I grandi idilli
Sempre a Pisa, nello stesso anno 1828, il
Poeta scriverà una delle sue poesie più
belle, “A Silvia”, il primo dei “Grandi
Idilli”, cui seguirono, tra il 1829 ed il
1830, gli altri cinque composti a Recanati,
dove era stato costretto a ritirarsi per il
ricomparire dei suoi soliti malanni fisici.
Questi canti, scritti “in sedici mesi di
notte orribile”, costituiscono il capolavoro
del Leopardi.
E' bene precisare subito che nei grandi
idilli il Leopardi confonde il suo dolore
con quello universale, che “canta”
ispirandosi ai cari ricordi della
fanciullezza: la rimembranza antica avvolge
d’un velo di pudore il pianto del cuore e
consente al Poeta un sentimento di tenerezza
che lo tiene lontano sia dall'invettiva
consueta contro il destino e, più ancora,
contro la Natura, sia dal bisogno di usare
le “tinte fosche” che meglio converrebbero
alla sua ispirazione. Più che cantare gli
effetti brutali del dolore che sommerge
impietosamente tutto ciò che esiste, egli
canta tutto ciò che di bello, di verginale,
di consolante si trova purtroppo solamente
nei sogni dell’infanzia e non mai nella
realtà: quei sogni, quelle illusioni, quegli
“ameni inganni” non possono rivivere che in
versi sognanti, in versi accarezzati dalle
dolci note di una musica lontana, che erano
liete ed ora si caricano via via di una
tenera malinconia: non trovano posto la
disperazione e la rabbia; ed anche quando il
Poeta non può fare a meno di riconoscere ed
affermare per l'ennesima volta che “è
funesto a chi nasce il dì natale”, il tono
della voce è pacato, il cuore sembra non
aver dimenticato l’immagine sognata della
Primavera che ride a un suo segreto amante,
gli occhi sono asciutti di pianto, forse
perché non hanno più lacrime da versare, ma
forse anche perché il Poeta non ha cuore di
intristire il ricordo della sua fanciullezza
(come appunto si fa dagli adulti che
nascondono le proprie pene ai fanciulli).
Il primo dei grandi idilli fu, come già
detto, “A Silvia”, composto a Pisa nel 1828.
Anche questo canto, come già “Il sogno”,
rievoca la tenera immagine di Teresa
Fattorini, morta giovanissima (all'età di 21
anni, ma il Poeta anticipa la morte ancor
prima del “limitar di gioventù”, in quanto
la fanciulla qui è assunta come simbolo
della caduta d’ogni sua antica speranza).
In “A Silvia” il Leopardi rievoca gli anni
della sua prima adolescenza, quando sovente
si affacciava alla finestra rapito dal canto
della fanciulla, che sognava un lieto
avvenire. Ma la sorte le fu avversa e
stroncò violentemente ogni cara illusione:
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore. |
Ecco come è descritta la morte prematura
della fanciulla: solo due parole vestite a
lutto: “morbo” e “perivi”; tutte le altre
vestite a festa: a cominciare da quel
“tenerella” - che vien subito dopo “perivi”-
che non sembra affatto riferita ad una
fanciulla sul letto di morte, ma piuttosto
ad una bambinella che ti gironzola intorno
timidamente allegra; e poi: “il fior degli
anni”, “molceva”, “dolce lode”, “negre
chiome”, “sguardi innamorati”, “dì festivi”,
“amore” ! Tornano alla mente le parole del
De Sanctis: “chiama illusioni l'amore..., e
te ne accende in petto un desiderio
inesausto”. E si noti con quanto affetto e -
diremmo quasi - riconoscenza il Poeta si
rivolge alla Speranza, che lo ha abbandonato
dopo averlo illuso ma anche allietato negli
anni dell'adolescenza:
Anche peria fra
poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme! |
Quasi certamente l’anno dopo, nel 1829, dopo
il ritorno a Recanati, il Leopardi compose
quel canto che aveva in mente da circa dieci
anni e che volle inserire tra i piccoli
idilli: “Il passero solitario”. E' infatti
l'unico di questo ciclo che si ispiri al
“dolore personale”. Ma lo stile è quello
adulto del Leopardi maggiore.
La canzone, a schema libero, si divide in
tre strofe: la prima descrive il modo di
vivere del passero solitario, che non si cal
d’allegria, schiva gli spassi, canta e così
trascorre il più bel fiore dell’anno e della
sua vita; la seconda strofa descrive la vita
giornaliera del Poeta, assai simile a quella
del passero solitario, perché anch’egli non
cura sollazzo, riso e amore ed anzi da loro
quasi fugge lontano, rinviando ogni diletto
in altro tempo, nonostante il tacito
ammonimento del sole che, dileguandosi tra
lontani monti dopo il giorno sereno, “par
che dica che la beata gioventù vien meno”;
nella terza strofa c’è l’amara conclusione
che si ricava dal raffronto delle due vite:
Tu, solingo
augellin. venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui
core,
e lor fia voto il mondo, e il dì
futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
che di quest'anni miei? che di me
stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro. |
Questo canto è singolarissimo nella
produzione leopardiana: concepito in età di
circa ventun anni, già a quell’epoca si
ispirava ad una situazione psicologica più
antica ed era perciò scevro di ogni urgenza
passionale e conseguentemente di ogni tinta
drammatica. Rievocato poi in età di trentun
anni, lasciò intatta la sua primitiva
freschezza, quasi per nulla risentendo del
travaglio intellettuale intercorso nel
frattempo nell’Autore delle “Operette
Morali”. Il quale, con la sua sensibilità di
grande poeta, ben comprese che il posto da
assegnare a questo canto nella raccolta era
tra i primi idilli. E qui l’avremmo lasciato
volentieri anche noi, se avessimo saputo
rinunziare per una volta allo scrupolo
didattico, se cioè non ci fossimo posti il
dubbio che il giovane lettore avrebbe potuto
non comprendere le ragioni più intime del
salto di qualità dello stile conseguito dal
Poeta.
Nello stesso anno 1829, sempre a Recanati,
il Leopardi sentì il bisogno di affidare ai
versi de “Le Ricordanze” le proprie emozioni
a contatto delle cose a lui più care che,
lasciate un tempo, quando aveva voluto
fuggire dal “borgo selvaggio”, ritrovava ora
intatte e così ricche di ricordi, ancora
avvolte in quelle “fole” che la sua fantasia
fanciulla -“improvida d’un avvenire mal
fido”, direbbe il Manzoni- aveva saputo
ricamare su di esse. Ora, però, quei cari
ricordi, rievocati con tanta nostalgia, non
valgono tuttavia ad attenuare il dolore
della presente condizione, di una vita che
si consuma nel segno dell’abbandono, senza
amore, travolgendo inesorabilmente “ il caro
tempo giovanil; più caro / che la fama e l'allor,
più che la pura / luce del giorno, e lo
spirar” e per di più in un “soggiorno
disumano”. Dal contrasto doloroso fra gli
“ameni inganni” d'un tempo e l’infelicità
del momento nasce il fulcro di questo canto:
O speranze,
speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d'affetti e di pensieri,
obliarvi non so.
.................................................
...Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al
tutto
consolarmi non so del mio destino. |
Ma il Poeta sa bene che la sventura non è
soltanto sua:
...E qual
mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già
scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon
tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è
spenta? |
Anzi la vita tutta è niente altro che
“inutile miseria”:
...Fantasmi,
intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio: non ha la vita un frutto,
inutile miseria. |
L’ultima strofa rievoca un personaggio
femminile, Nerina, morta in giovane età e
perciò assunta dal Leopardi come simbolo
della giovinezza infranta, del fatale crollo
d’ogni speranza all’apparir del vero,
dell’inconsistenza delle illusioni umane. Si
è a lungo discusso se Nerina fosse solamente
un simbolo od anche il ricordo di una
fanciulla realmente esistita ed amata dal
Poeta. La concretezza di molti riferimenti
che il Leopardi fa alla vita vissuta da
Nerina fa propendere per la seconda ipotesi.
In tal caso, però, risulta difficile
risalire all’individuazione della donna cui
si riferirebbe il Poeta: gli studiosi sono
divisi fra la Teresa Fattorini del canto “A
Silvia” ed una certa Maria Belardinelli che
sei anni prima di morire andò a vivere con
la famiglia a Recanati ed abitò nei pressi
della casa Leopardi (morì il 3 novembre
1827, in età di 27 anni). E' chiaro che, in
mancanza di una qualche indicazione dello
stesso Autore, non si possa andare al di là
di semplici congetture, ma è ancora più
chiaro che poco interessi alla comprensione
del canto conoscere la verità: Nerina è
Nerina come Silvia è Silvia: due momenti
della “storia dell’anima” leopardiana, due
fantasmi evocati dal sepolcro dei sogni
infranti:
O Nerina! e di
te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il
volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad
altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. |
Riferimenti concreti che fanno pensare ad
una creatura reale. Ma Nerina è soprattutto
il simbolo della rapidità con cui passano i
sogni, della nostalgica ricordanza che ne
avanza e su cui mesto riluce delle stelle il
raggio. Sembra quasi che nel Leopardi la
Natura, una volta tanto, appaia pietosa
della condizione umana (come i foscoliani
“rai di che son pie le stelle alle obliate
sepolture”), ma non è così perché anche qui
è lo stato soggettivo del Poeta a sentir
mesto il raggio delle stelle, come già prima
gli era apparso “nebuloso e tremulo” il
volto della luna.
Per meglio intendere il valore
sentimentale di questo simbolo -
rappresentato ora da Nerina, prima da Silvia
- giova ricordare quanto il Leopardi scrisse
in una nota dello "Zibaldone" in data 30
giugno 1828, cioè due mesi dopo la
composizione del canto “A Silvia” ed un anno
prima de “Le Ricordanze”; questo passo è
interessante per capire la sostanza e la
natura psicologica dei sogni e delle
speranze giovanili del Leopardi, il perché
questi volle riviverli e rappresentarli
nella vicenda amara di due creature
strappate anzi tempo alla vita ed il perché
queste creature egli volle immaginarsele
cadute prima di giungere al "limitar di
gioventù” (Silvia) o quando da poco
“splendea negli occhi quel confidente
immaginar, quel lume di gioventù” (Nerina):
«Ma veramente una giovane dai sedici ai
diciotto anni ha nel suo viso, ne' suoi
moti, nelle sue voci, salti, ecc., un non so
che di divino, che niente può agguagliare.
Qualunque sia il suo carattere, il suo
gusto; allegra o malinconica, capricciosa o
grave, vivace o modesta; quel fiore
purissimo, intatto, freschissimo di
gioventù, quella speranza vergine, incolume
che gli si legge nel viso e negli atti, o
che voi nel guardarla concepite in lei e per
lei; quell'aria d'innocenza, di ignoranza
completa del male, delle sventure, de'
patimenti; quel fiore insomma, quel
primissimo fior della vita; tutte queste
cose, anche senza innamorarvi, anche senza
interessarvi, fanno in voi una impressione
così viva, così profonda, così ineffabile,
che voi non vi saziate di guardar quel viso,
ed io non conosco cosa che più di questa sia
capace di elevarci l'anima, di trasportarci
in un altro mondo, di darci un'idea
d'angeli, di paradiso, di divinità, di
felicità... Del resto se a quel che ho
detto, nel vedere e contemplare una giovane
di sedici o diciotto anni si aggiunga il
pensiero dei patimenti che l'aspettano,
delle sventure che vanno ad oscurare e a
spegnere ben tosto quella pura gioia, della
vanità di quelle care speranze, della
indicibile fugacità di quel fiore, di quello
stato, di quelle bellezze; si aggiunga il
ritorno sopra noi medesimi; e quindi un
sentimento di compassione per quell'angelo
di felicità, per noi medesimi, per la sorte
umana, per la vita, (tutte cose che non
possono mancar di venire alla mente), ne
segue un affetto il più vago e il più
sublime che possa immaginarsi.»
Un esame approfondito e dettagliato di
questo brano (che lasciamo alla sensibilità
ed alla intelligenza del giovane lettore)
consentirà un contatto più diretto con gli
"ameni inganni” che allietarono la
fanciullezza e l'adolescenza del Leopardi ed
una presa di coscienza dell' "animo” con cui
il Poeta li rievocò da adulto, dopo avere
scoperto il vero volto della realtà ed avere
sperimentato sulla propria persona "il male
di
vivere”.
In soli quattro giorni (17-20 settembre
1829) il Leopardi compose "La quiete dopo la
tempesta”, che consta di tre strofe di
diversa lunghezza: nella prima il Poeta
descrive la gioia festosa che sopraggiunge
negli uomini quando, passata la tempesta,
ricompare il sereno: "Ogni cor si rallegra,
in ogni lato / risorge il romorio, / torna
il lavoro usato”; nella seconda medita sulla
consistenza di questo piacere che non esiste
in positivo, ma è soltanto "figlio
d'affanno”, "gioia vana”, "frutto del
passato timore”; nella terza, infine,
ringrazia sarcasticamente la Natura per i
doni che porge ai mortali:
O natura
cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge; e di piacer, quel
tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno.
Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor; beata
se te d'ogni dolor morte risana. |
Pochi giorni dopo il Poeta compose “Il
sabato del villaggio”, che è tra gli idilli
più suggestivi per la grazia e la soavità
con cui viene descritta l’attesa della festa
in un semplice villaggio. Una serie di
quadretti luminosi e riposanti e solo sullo
sfondo il colore della malinconia che tarda
a mettersi in evidenza: la donzelletta che
viene dalla campagna recando un mazzo di
fiori che serviranno ad incorniciare la sua
fresca bellezza il dì di festa; la
vecchierella che siede di fronte al sole
cadente (simbolo anche del suo imminente
tramonto) e si lascia per un po' trasportare
in questa atmosfera di spensieratezza,
riandando sull'onda dei ricordi al tempo
della sua giovinezza, quando ancora sana e
snella, festeggiava con la danza i suoi anni
migliori; i fanciulli che gridano festosi
nella piazza; lo zappatore che torna a casa
fischiettando, mentre il falegname si
affretta a completare il lavoro per rendersi
libero la domenica. Tutto questo per nulla
adombrato dallo sfondo che, però, alla fine
emerge e si impone all'attenzione
dell'osservatore:
Questo di sette
è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno. |
Morale: la felicità non esiste in atto;
esiste solo nella speranza d’un futuro
migliore (che poi si svelerà come un
inganno) o nella rimembranza del tempo
passato (ricordando cioè gli anni della
speranza senza tener conto della realtà che
ne seguì). Ecco perché il sabato è il
miglior giorno della settimana e non già la
domenica, che non appaga le attese della
vigilia; e la fanciullezza è la migliore
stagione della vita umana, perché precorre
alla festa della vita, che è l’età virile,
che poi sarà inevitabilmente piena di
affanni e di pene. Il canto termina con
un'esortazione ai fanciulli di godersi la
loro età felice e di non crucciarsi se la
maturità tardi a venire:
Garzoncello
scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia
grave. |
L'ultimo dei grandi idilli è il “Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia”,
il capolavoro dei capolavori, secondo il
nostro giudizio. L'idea di questo canto
venne al Poeta da un articolo del barone
Meyendorff comparso nel settembre del 1826
sul “Journal des Savants”, in cui si diceva
dell'esistenza di pastori nomadi asiatici
che usavano trascorrere la notte, seduti su
di una pietra, a contemplare la luna ed a
sfogare le proprie tristezze.
Il Poeta presta i propri pensieri ed i
propri sentimenti alla semplice ed ingenua
voce del pastore e fa interrogare la luna
sul mistero della vita. La vita della luna è
simile a quella del pastore: sorge la sera e
va contemplando i deserti fino al suo
tramonto, proprio come il pastore che “sorge
in sul primo albore, move la greggia oltre
pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe”,
finché a sera, stanco, si riposa. L'unica
differenza è che il corso della luna è
immortale, la vita del pastore breve.
Ma qual è il fine di entrambi? La vita
dell'uomo è paragonabile ad un vecchio che
trascina a fatica le sue infermità e le sue
miserie “per sassi acuti, ed alta rena, e
fratte”, finché giunge al termine del suo
corso: un precipizio che lo annienta nel
nulla. Infatti già il nascere, per l’uomo, è
causa di tormento e rischio di morte. Poi,
fin da fanciullo, i genitori debbono
consolarlo dell'esser nato. Ma, “se la vita
è sventura, perché da noi si dura?” Forse la
luna sa il perché della vita, a chi sorrida
la primavera, a chi giovi l’estate, e mille
altre cose che son celate al semplice
pastore. il quale, però, sa una cosa di
certo: che la sua vita può forse giovare ad
altri, ma a lui è male. Ed anche quando
riposa senza alcun patimento, un peso
occulto gl’ingombra il cuore: la noia; a
differenza del gregge che invece sembra
beato quando non è afflitto da alcun dolore
presente. Il pastore conclude il suo lamento
immaginando che forse, se avesse le ali per
volare in cielo e contare le stelle ad una
ad una, sarebbe più felice. Ma il cuore gli
nega di appigliarsi a questa candida
illusione:
O forse erra dal
vero,
mirando all'altrui sorte, il mio
pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale. |
E' questo il canto supremo del dolore
cosmico e della noia. Osserva lo Zumbini:
«Nel nostro pastore le formidabili
interrogazioni sul mistero della vita e del
mondo sono precedute e accompagnate dalla
più ingenua maniera di guardare l'una e
l'altro; in ciò il maggior effetto del
canto, da ciò un'altra forma, pur nuova fra
le mille adoperate dal poeta medesimo, a
significare il suo pensiero supremo».
Il ciclo di Aspasia
Dopo i grandi Idilli, i cinque canti del
cosiddetto “ciclo di Aspasia”.
A sottrarre il Leopardi dalla “orribile
notte” in cui era costretto a vivere a
Recanati provvidero gli “Amici di Toscana”,
primo fra tutti il Colletta, che gli
procurarono con molta discrezione i mezzi
per poter vivere a Firenze. Il 29 aprile del
1830 egli partiva da Recanati alla volta del
capoluogo toscano, dove, ripresosi
relativamente in salute, non disdegnò di
frequentare i salotti di famiglie amiche. In
uno di questi conobbe l’esule napoletano
Antonio Ranieri che divenne il suo più
fidato amico, fino al punto da portarlo con
sé a Napoli, nella propria casa, e da
accudirlo amorevolmente fino alla morte. Ma
a Firenze conobbe pure una bellissima colta
signora, Fanny Targioni Tozzetti, della
quale si invaghì perdutamente, ricavandone
un'altra terribile delusione, che lo prostrò
più d’ogni altra amarezza precedente. A
questa donna sono dedicati i cinque canti
del ciclo di Aspasia: “Il pensiero
dominante” (1831), “Amore e Morte” (1832),
“Consalvo” (1832?), “A se stesso” (1833) e
“Aspasia” (Napoli 1834).
Il pensiero dominante” fa l’esaltazione
dell'Amore, “prepotente signore all'uman
core”, che è l’unica attenuante che si può
concedere al Destino, così fieramente ostile
al genere umano:
Pregio non ha,
non ha ragion la vita
se non per lui, per lui che all'uomo è
tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz'altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile. |
Il Poeta sa bene che anche l’amore è un
sogno, ma è un sogno possente, sovrumano,
che lo accompagnerà fino alla morte ed
oltre.
In “Amore e Morte” il Leopardi afferma che
Amore e Morte nacquero ad un parto, son
fratelli, e sono i compagni più pietosi, e
perciò più diletti, ai miseri mortali: l’uno
procura il massimo piacere consentito
all'uomo, l’altra segna la fine d’ogni
patimento:
Fratelli, a un
tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le
stelle.
Nasce dall'uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell'essere si trova;
l'altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla. |
“Consalvo” rappresenta invece Amore e Morte
in atto, come è stato convenientemente
affermato.
Consalvo (il Leopardi) giace sul letto di
morte ormai prossimo ad abbandonare la vita.
Gli è accanto Elvira (la donna amata, in cui
si raffigura la Fanny Targioni Tozzetti)
alla quale il morente chiede finalmente un
bacio. Soddisfatto del suo estremo
desiderio, il “fuggitivo Consalvo” eleva un
lamento lirico nel quale si confondono il
delirio della morte e l’estasi dell’amore:
...Morrò
contento
del mio destino omai, né più mi dolgo
ch'aprii le luci al dì. Non vissi
indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il
mondo:
amore e morte. All'una il ciel mi
guida
in sul fior dell'età; nell'altro,
assai
fortunato mi tengo.
........................................................
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d'amor. Passato è il
tempo,
né questo dì rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se
grave
non ti fu quest'affetto, al mio
feretro
dimani all'annottar manda un sospiro. |
Ma l’amore di Fanny era un inganno. Un
inganno atroce se bisogna credere a quanti
affermarono che la donna fingeva di
corrispondere all’amore del Poeta neppure
per pietà, ma per divertimento. Certo è che
gli amici, specie il Ranieri, fecero aprire
gli occhi al Leopardi, che volle dedicare a
se stesso questo delicato e sinceramente
patetico atto di resa.
Nacque così il breve canto “A se stesso”:
Or poserai per
sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno
estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben
sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è
spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il
mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il
fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno
impera,
e l'infinita vanità del tutto. |
Forse fu questa estrema delusione a fargli
accettare l’invito del Ranieri di
trasferirsi a Napoli, ove pensò di
vendicarsi scrivendo l’ultimo canto del
ciclo dedicato alla Targioni, “Aspasia”: il
Poeta confessa che non amò Aspasia, ma una
donna ideale ispiratagli dalla bellezza di
Aspasia e da lui vagheggiata nelle forme di
costei. Aspasia, come tutte le donne reali,
non potrà mai comprendere il vero
significato dei palpiti amorosi del cuore
del Poeta: nessuna donna è capace di volare
tanto in alto. Ella può anche vantarsi di
averlo fatto inginocchiare ai suoi piedi, ma
sappia che il Poeta amava e serviva solo
quella “idea” di donna che vedeva
raffigurata in lei, non già lei stessa.
L'ultimo Leopardi
Siamo così giunti agli ultimi canti, all'
“ultimo Leopardi”. “Sopra un basso rilievo
antico sepolcrale dove una giovane donna è
rappresentata in atto di partire
accommiatandosi dai suoi” rivolge alla
Natura un'altra accusa: quella di non aver
voluto rendere lieta almeno la morte!
Infatti, se la vita è sventura, la morte,
che ce ne sottrae, dovrebbe essere bene
accetta. Eppure chi mai potrebbe
Desiar de' suoi
cari il giorno estremo,
per dover egli scemo
rimaner di se stesso,
veder d'in su la soglia levar via
la diletta persona
con chi passato avrà molt'anni
insieme,
e dire a quella addio senz'altra speme
di riscontrarla ancora
per la mondana via;
poi solitario abbandonato in terra,
guardando attorno, all'ore ai lochi
usati
rimemorar la scorsa compagnia? |
“Sopra il ritratto di una bella donna
scolpito nel monumento sepolcrale della
medesima” è un canto doloroso quanto il
precedente, anch’esso rivolto contro la
Natura che distrugge in un attimo, con la
morte, una stupenda bellezza che tanto
conforto e gioia ha dato ai mortali:
Tal fosti: or
qui sotterra
polve e scheletro sei...
....................................
...or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi,
immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
quale splendor vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d'aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
divien quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto, si dilegua. |
“Palinodia al marchese Gino Capponi” è un
lungo canto (di ben 279 versi) in forma di
epistola, nel quale il Leopardi polemizza
ironicamente col nuovo movimento di pensiero
scientifico, economico e politico che
preannunciava gloriosamente ed enfaticamente
una nuova era di progresso, di pace, di
libertà: insomma di felicità per l’uomo. Il
Leopardi, fingendo, di ritrattare le sue
idee sul dolore universale e sulla sua
ineluttabilità per accettare le nuove
speranze propagandate dai nuovi
intellettuali, in effetti ribadisce il suo
pessimismo e soprattutto il suo giudizio
negativo sul progresso: felici potranno mai
essere gli uomini fra mille nuove comodità,
se fra loro continueranno a regnare gli odi,
le guerre, le invidie, le frodi; se la
Natura continuerà a distruggere tutto quello
che crea come un fanciullo che atterra il
castello or ora costruito "perché gli stessi
a lui fuscelli e fogli / per novo lavorio
son di mestieri"? Ed ecco con quanto
sarcasmo il Poeta apostrofa i filosofi del
suo tempo:
Oh menti, oh
senno, oh sovrumano acume
dell'età ch'or si volge! E che sicuro
filosofar, che sapienza, o Gino,
in più sublimi ancora e più riposti
subbietti insegna ai secoli futuri
il mio secolo e tuo! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e che domani abbatterà, per
girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degl'incensi il dì
vegnente! |
Nel 1836, non lontano dalla morte, il
Leopardi compose “La ginestra o il fiore del
deserto”, che è come un messaggio d’amore e
di pietà per il genere umano, un testamento
morale in cui il sentimento fa un estremo
tentativo per sovrastare la ragione a
dispetto della verità che proclama. I nuovi
filosofi vanno blaterando la superiorità
dell’uomo sulla natura, le grandi risorse
che egli ha per farsi artefice del proprio
destino: vengano allora alle falde del
Vesuvio per meditare sulla realtà del
rapporto uomo-natura vedendo ancor oggi i
resti delle antiche città di Pompei e di
Ercolano distrutte in pochi minuti dalla
violenza della Natura. Che differenza c’è
fra un popolo di formiche annientato dalla
caduta di un pomo e la gente di Pompei ed
Ercolano sommersa da una sola improvvisa
eruzione del Vesuvio? La verità è che la
Natura è possente e non si cura degli uomini
più che delle formiche! E' stupida la vanità
dell’uomo che vuol porsi a dominatore
dell’universo e si crea divinità amiche
pronte ad intervenire in suo favore. Molto
più saggio colui che virilmente riconosce lo
stato della propria miseria, l'infelicità
universale e non se la prende col compagno
di sventura, con l’uomo, ma con la vera
responsabile che è la Natura. Solo quando
l’umanità saprà fare a meno delle religioni
e delle false promesse di una felicità
ultraterrena e riconoscerà che la vita è
dolore e nulla si può fare per modificarla,
solo allora sarà possibile l’avvento di una
nuova ed autentica moralità che unirà gli
uomini in un vincolo di solidarietà contro
la comune nemica, la Natura.
Se “La ginestra” rappresenta il testamento
morale del Leopardi, “Il tramonto della
Luna” ne rappresenta l’addio al mondo. E'
l’estremo saluto che il Poeta rivolge a
questa valle di lacrime: gli ultimi versi li
dettò, poche ore prima di morire, ad Antonio
Ranieri. Il Leopardi paragona le tenebre
notturne, che avvolgono ed annullano le cose
dopo il tramonto della luna, all’infelicità
che avvolge la vita degli uomini dopo che è
trascorsa la giovinezza. Però se le cose
dopo poche ore di oscurità tornano ad essere
illuminate dalla più vivida luce del sole,
nessuna speranza di rifiorire resta all’età
dell’uomo dopo il tramonto della sua
primavera:
Voi, collinette
e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla quale poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d'altra luce giammai, né d'altra
aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l'altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura. |
Con la parola “sepoltura” il Leopardi mise
fine alla sua esistenza di uomo infelice e
di poeta.
A completare la raccolta dei “Canti”, il
Leopardi volle includere, nell'edizione
napoletana del 1835, alcuni brevi
componimenti (traduzioni o rifacimenti), e
precisamente: “Imitazione” (1818), “Scherzo”
(1828), “Dal greco di Simonide” (1823 o
1824) “Dello stesso” (1823 o 1824).
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