LETTERATURA ITALIANA: GIACOMO LEOPARDI

 

Luigi De Bellis

 


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LEOPARDI

Canti (seconda parte)

I grandi idilli

Sempre a Pisa, nello stesso anno 1828, il Poeta scriverà una delle sue poesie più belle, “A Silvia”, il primo dei “Grandi Idilli”, cui seguirono, tra il 1829 ed il 1830, gli altri cinque composti a Recanati, dove era stato costretto a ritirarsi per il ricomparire dei suoi soliti malanni fisici.
Questi canti, scritti “in sedici mesi di notte orribile”, costituiscono il capolavoro del Leopardi.
E' bene precisare subito che nei grandi idilli il Leopardi confonde il suo dolore con quello universale, che “canta” ispirandosi ai cari ricordi della fanciullezza: la rimembranza antica avvolge d’un velo di pudore il pianto del cuore e consente al Poeta un sentimento di tenerezza che lo tiene lontano sia dall'invettiva consueta contro il destino e, più ancora, contro la Natura, sia dal bisogno di usare le “tinte fosche” che meglio converrebbero alla sua ispirazione. Più che cantare gli effetti brutali del dolore che sommerge impietosamente tutto ciò che esiste, egli canta tutto ciò che di bello, di verginale, di consolante si trova purtroppo solamente nei sogni dell’infanzia e non mai nella realtà: quei sogni, quelle illusioni, quegli “ameni inganni” non possono rivivere che in versi sognanti, in versi accarezzati dalle dolci note di una musica lontana, che erano liete ed ora si caricano via via di una tenera malinconia: non trovano posto la disperazione e la rabbia; ed anche quando il Poeta non può fare a meno di riconoscere ed affermare per l'ennesima volta che “è funesto a chi nasce il dì natale”, il tono della voce è pacato, il cuore sembra non aver dimenticato l’immagine sognata della Primavera che ride a un suo segreto amante, gli occhi sono asciutti di pianto, forse perché non hanno più lacrime da versare, ma forse anche perché il Poeta non ha cuore di intristire il ricordo della sua fanciullezza (come appunto si fa dagli adulti che nascondono le proprie pene ai fanciulli).
Il primo dei grandi idilli fu, come già detto, “A Silvia”, composto a Pisa nel 1828. Anche questo canto, come già “Il sogno”, rievoca la tenera immagine di Teresa Fattorini, morta giovanissima (all'età di 21 anni, ma il Poeta anticipa la morte ancor prima del “limitar di gioventù”, in quanto la fanciulla qui è assunta come simbolo della caduta d’ogni sua antica speranza).
In “A Silvia” il Leopardi rievoca gli anni della sua prima adolescenza, quando sovente si affacciava alla finestra rapito dal canto della fanciulla, che sognava un lieto avvenire. Ma la sorte le fu avversa e stroncò violentemente ogni cara illusione:

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.


Ecco come è descritta la morte prematura della fanciulla: solo due parole vestite a lutto: “morbo” e “perivi”; tutte le altre vestite a festa: a cominciare da quel “tenerella” - che vien subito dopo “perivi”- che non sembra affatto riferita ad una fanciulla sul letto di morte, ma piuttosto ad una bambinella che ti gironzola intorno timidamente allegra; e poi: “il fior degli anni”, “molceva”, “dolce lode”, “negre chiome”, “sguardi innamorati”, “dì festivi”, “amore” ! Tornano alla mente le parole del De Sanctis: “chiama illusioni l'amore..., e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. E si noti con quanto affetto e - diremmo quasi - riconoscenza il Poeta si rivolge alla Speranza, che lo ha abbandonato dopo averlo illuso ma anche allietato negli anni dell'adolescenza:

Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!


Quasi certamente l’anno dopo, nel 1829, dopo il ritorno a Recanati, il Leopardi compose quel canto che aveva in mente da circa dieci anni e che volle inserire tra i piccoli idilli: “Il passero solitario”. E' infatti l'unico di questo ciclo che si ispiri al “dolore personale”. Ma lo stile è quello adulto del Leopardi maggiore.
La canzone, a schema libero, si divide in tre strofe: la prima descrive il modo di vivere del passero solitario, che non si cal d’allegria, schiva gli spassi, canta e così trascorre il più bel fiore dell’anno e della sua vita; la seconda strofa descrive la vita giornaliera del Poeta, assai simile a quella del passero solitario, perché anch’egli non cura sollazzo, riso e amore ed anzi da loro quasi fugge lontano, rinviando ogni diletto in altro tempo, nonostante il tacito ammonimento del sole che, dileguandosi tra lontani monti dopo il giorno sereno, “par che dica che la beata gioventù vien meno”; nella terza strofa c’è l’amara conclusione che si ricava dal raffronto delle due vite:

Tu, solingo augellin. venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.


Questo canto è singolarissimo nella produzione leopardiana: concepito in età di circa ventun anni, già a quell’epoca si ispirava ad una situazione psicologica più antica ed era perciò scevro di ogni urgenza passionale e conseguentemente di ogni tinta drammatica. Rievocato poi in età di trentun anni, lasciò intatta la sua primitiva freschezza, quasi per nulla risentendo del travaglio intellettuale intercorso nel frattempo nell’Autore delle “Operette Morali”. Il quale, con la sua sensibilità di grande poeta, ben comprese che il posto da assegnare a questo canto nella raccolta era tra i primi idilli. E qui l’avremmo lasciato volentieri anche noi, se avessimo saputo rinunziare per una volta allo scrupolo didattico, se cioè non ci fossimo posti il dubbio che il giovane lettore avrebbe potuto non comprendere le ragioni più intime del salto di qualità dello stile conseguito dal Poeta.
  Nello stesso anno 1829, sempre a Recanati, il Leopardi sentì il bisogno di affidare ai versi de “Le Ricordanze” le proprie emozioni a contatto delle cose a lui più care che, lasciate un tempo, quando aveva voluto fuggire dal “borgo selvaggio”, ritrovava ora intatte e così ricche di ricordi, ancora avvolte in quelle “fole” che la sua fantasia fanciulla -“improvida d’un avvenire mal fido”, direbbe il Manzoni- aveva saputo ricamare su di esse. Ora, però, quei cari ricordi, rievocati con tanta nostalgia, non valgono tuttavia ad attenuare il dolore della presente condizione, di una vita che si consuma nel segno dell’abbandono, senza amore, travolgendo inesorabilmente “ il caro tempo giovanil; più caro / che la fama e l'allor, più che la pura / luce del giorno, e lo spirar” e per di più in un “soggiorno disumano”. Dal contrasto doloroso fra gli “ameni inganni” d'un tempo e l’infelicità del momento nasce il fulcro di questo canto:

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d'affetti e di pensieri,
obliarvi non so.
.................................................
...Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
consolarmi non so del mio destino.


Ma il Poeta sa bene che la sventura non è soltanto sua:

...E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? 


Anzi la vita tutta è niente altro che “inutile miseria”:

...Fantasmi, intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio: non ha la vita un frutto,
inutile miseria. 


L’ultima strofa rievoca un personaggio femminile, Nerina, morta in giovane età e perciò assunta dal Leopardi come simbolo della giovinezza infranta, del fatale crollo d’ogni speranza all’apparir del vero, dell’inconsistenza delle illusioni umane. Si è a lungo discusso se Nerina fosse solamente un simbolo od anche il ricordo di una fanciulla realmente esistita ed amata dal Poeta. La concretezza di molti riferimenti che il Leopardi fa alla vita vissuta da Nerina fa propendere per la seconda ipotesi. In tal caso, però, risulta difficile risalire all’individuazione della donna cui si riferirebbe il Poeta: gli studiosi sono divisi fra la Teresa Fattorini del canto “A Silvia” ed una certa Maria Belardinelli che sei anni prima di morire andò a vivere con la famiglia a Recanati ed abitò nei pressi della casa Leopardi (morì il 3 novembre 1827, in età di 27 anni). E' chiaro che, in mancanza di una qualche indicazione dello stesso Autore, non si possa andare al di là di semplici congetture, ma è ancora più chiaro che poco interessi alla comprensione del canto conoscere la verità: Nerina è Nerina come Silvia è Silvia: due momenti della “storia dell’anima” leopardiana, due fantasmi evocati dal sepolcro dei sogni infranti:

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. 


Riferimenti concreti che fanno pensare ad una creatura reale. Ma Nerina è soprattutto il simbolo della rapidità con cui passano i sogni, della nostalgica ricordanza che ne avanza e su cui mesto riluce delle stelle il raggio. Sembra quasi che nel Leopardi la Natura, una volta tanto, appaia pietosa della condizione umana (come i foscoliani “rai di che son pie le stelle alle obliate sepolture”), ma non è così perché anche qui è lo stato soggettivo del Poeta a sentir mesto il raggio delle stelle, come già prima gli era apparso “nebuloso e tremulo” il volto della luna.
  Per meglio intendere il valore sentimentale di questo simbolo - rappresentato ora da Nerina, prima da Silvia - giova ricordare quanto il Leopardi scrisse in una nota dello "Zibaldone" in data 30 giugno 1828, cioè due mesi dopo la composizione del canto “A Silvia” ed un anno prima de “Le Ricordanze”; questo passo è interessante per capire la sostanza e la natura psicologica dei sogni e delle speranze giovanili del Leopardi, il perché questi volle riviverli e rappresentarli nella vicenda amara di due creature strappate anzi tempo alla vita ed il perché queste creature egli volle immaginarsele cadute prima di giungere al "limitar di gioventù” (Silvia) o quando da poco “splendea negli occhi quel confidente immaginar, quel lume di gioventù” (Nerina): 
«Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti, ecc., un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria d'innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi una impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità... Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di sedici o diciotto anni si aggiunga il pensiero dei patimenti che l'aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegnere ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell'angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.» 
Un esame approfondito e dettagliato di questo brano (che lasciamo alla sensibilità ed alla intelligenza del giovane lettore) consentirà un contatto più diretto con gli "ameni inganni” che allietarono la fanciullezza e l'adolescenza del Leopardi ed una presa di coscienza dell' "animo” con cui il Poeta li rievocò da adulto, dopo avere scoperto il vero volto della realtà ed avere sperimentato sulla propria persona "il male di vivere”.                                              
In soli quattro giorni (17-20 settembre 1829) il Leopardi compose "La quiete dopo la tempesta”, che consta di tre strofe di diversa lunghezza: nella prima il Poeta descrive la gioia festosa che sopraggiunge negli uomini quando, passata la tempesta, ricompare il sereno: "Ogni cor si rallegra, in ogni lato / risorge il romorio, / torna il lavoro usato”; nella seconda medita sulla consistenza di questo piacere che non esiste in positivo, ma è soltanto "figlio d'affanno”, "gioia vana”, "frutto del passato timore”; nella terza, infine, ringrazia sarcasticamente la Natura per i doni che porge ai mortali:

O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge; e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor; beata
se te d'ogni dolor morte risana.


Pochi giorni dopo il Poeta compose “Il sabato del villaggio”, che è tra gli idilli più suggestivi per la grazia e la soavità con cui viene descritta l’attesa della festa in un semplice villaggio. Una serie di quadretti luminosi e riposanti e solo sullo sfondo il colore della malinconia che tarda a mettersi in evidenza: la donzelletta che viene dalla campagna recando un mazzo di fiori che serviranno ad incorniciare la sua fresca bellezza il dì di festa; la vecchierella che siede di fronte al sole cadente (simbolo anche del suo imminente tramonto) e si lascia per un po' trasportare in questa atmosfera di spensieratezza, riandando sull'onda dei ricordi al tempo della sua giovinezza, quando ancora sana e snella, festeggiava con la danza i suoi anni migliori; i fanciulli che gridano festosi nella piazza; lo zappatore che torna a casa fischiettando, mentre il falegname si affretta a completare il lavoro per rendersi libero la domenica. Tutto questo per nulla adombrato dallo sfondo che, però, alla fine emerge e si impone all'attenzione dell'osservatore:

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.


Morale: la felicità non esiste in atto; esiste solo nella speranza d’un futuro migliore (che poi si svelerà come un inganno) o nella rimembranza del tempo passato (ricordando cioè gli anni della speranza senza tener conto della realtà che ne seguì). Ecco perché il sabato è il miglior giorno della settimana e non già la domenica, che non appaga le attese della vigilia; e la fanciullezza è la migliore stagione della vita umana, perché precorre alla festa della vita, che è l’età virile, che poi sarà inevitabilmente piena di affanni e di pene. Il canto termina con un'esortazione ai fanciulli di godersi la loro età felice e di non crucciarsi se la maturità tardi a venire:

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.


L'ultimo dei grandi idilli è il “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, il capolavoro dei capolavori, secondo il nostro giudizio. L'idea di questo canto venne al Poeta da un articolo del barone Meyendorff comparso nel settembre del 1826 sul “Journal des Savants”, in cui si diceva dell'esistenza di pastori nomadi asiatici che usavano trascorrere la notte, seduti su di una pietra, a contemplare la luna ed a sfogare le proprie tristezze.
Il Poeta presta i propri pensieri ed i propri sentimenti alla semplice ed ingenua voce del pastore e fa interrogare la luna sul mistero della vita. La vita della luna è simile a quella del pastore: sorge la sera e va contemplando i deserti fino al suo tramonto, proprio come il pastore che “sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe”, finché a sera, stanco, si riposa. L'unica differenza è che il corso della luna è immortale, la vita del pastore breve.
 Ma qual è il fine di entrambi? La vita dell'uomo è paragonabile ad un vecchio che trascina a fatica le sue infermità e le sue miserie “per sassi acuti, ed alta rena, e fratte”, finché giunge al termine del suo corso: un precipizio che lo annienta nel nulla. Infatti già il nascere, per l’uomo, è causa di tormento e rischio di morte. Poi, fin da fanciullo, i genitori debbono consolarlo dell'esser nato. Ma, “se la vita è sventura, perché da noi si dura?” Forse la luna sa il perché della vita, a chi sorrida la primavera, a chi giovi l’estate, e mille altre cose che son celate al semplice pastore. il quale, però, sa una cosa di certo: che la sua vita può forse giovare ad altri, ma a lui è male. Ed anche quando riposa senza alcun patimento, un peso occulto gl’ingombra il cuore: la noia; a differenza del gregge che invece sembra beato quando non è afflitto da alcun dolore presente. Il pastore conclude il suo lamento immaginando che forse, se avesse le ali per volare in cielo e contare le stelle ad una ad una, sarebbe più felice. Ma il cuore gli nega di appigliarsi a questa candida illusione:

O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

 
E' questo il canto supremo del dolore cosmico e della noia. Osserva lo Zumbini: «Nel nostro pastore le formidabili interrogazioni sul mistero della vita e del mondo sono precedute e accompagnate dalla più ingenua maniera di guardare l'una e l'altro; in ciò il maggior effetto del canto, da ciò un'altra forma, pur nuova fra le mille adoperate dal poeta medesimo, a significare il suo pensiero supremo».

Il ciclo di Aspasia
Dopo i grandi Idilli, i cinque canti del cosiddetto “ciclo di Aspasia”.
A sottrarre il Leopardi dalla “orribile notte” in cui era costretto a vivere a Recanati provvidero gli “Amici di Toscana”, primo fra tutti il Colletta, che gli procurarono con molta discrezione i mezzi per poter vivere a Firenze. Il 29 aprile del 1830 egli partiva da Recanati alla volta del capoluogo toscano, dove, ripresosi relativamente in salute, non disdegnò di frequentare i salotti di famiglie amiche. In uno di questi conobbe l’esule napoletano Antonio Ranieri che divenne il suo più fidato amico, fino al punto da portarlo con sé a Napoli, nella propria casa, e da accudirlo amorevolmente fino alla morte. Ma a Firenze conobbe pure una bellissima colta signora, Fanny Targioni Tozzetti, della quale si invaghì perdutamente, ricavandone un'altra terribile delusione, che lo prostrò più d’ogni altra amarezza precedente. A questa donna sono dedicati i cinque canti del ciclo di Aspasia: “Il pensiero dominante” (1831), “Amore e Morte” (1832), “Consalvo” (1832?), “A se stesso” (1833) e “Aspasia” (Napoli 1834).
Il pensiero dominante” fa l’esaltazione dell'Amore, “prepotente signore all'uman core”, che è l’unica attenuante che si può concedere al Destino, così fieramente ostile al genere umano:

Pregio non ha, non ha ragion la vita
se non per lui, per lui che all'uomo è tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz'altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile.


Il Poeta sa bene che anche l’amore è un sogno, ma è un sogno possente, sovrumano, che lo accompagnerà fino alla morte ed oltre. 
In “Amore e Morte” il Leopardi afferma che Amore e Morte nacquero ad un parto, son fratelli, e sono i compagni più pietosi, e perciò più diletti, ai miseri mortali: l’uno procura il massimo piacere consentito all'uomo, l’altra segna la fine d’ogni patimento:

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall'uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell'essere si trova;
l'altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla. 


“Consalvo” rappresenta invece Amore e Morte in atto, come è stato convenientemente affermato.
Consalvo (il Leopardi) giace sul letto di morte ormai prossimo ad abbandonare la vita. Gli è accanto Elvira (la donna amata, in cui si raffigura la Fanny Targioni Tozzetti) alla quale il morente chiede finalmente un bacio. Soddisfatto del suo estremo desiderio, il “fuggitivo Consalvo” eleva un lamento lirico nel quale si confondono il delirio della morte e l’estasi dell’amore:

...Morrò contento
del mio destino omai, né più mi dolgo
ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
amore e morte. All'una il ciel mi guida
in sul fior dell'età; nell'altro, assai
fortunato mi tengo.
........................................................
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
né questo dì rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
non ti fu quest'affetto, al mio feretro
dimani all'annottar manda un sospiro.


Ma l’amore di Fanny era un inganno. Un inganno atroce se bisogna credere a quanti affermarono che la donna fingeva di corrispondere all’amore del Poeta neppure per pietà, ma per divertimento. Certo è che gli amici, specie il Ranieri, fecero aprire gli occhi al Leopardi, che volle dedicare a se stesso questo delicato e sinceramente patetico atto di resa.
Nacque così il breve canto “A se stesso”:

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.


Forse fu questa estrema delusione a fargli accettare l’invito del Ranieri di trasferirsi a Napoli, ove pensò di vendicarsi scrivendo l’ultimo canto del ciclo dedicato alla Targioni, “Aspasia”: il Poeta confessa che non amò Aspasia, ma una donna ideale ispiratagli dalla bellezza di Aspasia e da lui vagheggiata nelle forme di costei. Aspasia, come tutte le donne reali, non potrà mai comprendere il vero significato dei palpiti amorosi del cuore del Poeta: nessuna donna è capace di volare tanto in alto. Ella può anche vantarsi di averlo fatto inginocchiare ai suoi piedi, ma sappia che il Poeta amava e serviva solo quella “idea” di donna che vedeva raffigurata in lei, non già lei stessa.

 L'ultimo Leopardi 
Siamo così giunti agli ultimi canti, all' “ultimo Leopardi”. “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale dove una giovane donna è rappresentata in atto di partire accommiatandosi dai suoi” rivolge alla Natura un'altra accusa: quella di non aver voluto rendere lieta almeno la morte! Infatti, se la vita è sventura, la morte, che ce ne sottrae, dovrebbe essere bene accetta. Eppure chi mai potrebbe

Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
per dover egli scemo
rimaner di se stesso,
veder d'in su la soglia levar via
la diletta persona
con chi passato avrà molt'anni insieme,
e dire a quella addio senz'altra speme
di riscontrarla ancora
per la mondana via;
poi solitario abbandonato in terra,
guardando attorno, all'ore ai lochi usati
rimemorar la scorsa compagnia?


“Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” è un canto doloroso quanto il precedente, anch’esso rivolto contro la Natura che distrugge in un attimo, con la morte, una stupenda bellezza che tanto conforto e gioia ha dato ai mortali:

Tal fosti: or qui sotterra
polve e scheletro sei...
....................................
...or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
quale splendor vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d'aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
divien quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto, si dilegua.


“Palinodia al marchese Gino Capponi” è un lungo canto (di ben 279 versi) in forma di epistola, nel quale il Leopardi polemizza ironicamente col nuovo movimento di pensiero scientifico, economico e politico che preannunciava gloriosamente ed enfaticamente una nuova era di progresso, di pace, di libertà: insomma di felicità per l’uomo. Il Leopardi, fingendo, di ritrattare le sue idee sul dolore universale e sulla sua ineluttabilità per accettare le nuove speranze propagandate dai nuovi intellettuali, in effetti ribadisce il suo pessimismo e soprattutto il suo giudizio negativo sul progresso: felici potranno mai essere gli uomini fra mille nuove comodità, se fra loro continueranno a regnare gli odi, le guerre, le invidie, le frodi; se la Natura continuerà a distruggere tutto quello che crea come un fanciullo che atterra il castello or ora costruito "perché gli stessi a lui fuscelli e fogli / per novo lavorio son di mestieri"? Ed ecco con quanto sarcasmo il Poeta apostrofa i filosofi del suo tempo:

Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
dell'età ch'or si volge! E che sicuro
filosofar, che sapienza, o Gino,
in più sublimi ancora e più riposti
subbietti insegna ai secoli futuri
il mio secolo e tuo! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e che domani abbatterà, per girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!


Nel 1836, non lontano dalla morte, il Leopardi compose “La ginestra o il fiore del deserto”, che è come un messaggio d’amore e di pietà per il genere umano, un testamento morale in cui il sentimento fa un estremo tentativo per sovrastare la ragione a dispetto della verità che proclama. I nuovi filosofi vanno blaterando la superiorità dell’uomo sulla natura, le grandi risorse che egli ha per farsi artefice del proprio destino: vengano allora alle falde del Vesuvio per meditare sulla realtà del rapporto uomo-natura vedendo ancor oggi i resti delle antiche città di Pompei e di Ercolano distrutte in pochi minuti dalla violenza della Natura. Che differenza c’è fra un popolo di formiche annientato dalla caduta di un pomo e la gente di Pompei ed Ercolano sommersa da una sola improvvisa eruzione del Vesuvio? La verità è che la Natura è possente e non si cura degli uomini più che delle formiche! E' stupida la vanità dell’uomo che vuol porsi a dominatore dell’universo e si crea divinità amiche pronte ad intervenire in suo favore. Molto più saggio colui che virilmente riconosce lo stato della propria miseria, l'infelicità universale e non se la prende col compagno di sventura, con l’uomo, ma con la vera responsabile che è la Natura. Solo quando l’umanità saprà fare a meno delle religioni e delle false promesse di una felicità ultraterrena e riconoscerà che la vita è dolore e nulla si può fare per modificarla, solo allora sarà possibile l’avvento di una nuova ed autentica moralità che unirà gli uomini in un vincolo di solidarietà contro la comune nemica, la Natura.
Se “La ginestra” rappresenta il testamento morale del Leopardi, “Il tramonto della Luna” ne rappresenta l’addio al mondo. E' l’estremo saluto che il Poeta rivolge a questa valle di lacrime: gli ultimi versi li dettò, poche ore prima di morire, ad Antonio Ranieri. Il Leopardi paragona le tenebre notturne, che avvolgono ed annullano le cose dopo il tramonto della luna, all’infelicità che avvolge la vita degli uomini dopo che è trascorsa la giovinezza. Però se le cose dopo poche ore di oscurità tornano ad essere illuminate dalla più vivida luce del sole, nessuna speranza di rifiorire resta all’età dell’uomo dopo il tramonto della sua primavera:

Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla quale poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l'altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.


Con la parola “sepoltura” il Leopardi mise fine alla sua esistenza di uomo infelice e di poeta.
  A completare la raccolta dei “Canti”, il Leopardi volle includere, nell'edizione napoletana del 1835, alcuni brevi componimenti (traduzioni o rifacimenti), e precisamente: “Imitazione” (1818), “Scherzo” (1828), “Dal greco di Simonide” (1823 o 1824) “Dello stesso” (1823 o 1824).


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