
politiche: l'unica che lo preoccupa e lo
angoscia è quella uomo/natura. Lo scarso
impegno socio-politico è dipeso in gran
parte dalle forti sofferenze personali, le
quali non possono essere staccate dalla sua
produzione letteraria. La grandezza del
Leopardi tuttavia sta nell'aver cercato di
dare alle proprie sofferenze un significato
di ordine generale, universalmente valido.
Leopardi fra ribellismo e rassegnazione
· Paradossalmente c'è più ribellismo
nell'ultimo Leopardi, che mai aveva
partecipato attivamente alle vicende della
politica risorgimentale, di quanto ve ne sia
nell'ultimo Foscolo, che pur sin da
giovanissimo si era lasciato coinvolgere
nell'avventura napoleonica in Italia e nella
resistenza anti-austriaca.
· Questa differenza di atteggiamento forse
può essere spiegata nel modo seguente: 1)
una grande delusione politica può anche
portare un individuo ad assumere posizioni
regressive (è il caso del Foscolo); 2) uno
scarso coinvolgimento con la realtà politica
traumatizza di meno un individuo dalle
delusioni ch'essa può ingenerare (è il caso
del Leopardi, oppresso più che altro dalle
sue sofferenze psicofisiche e dalle scarse
relazioni sociali).
· Questo può forse significare che nella
posizione regressiva dell'ultimo Foscolo c'è
sempre più realismo che in quella
ribellistica dell'ultimo Leopardi (ad es. il
Foscolo è stato grande anche come critico
letterario, mentre il Leopardi dei
Paralipomeni è assai poco significativo).
· Il paradosso insomma sta in questo, che è
molto più illuso il Leopardi, che pur ha
sempre negato all'illusione un qualunque
valore pedagogico, del Foscolo, che invece
vedeva nell'illusione una giustificazione di
vita. Sostenere -come fa il Leopardi- che la
vita non ha senso, che la lotta politica è
fatica sprecata, che la natura è "matrigna"
(avendo essa destinato l'uomo all'infelicità
eterna e autoconsapevole), e poi pretendere
che l'uomo (da solo o associato) continui a
combattere contro l'avverso destino,
rivendicando una propria irriducibile
dignità -significa, in sostanza, non avere
il senso della realtà, cioè chiedere
l'impossibile.
· In definitiva, ciò che il Leopardi non ha
assolutamente capito (l'unica eccezione è
costituita, almeno in parte, dall'Infinito),
è che la contraddizione è un momento
essenziale di un processo dialettico che
porta all'assoluto. Il limite cioè, o la
debolezza o il contrasto, non esclude la
perfezione, il cammino verso la perfezione,
ma anzi ne è il presupposto.
· Per il Leopardi la trasformazione perenne
della materia era fonte d'angoscia proprio
perché egli non riusciva a vederla dal punto
di vista della totalità (cioè dell'obiettivo
verso cui è indirizzata). In virtù di tale
trasformazione, che è fonte di liberazione,
in quanto esiste un orientamento verso uno
scopo, gli uomini possono ridimensionare il
peso di quelle contraddizioni che la
ostacolano.
· Leopardi esprimeva il difetto di molti
intellettuali privi di realismo, preoccupati
solo di anticipare in loro stessi,
astrattamente, il sentimento appagato del
benessere, la percezione della assoluta
felicità, la pienezza dell'esistenza. Tracce
di realismo, nella sua filosofia, sono
presenti laddove viene suggerito di
abbandonare risolutamente le illusioni sulla
propria esistenza. Senonché egli ripropone,
come alternativa, la logica "buddista" della
rassegnazione, quella per cui non solo le
illusioni vanno rifiutate ma anche i
desideri, le istanze di liberazione. Cosa
che, a ben guardare, è quanto di più
disumano possa esistere: la logica infatti
vuole che se gli uomini fossero già
"liberati", le istanze sparirebbero da sole,
senza alcun forzato processo
intellettualistico di autonegazione.
L'INFINITO
1. Scritto a Recanati fra il 1819 e il 1821,
pubblicato nel '26. Fa parte del gruppo "I
piccoli idilli" (La sera del dì di festa,
Alla Luna, Il sogno, Lo spavento notturno,
La vita solitaria). Questo gruppo di poesie,
del primo periodo del Leopardi, vengono
chiamate anche "Liriche del dolore
individuale".
2. Idillio significa, in greco, piccolo
quadro/immagine. Nell'antica Grecia
rappresentava, in maniera più o meno
realistica, piccole scene campestri, spesso
di vita pastorale, e aveva come scopo quello
di valorizzare il contatto con la natura.
Questo genere poetico viene ripreso
nell'Umanesimo e durerà sino all'Arcadia
settecentesca, ma i suoi contenuti di vita
saranno poco significativi.
3. Nel Leopardi invece l'idillio, pur
partendo sempre dalla contemplazione della
natura, esprime gli stati d'animo più
profondi del poeta. La descrizione della
natura è più che altro un pretesto per
parlare di ciò che il poeta "sente".
4. L'infinito è forse la lirica più riuscita
perché è priva di quell'amarezza, al limite
del risentimento, nei confronti
dell'ambiente di Recanati, che molto spesso
si riscontra nella vasta produzione
letteraria del Leopardi. Anzi, è proprio la
particolare valorizzazione del "limite"
ambientale (l'ermo colle, la siepe) che
rende grande questa lirica. Grazie infatti a
questa nuova percezione del "limite" (che da
"assoluto" diventa "relativo"), il poeta
riesce a porsi, con la
fantasia/immaginazione/pensiero, aldilà di
esso, dal punto di vista
dell'illimitato/eterno/infinito/assoluto.
5. In questo "sognare" aldilà del limite il
poeta trova una certa consolazione. Anche se
è sempre una consolazione individualistica,
tutta interiore, frutto della pura
immaginazione, utile a compensare la
mancanza di rapporti socio-culturali
stimolanti.
6. La parte più significativa del canto è
quella relativa alla percezione sintetica e
globale del tempo storico. Il poeta cioè,
con l'immaginazione, riesce per un attimo a
individuare l'orizzonte della totalità
(infinita) che racchiude
passato-presente-futuro.
7. Tuttavia, in questa percezione della
totalità il poeta non fa distinzione tra i
tempi storici, in quanto tutto gli sembra
uguale e informe, troppo vasto e profondo
perché l'uomo riesca a padroneggiarlo.
L'immensità sovrasta le forze del poeta, per
cui la conclusione è pessimistica: non
l'azione ma la contemplazione della vanità
delle cose, l'oblìo, il "naufragio", la
coscienza dell'illusorietà di una vita
attiva.
LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA
1. Canto composto a Recanati nel settembre
1829, nei "sedici mesi di orribile notte",
poco prima del Sabato del villaggio.
2. Qui il poeta afferma chiaramente che il
senso della vita sta nella morte, poiché non
avendo la vita alcun senso positivo, i
sentimenti/desideri/speranze umani sono
sempre fonte di illusioni, dalle quali
l'uomo deve liberarsi se non vuole diventare
ancora più infelice.
3. La felicità che si ottiene dopo il
superamento di un
pericolo/dramma/tragedia/dolore è ben poca
cosa a confronto con il nonsenso generale
della vita; per cui l'uomo cosciente di
questo nonsenso assoluto non dovrebbe
spaventarsi di fronte ai pericoli/drammi
ecc. della vita, ma anzi, dovrebbe
attenderli con rassegnazione, come se si
trattasse di una liberazione definitiva dal
peso della vita.
IL SABATO DEL VILLAGGIO
1. Scritto in un solo giorno a Recanati il
29 settembre 1829. Appartiene al gruppo dei
"Grandi idilli", cui però il Leopardi diede
il nome di Canti (A Silvia, Le ricordanze,
La quiete dopo la tempesta, Il passero
solitario, Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia). Sono le cosiddette
"liriche del dolore universale" del secondo
periodo del Leopardi. Esse entreranno col
Risorgimento nella cultura italiana ed
europea.
2. La "donzelletta" ha un valore simbolico
per il poeta perché rappresenta il desiderio
dei piaceri/soddisfazioni che il futuro può
dare. La "vecchierella" invece rappresenta
la fine di questi desideri, cioè il loro
rimpianto. Il poeta presume di rappresentare
il superamento e del desiderio e del
rimpianto. Egli cioè è la consapevolezza
della vanità assoluta delle cose, per cui il
desiderio è da subito considerato come
illusione (una sorta di ingenuità giovanile
che si paga sempre cara). Ma se il desiderio
è negatività, il suo rimpianto non ha senso.
3. Leopardi non vuole togliere alla gioventù
le illusioni (poiché queste fanno parte
degli istinti della natura umana); le vuole
però togliere agli adulti, invitandoli a
guardare le cose con maggior realismo. Ma il
realismo che il Leopardi propone non è altro
che una forma di rassegnazione: l'unica
lotta ch'egli propone è quella contro le
illusioni, e non anche quella per realizzare
un obiettivo positivo. A suo giudizio il
piacere/soddisfazione/benessere avrebbe
senso se fosse perfetto/assoluto/eterno: non
potendo l'uomo ottenerlo in questi termini,
nell'orizzonte storico, è giusto -secondo il
Leopardi- che gli si neghi anche il diritto
di esistere.
A SILVIA
1. Canto composto a Pisa nell'aprile 1828.
Si può qui ricordare che i "Grandi idilli",
dopo sei anni di silenzio poetico pressoché
totale (in quanto il Leopardi s'era dedicato
alle Operette morali), rappresentano per
così dire il "recupero nostalgico del
passato", cioè di quei ricordi della
giovinezza perduta. Viene "quasi" riscoperto
il valore delle illusioni.
2. Alcuni biografi del poeta sostengono che
Silvia sia Teresa Fattorini, la figlia del
cocchiere di casa Leopardi, morta
giovanissima nel 1818 di tubercolosi.
Tuttavia, nel canto la ragazza simboleggia
più che altro la speranza, il mito della
giovinezza (con le sue illusioni) "ridente e
fuggitiva".
3. Ciò che il Leopardi mette continuamente
in evidenza, rifiutandolo radicalmente, è il
nonsenso di un desiderio umano di felicità
destinato a rimanere inappagato: come se la
natura avesse voluto beffarsi degli uomini.
La natura -dice il Leopardi- "non rende quel
che promette".
4. Come Silvia è morta prima di varcare il
limite della giovinezza, così la speranza
del poeta è caduta prima di realizzarsi. Il
1819 segnò infatti l'inizio del suo
travaglio filosofico pessimistico.
IL PASSERO SOLITARIO
1. Scritto intorno al 1829, pubblicato nella
raccolta Canti del 1835.
2. Il poeta cerca di immedesimarsi con la
natura (il passero solitario) ma è
consapevole di non poterlo fare, poiché
conosce la diversità esistente fra natura
umana e natura animale. Sono gli stessi
uomini (soprattutto la gioventù) che lo
rendono consapevole della diversità.
3. Per cui il suo sconforto è grande: non
può avere la felicità incosciente/istintiva
della natura, ma neppure quella
cosciente/riflessiva dell'umanità. Perché?
Perché la solitudine lo ha estraniato dai
rapporti sociali, e in questa estraneazione
egli si è convinto che la felicità degli
uomini sia del tutto illusoria, pura
finzione. L'unica felicità reale -dice il
Leopardi- è quella assoluta; gli uomini si
accontentano di una felicità
relativa/momentanea, ma così non fanno che
illudersi, diventando ancora più infelici.
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