Scritto probabilmente nel marzo 1824, in
parallelo con la stesura delle prime
Operette morali, viene rivisto e completato
due anni dopo, una volta terminata la
stagione delle Operette. Anche questo
Discorso rimane inedito fino al 1906, quando
viene stampato nella raccolta: Scritti vari
inediti delle carte napoletane a Firenze
dalla Le Monnier. Notevole in questi ultinmi
anni il ritorno di interesse che la critica
ha dimostrato negli ultimi anni per questo
scritto leopardiano, tra i quali ricordiamo
quelli di Augusto Placanica e Novella
Bellucci.
Questo saggio rivela qualche tratto di
acutezza nel mettere in evidenza la
condizione generale culturale e psicologia
dell’Italia e soprattutto degli italiani,
studiati sia in parallelo con le altre
nazioni d’Europa sia sul piano "nazioni
settentrionali-nazioni meridionali",
mostrando alcune caratteristiche che della
grandezza culturale ed esistenziale delle
nazioni meridionali nell’antichità e alcune
caratteristiche della grandezza esistenziale
e culturale delle nazioni settentrionale nei
tempi moderni, sottolineando come l’età di
mezzo sia stata solo un periodo di barbarie
dell’umanità.
"Colpisce soprattutto la coerenza con la
quale Leopardi affronta il soggetto
impiegando uno dei cardini del suo pensiero:
la contrapposizione antico-moderno, per
giungere a una diagnosi precisa
dell’"anomalia morale" rappresentata dalla
vita italiana" per la quale constata un
processo di incivilimento incompleto e
difettoso che ha sottratto all’Italia i
vecchi fondamenti della vita morale,
un’Italia incapace, come è accaduto alle
altre nazioni civili d’Europa di sostituirli
con quei principii derivanti direttamente
dagli ordinamenti della vita sociale e
civile che ha caratterizzato soprattutto
l’ultimo secolo della vita sociale delle
"nazioni settentrionali".
Il Leopardi credeva immature le coscienze
degli italiani, perché credeva inesistente
in Italia una vera società che accomunasse
tutti gli italiani come un potente collante
che sul piano ideale era rappresentato dalla
cultura, dalla pià grande cultura che
l’umanità avesse avuta insieme a quella
greca.
Forse questo discorso è uno dei più
importanti perché in modo maturo, non
filologico (sul piano delle semplici
citazioni dotte di altri autori più o meno
noiosi ma anche più o meno lontani dalla
qualità esistenziale dell’italiano della
prima metà dell’Ottocento) ma filosofico
(nel senso che abbraccia i fondamenti della
vita stessa dell’italiano, ecc.), affronta
la condizione anomala dell’italiano rispetto
a quella degli altri popoli che hanno da
qualche secolo una società indivisa e
nazionale e quindi hanno potuto formare la
propria coscienza nuova di popolo moderno
sulla base proprio della civiltà e della
società.
I popoli antichi hanno avuto molta
immaginazione sulla quale si è fondata la
civiltà, e la superiorità di certi popoli
nella capacità di creare illusioni si
verificava anche nella realtà quotidiana e
nella cultura e nel dominio sulle altre
nazioni, un dominio che non è soltanto
politico. I popoli moderni (pensiamo ad es.
alla situazione di alcuni popoli
settentrionali, come quelli inglese e
tedesco) conservano l’immaginazione anche in
mezzo alla crescente civiltà: per questo
sembra proprio venuto il tempo del
predominio dei settentrionali che sono
preferibili per l’immaginazione del moderno
sui meridionali che sono preferibili per i
caratteri naturali dei popoli insieme
all’immagine dell’antichità.
Ma il Leopardi, come annotava Giuseppe De
Robertis, sui tempi suoi sbagliò: "Il suo
ingegno troppo era estraneo, incapace a
interessarsi della vita del suo tempo. La
estrema sfiducia nei destini dell’umanità,
faceva che non ptesse neppure accostarsi a
quello che che nella umana vita era cosa sì
minima. Con le ragioni tutte in moto della
sua coscienza straziata, il tono della sua
satura doveva risultare naturalmente
sproporzionato. Quando sarebbe bastato
capire che cosa gli italiani volevano, e che
quell’illusione non era superbia, ma un modo
di non disperare, di trovar coraggio." (De
Robertis, Saggio sul Leopardi, Vallecchi,
Firenze 1973, pag. 121 (ma il saggio venne
pubblicato per la prima volta nel 1944).
Il Discorso si fonda sulla constatazione che
la condizione d’inferiorità dell’Italia di
fronte alle altre nazioni europee è dovuta
principalmente alla mancanza di una pubblica
opinione e di una vera "società", all’aver
perduto i pregi della condizione originaria
di "natura" e al non aver acquisito quelli
dovuti alla "civiltà", per cui gli italiani
non hanno "costumi" di vita ma abitudini
dominate dal cinismo. La modernità e i lumi
filosofici hanno il potere di disilludere
gli uomini sulle regole morali e di
promuovere il cinismo e l’indifferenza,
senza riuscire a suscitare nuove illusioni.
Proprio il "cinismo" è uno dei concetti più
discussi e analizzati dal Leopardi, perché
crede che sia una delle caratteristiche
principali degli italiani. Gli italiani, a
qualsiasi classe essi appartengano, sono i
più cinici del mondo, " ridono della vita:
ne ridono assai più, e con più verità e
persuasione intima di disprezzo e freddezza
che non fa niun’altra nazione", non
possiedono l’arte di conversare e "passano
il loro tempo a deridersi scambievolmente, a
pungersi fino al sangue", tutti presi a
combattersi l’un l’altro, per cui ognuno
deve prima o poi imparare a difendersi e
combattere se non vuole essere travolto e
oppresso.
Questo è il passo che riteniamo più
importante, perché caratterizza non solo le
idealità del secolo dei lumi ma l’avvento di
una nuova società che a duecento anni di
distanza è ancora lontana dal verificarsi in
essere:
"Il grandissimo e incontrastabile beneficio
della rinata civiltà e del risorgimento de’
lumi si è di averci liberato da quello stato
egualmente lontano dalla coltura e dalla
natura proprio de’ tempi bassi, cioè di
tempi corrottissimi; da quello stato che non
era né civile né naturale, cioè propriamente
e semplicemente barbaro, da quella ignoranza
molto peggiore e più dannosa di quella de’
fanciulli e degli uomini primitivi, dalla
superstizione, dalla viltà e codardia
crudele e sanguinaria, dall’inerzia e
timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva,
dalla tirannide all’orientale, inquieta e
micidiale, dall’abuso eccessivo del duello,
dalla feudalità del Baronaggio e dal
vassallaggio, dal celibato volontario o
forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla
mancanza d’ogn’industria e deperimento e
languore dell’agricoltura, dalla
spopolazione, povertà, fame, peste che
seguivano ad ogni tratto da tali cagioni,
dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle
guerre continue e mortali e devastazioni e
incendi di città e di campagna tra Re e
Baroni, Baroni e vassalli, città e città,
fazioni e fazioni, famiglie e famiglie,
dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria
e d’assassineria, dalla ferocia non mai
usata per la patria né per la nazione, dalla
total mancanza di nome e di amor nazionale
patrio, e di nazioni, dai disordini orribili
nel governo, anzi dal niun governo, niuna
legge, niuna forma costante di repubblica e
amministrazione, incertezza della giustizia,
de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e
regolamenti, tutto in potestà e a
discrezione e piacere della forza, e questa
per lo più posseduta e usata senza coraggio,
e il coraggio non mai per la patria e i
pericoli non mai incontrati per lei, né per
gloria, ma per danari, per vendetta, per
odio, per basse ambizioni e passioni, o per
superstizioni e pregiudizi, i vizi non
coperti d’alcun colore, le colpe non curanti
di giustificazione alcuna, i costumi
sfacciatamente infami anche ne’ più grandi e
in quelli eziandio che facean professione di
vita e carattere più santo, guerre di
religione, intolleranza religiosa,
inquisizione, veleni, supplizi orribili
verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun
diritto delle genti, tortura, prove del
fuoco, e cose tali. Da questo stato ci ha
liberati la civiltà moderna;".
È un pensiero da leggere e meditare molto
attentamente, vista la sua sempre attuale
realtà.
Molto indubbiamente è stato fatto, ma molto
ancora si deve fare. Se vogliamo veramente
capire i tempi moderni bisogna storicamente
partire da questo passo che esemplifica in
maniera esemplare l’avvento degli ideali
illuministici.
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