Tra il 1816 ed il 1819 il
Leopardi vive il periodo più difficile della
sua esistenza che lo indurrà finanche a
concepire propositi di suicidio: i rapporti
con i familiari si sono di gran lunga
inacerbiti, dai concittadini si tiene alla
larga, ma quello che maggiormente
l’affligge, fra i tanti mali fisici e la
consapevolezza di avere un corpo deforme, di
avere cioè “dispregevolissima tutta
quella gran parte dell'uomo, che è la sola a
cui guardino i più”, è una temporanea
ma gravissima infermità agli occhi che gli
impedisce di ingannare con gli studi il
senso di solitudine che l’opprime. In questi
anni il suo dolore raggiunge la punta
estrema, come testimonia questo accorato
lamento rivolto al solito pietoso amico, al
Giordani, in una lettera del 26 aprile 1819:
«Se
in questo momento impazzissi - scrive il
Leopardi -, io credo che la mia pazzia
sarebbe di seder sempre con gli occhi
attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra
le ginocchia, senza né ridere né piangere né
movermi, altro che per forza, dal luogo dove
mi trovassi. Non ho più lena di concepire
nessun desiderio, né anche della morte; non
perché io la tema in nessun conto, ma non
vedo più divario tra la morte e questa mia
vita, dove non viene più a consolarmi
neppure il dolore. Questa è la prima volta
che la noia non solamente mi opprime e
stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor
gravissimo, e sono così spaventato della
vanità di tutte le cose, e della condizione
degli uomini, morte tutte le passioni, come
sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori
di me, considerando che è un niente anche la
mia disperazione».
Le
tre conversioni
Questi tre
anni sono decisivi non solo perché
consolidano e rendono definitiva nel giovane
poeta la concezione che la vita è dolore e
noia, ma anche perché gli fanno maturare
quegli orientamenti di pensiero e di
sentimento che lo porteranno a tre
specifiche “conversioni”: una di
natura letteraria per la quale abbandona gli
studi filologici per dedicarsi alla
letteratura ed alla poesia; una di natura
politica per la quale ripudia le idee
conservatrici e reazionarie ed abbraccia le
idee patriottiche dei liberali (la cui più
nobile testimonianza è nei canti “All'Italia”
e “Sopra il
monumento di Dante”, entrambe del
1818); la terza di natura
filosofico-religiosa per la quale rinnega la
primitiva fede religiosa e fa propri
l'ateismo e la concezione meccanicistica
degli illuministi.
Il Leopardi si
determinò quindi ben presto all’idea,
divenuta col tempo incrollabile, che la vita
è dolore e che, specie per l’uomo, meglio
sarebbe il non venir mai al mondo.
La pagina
più spietata in cui questo convincimento è
spiegato in termini esasperati e forse
paradossali, ci sembra essere la seguente
nota dello “Zibaldone”
datata da Bologna, 17-19 aprile 1826:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è
male; che ciascuna cosa esiste è un male;
ciascuna cosa esiste per fin di male;
l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento
naturale dell'universo non sono altro che
male, nè diretti ad altro che al male. Non
v'è altro bene che il non essere: non v'ha
altro di buono che quel che non è, le cose
che non son cose: tutte le cose sono
cattive...
Non gli uomini solamente, ma il genere umano
fu e sarà sempre infelice di necessità. Non
il genere umano solamente ma tutti gli
animali. Non gli animali soltanto ma tutti
gli altri esseri al loro modo. Non
gl'individui, ma le specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di
fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia
nella più mite stagione dell'anno. Voi non
potete volger lo sguardo in nessuna parte
che voi non vi troviate del patimento... Là
quella rosa è offesa dal sole, che gli ha
dato la vita; si corruga, langue,
appassisce. Là quel giglio è succhiato
crudelmente da un'ape, nelle sue parti più
sensibili, più vitali. Il dolce mele non si
fabbrica dalle industriose, pazienti, buone,
virtuose api senza indicibili tormenti di
quelle fibre delicatissime, senza strage
spietata di teneri fiorellini. Quell'albero
è infestato da un formicaio, quell'altro da
bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare;
questo è ferito nella scorza e bruciato
dall'aria o dal sole che penetra nella
piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle
radici; quell'altro ha più foglie secche;
quest'altro è roso, morsicato nei fiori;
quello trafitto, punzecchiato nei frutti.
Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo
fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo
umido, troppo secco. L'una patisce incomodo
e trova ostacolo e ingombro nel crescere,
nello stendersi; l'altra non trova dove
appoggiarsi, o si affatica e stenta per
arrivarvi. In tutto il giardino tu non
trovi una pianticella sola in istato di
sanità perfetta...
Lo spettacolo di tanta copia di vita
all'entrare in questo giardino ci rallegra
l'anima, e di qui è che questo ci pare
essere un soggiorno di gioia. Ma in verità
questa vita è trista e infelice, ogni
giardino è quasi un vasto ospitale (luogo
ben più deplorevole che un cemeterio), e se
questi esseri sentono o, vogliamo dire,
sentissero, certo è che il non essere
sarebbe per loro assai meglio che l'essere.»
Il
pessimismo
A questa
drastica definizione del “male di vivere”,
da cui discende ovviamente il concetto che
la felicità non esiste se non nella vana
speranza che sempre gli uomini nutrono per
il loro avvenire, il Leopardi pervenne
attraverso tre fasi che gli studiosi
sogliono definire del dolore personale, del
dolore storico e del dolore cosmico.
La prima è
rappresentata soprattutto dai cosiddetti
piccoli idilli (“L'infinito”,
“La sera del dì di
festa”, “Alla
luna”, “Il
sogno”, “La
vita solitaria”), composti
tra il 1819 ed il 1821, e dal famosissimo “Il
passero solitario”, che, pur
essendo stato composto nel 1829 ed essendo
comunemente inserito fra i “grandi
idilli”, fu in effetti concepito
tra il 1819 ed il 1821 e collocato dal poeta
stesso insieme con i piccoli idilli: qui il
Leopardi canta il proprio dolore e
l'ineluttabilità della propria infelicità
(«...io questo ciel, che sì benigno /
appare in vista, a salutar m'affaccio, / e
l'antica natura onnipossente, / che mi fece
all'affanno. -A te la speme / nego, mi
disse, anche la speme; e d'altro / non
brillin gli occhi tuoi se non di pianto.-»),
ma non esclude, anzi lo afferma, che gli
altri possano essere felici (« Tutta
vestita a festa / la gioventù del loco /
lascia le case, e per le vie si spande; / e
mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
»).
La seconda
fase è rappresentata dalle :
"Operette
morali” del 1824 nelle quali il
Leopardi svolge una ironica ma accesa
requisitoria contro il Progresso, che invece
di favorire l'uomo offrendogli i mezzi di un
maggior benessere, lo ha sostanzialmente
allontanato dallo stato beato della
primitiva ignoranza, durante il quale egli “sentiva
senza avvertire” e fantasticava a suo
piacimento finché la Ragione non gli svelò
il triste vero della sua fatale infelicità;
contro la Filosofia, che si affanna a
convincere l'uomo di essere una creatura
privilegiata mentre invece è la più infelice
di tutte proprio perché è in grado di
comprendere il suo malessere ed è fortemente
desiderosa di piaceri di cui non potrà mai
godere; contro la Natura che crea
incessantemente nuovi individui per poi
distruggerli non senza averli prima
tormentati
(«So
bene - così uno sperduto islandese
apostrofa la Natura - che tu non hai
fatto il mondo in servigio degli uomini.
Piuttosto crederei che l'avessi fatto e
ordinato espressamente per tormentarli. Ora
domando: t'ho io forse pregato di pormi in
questo universo? o mi vi sono intromesso
violentemente, e contro tua voglia? Ma se di
tua volontà, e senza mia saputa, e in
maniera che io non poteva sconsentirlo né
ripugnarlo, tu stessa, con le tue mani, mi
vi hai collocato; non è egli dunque ufficio
tuo, se non tenermi lieto e contento in
questo tuo regno, almeno vietare che io non
vi sia tribolato e straziato, e che
l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico
di me, dicolo di tutto il genere umano,
dicolo degli altri animali e di ogni
creatura.» e la Natura così risponde: «Tu
mostri di non aver posto mente che la vita
di questo universo è un perpetuo circuito di
produzione e distruzione, collegate ambedue
tra se di maniera, che ciascheduna serve
continuamente all'altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale, sempre
che cessasse o l'una o l'altra di loro,
verrebbe parimenti in dissoluzione. Per
tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera da patimento»; ma
a quest'altra obiezione dell'islandese la
Natura non dà - perché non vuole o, forse,
non sa dare - alcuna risposta: «Cotesto
medesimo odo ragionare a tutti i filosofi.
Ma poiché quel che è distrutto,
patisce; e quel che distrugge, non gode, e a
poco andare è distrutto medesimamente; dimmi
quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi
piace o a chi giova cotesta vita
infelicissima, dell'universo, conservata con
danno e con morte di tutte le cose che lo
compongono?»).
La terza fase, quella del
dolore cosmico, già abbozzata nelle
Operette, si sviluppa nei grandi idilli
A Silvia”,
“Le ricordanze”, “La quiete dopo
la tempesta”, “Il sabato del
villaggio”, “Canto notturno di un
pastore errante dell'Asia”,
composti tra il 1828 ed il 1830: tutte le
creature dell'universo soffrono perché
coinvolte nel processo di trasformazione che
la Natura è costretta ad operare per
garantirsi un'esistenza perenne, ma l'uomo
soffre maggiormente per tre motivi precisi:
perché è dotato di sensibilità per cui
avverte scientemente il proprio dolore;
perché ha un irrefrenabile desiderio di
felicità che non esiste; infine perché solo
all'uomo tocca di raggiungere la punta
estrema dell'infelicità, che consiste nella
“noia” (“taedium vitae”), cioè
nell’assenza totale di ogni sensazione sia
di bene che di male: il pastore errante
dell'Asia dice alla sua “greggia”:
Quando tu siedi
all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe,
all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio
assale?- |
La
concezione della Natura
A questo punto
della sua riflessione è chiaro che la
Natura, che pure un tempo gli era apparsa
benigna, in quanto aveva fornito l'uomo
della fantasia e, quindi, della capacità di
eludere la conoscenza della triste realtà
creandosi miti e illusioni a proprio
piacimento (ed era stata colpa dell’uomo e
della sua stolta sete di conoscenza se la
Ragione aveva poi squarciato il velo che
nascondeva la verità), e poi indifferente
verso i problemi dell'uomo, destinato
anch'esso, come tutte le altre creature,
all'incessante processo di “creazione e
distruzione” che è indispensabile alla
conservazione dell'universo, ora gli appaia
matrigna nei confronti dell'uomo nel quale
ha instillato il desiderio di felicità, pur
sapendolo destinato all'infelicità, ed al
quale ha dato un'acuta sensibilità ad
avvertire il dolore, pur potendolo creare
insensibile.
Questa
avversione verso la Natura, questa ostilità
ossessivamente sentita nei suoi confronti,
egli ribadì anche nel suo estremo messaggio
agli uomini, nel suo testamento morale, cioè
ne “
La
ginestra”,
in cui esorta gli uomini ad accettare
virilmente il proprio stato di infelicità e
ad unirsi per contrastare fieramente la
comune nemica, benché la lotta sia impari e
la vittoria impossibile:
Nobile natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca
lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in
sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli oddi e
l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a
questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aìta
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. |
Filosofia
- Religione - Morale
Naturalmente
una così ostinata avversione contro la
Natura e, praticamente, contro la vita
dell'universo non reggerebbe se non
inquadrata in una visione di radicale
ateismo. Lo stesso Leopardi, in un'epoca in
cui forse era ancora in qualche modo
credente (1818?), aveva avvertito:
«Può
mai stare che il non esistere sia
assolutamente meglio ad un essere che
l'esistere? Ora così accadrebbe appunto
all'uomo senza una vita futura».
Ed
ancora qualche tempo dopo, quando aveva già
rinnegata la fede cattolica ed aveva
abbracciato l'ateismo illuministico, egli
ribadiva la necessità di un credo religioso,
se non altro per motivi morali:
«La
filosofia indipendente dalla religione -
scrive in una notazione dello “Zibaldone”
datata 16 giugno 1920 -, in sostanza non
è altro che la dottrina della scelleraggine
ragionata; e dico questo non parlando
cristianamente, e come l'hanno detto tutti
gli apologisti della religione, ma
moralmente. Perché tutto il bello e il buono
di questo mondo essendo pure illusioni, e la
virtù, la giustizia, la magnanimità ecc.
essendo puri fantasmi e sostanze
immaginarie, quella scienza che viene a
scoprire tutte queste verità che la natura
aveva nascosto sotto un profondissimo
arcano, se non sostituisce in loro luogo le
rivelate, per necessità viene a concludere
che il vero partito in questo mondo, è
l'essere un perfetto egoista e il fare
sempre quello che ci torna in maggior comodo
e piacere».
Ma,
nonostante queste premesse, egli rinnegò
ogni valore positivo prima attribuito alle
religioni, in quanto queste promettono una
felicità ultraterrena, mentre l'umanità
aspira ad una felicità terrena, “da
essere sperimentata dai sensi e da questo
nostro animo tal quale egli è
presentemente”. Il cristianesimo in
particolare gli pare “più atto ad
atterrire che a consolare o a rallegrare”.
La
condizione dell’uomo si profila, così,
disperata e dovrebbe logicamente convincere
che il miglior partito sarebbe proprio il
suicidio.
D’altra
parte, una tentazione del genere il Leopardi
la aveva avuta realmente da giovane. Sul
piano della pura razionalità, il Leopardi
accetta codesta conclusione, ma la respinge
energicamente con la forza del sentimento.
Infatti, nel “Dialogo
di Plotino e di Porfirio”, che è
del 1827, il Leopardi non può non convenire
sulla giustezza delle argomentazioni di
Porfirio in favore del suicidio, ma finisce
con l’accettare le ragioni del sentimento
enunciate da Plotino.
Ecco uno squarcio del Dialogo da cui si
comprende la posizione di entrambi i
protagonisti:
«Porfirio: La natura vieta
l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non
avendo ella la volontà o potere di farmi né
felice né libero da miseria, avesse facoltà
di obbligarmi a vivere. Certo se la natura
ci ha ingenerato amore della conservazione
propria, e odio della morte; essa non ci ha
dato meno odio dell'infelicità, e amore del
nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto
più principali queste ultime inclinazioni
che quelle, quanto che la felicità è il fine
di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore
o odio; e che non si sfugge la morte, né la
vita si ama, per se medesima, ma per
rispetto e amore del nostro meglio, e odio
del male e del danno nostro. Come dunque può
esser contrario alla natura, che io fugga la
infelicità in quel sol modo che hanno gli
uomini di fuggirla? che è quello di tormi
dal mondo; perché mentre son vivo io non la
posso schifare [= schivare]. E come sarà
vero che la natura mi vieti di appigliarmi
alla morte, che senza alcun dubbio è il mio
meglio; e di ripudiar la vita, che
manifestamente mi viene a esser dannosa e
mala, poiché non mi può valere ad altro che
a patire, e a questo per necessità mi vale
e mi conduce in fatto?
...........................................................................................................
Plotino:
Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro
ragione l'accomodar l'animo alla vita:
certamente quello è un atto fiero e inumano.
E non dee piacer più, né vuolsi elegger
piuttosto di essere secondo ragione un
mostro, che secondo natura uomo.
E perché anche non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di
sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei
genitori, della moglie; delle persone
famigliari e domestiche, colle quali siamo
usati di vivere da gran tempo; che, morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo
in cuor nostro dolore alcuno in questa
separazione; né terremo conto di quello che
sentiranno essi, e per la perdita di persona
cara o consueta, e per l'atrocità del caso?
Io so bene che non dee l'animo del sapiente
essere troppo molle; né lasciarsi vincere
dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che
egli ne sia perturbato, che cada a terra,
che ceda e che venga meno come vile, che si
trascorra a lagrime smoderate, ad atti non
degni della stabilità di colui che ha pieno
e chiaro conoscimento della condizione
umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole
usare in quegli accidenti tristi che vengono
dalla fortuna, e che non si possono evitare;
non abusarla in privarci spontaneamente,
per sempre, della vista, del colloquio,
della consuetudine dei nostri cari. Aver per
nulla il dolore della disgiunzione e della
perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei
compagni; o non esser atto a sentire di sì
fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente,
ma di barbaro. Non far niuna stima di
addolorare colla uccisione propria gli amici
e i domestici; è di non curante d'altrui, e
di troppo curante di se medesimo. E in vero,
colui che si uccide da se stesso non ha cura
né pensiero alcuno degli altri: non cerca se
non la utilità propria; si gitta, per così
dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e
tutto il genere umano: tanto che questa
azione di privarsi di vita apparisce il più
schietto, il più sordido, e certo il men
bello e men liberale amore di se medesimo
che si trovi al mondo...
Viviamo,
Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non
ricusiamo di portare quella parte, che il
destino ci ha stabilita, dei mali della
nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci
compagnia l'un l'altro; e andiamoci
incoraggiando, e dando mano e soccorso
scambievolmente, per compiere nel miglior
modo questa fatica della vita. La quale
senza alcun fallo sarà breve. E quando la
morte verrà, allora non ci dorremo: e anche
in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni
ci conforteranno: e ci rallegrerà il
pensiero che, poi che saremo spenti, essi
molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno
ancora.»
Le illusioni
In effetti
il Leopardi amava la vita e questo suo
amore noi non dobbiamo mai trascurare di
considerare se veramente ci preme di
penetrare nella sua poesia e se vogliamo
spiegarci quei quadretti di vita così
luminosi e gioiosamente rivestiti dei più
splendidi colori a dispetto dell'amara
conclusione che la vita è male. Tutto questo
verificheremo a proposito dei “Canti”.
Per ora ci basti ricordare che anche il
Leopardi, come già il Foscolo, suggerisce di
crearsi delle “illusioni”, cari
compagni dell'esistenza, non tanto per dare
un senso e un valore alla vita, ma per
trarne conforto nell'affrontare i mali che
essa ci presenta. Purtroppo al Leopardi le
illusioni non furono di alcun sollievo
perché tutte le distrusse sotto i colpi
della fiera ragione, ma nondimeno nessun
altro poeta le dipinse così affascinanti e
lusingatrici come seppe dipingerle lui.
Il Leopardi fu un filosofo?
A questo
punto viene spontanea una domanda: il
Leopardi fu anche un filosofo? Egli stesso,
alludendo alle sue teorie sull'uomo, sulla
natura, sulla storia, definisce in più
occasioni il complesso delle sue idee un “sistema
di pensiero”, volendo con ciò
dire di sentirsi filosofo. D'altra parte la
sua consuetudine con i testi filosofici non
fu né sporadica né superficiale; e per
quanto egli affermi di aver tratto molti
insegnamenti soprattutto dalla filosofia
classica, è fuor di dubbio che conobbe assai
bene le opere del Montesquieu, del Voltaire,
del Rousseau e di tanti altri filosofi
francesi contemporanei, senza escludere i
tedeschi, per i quali è anzi da notare una
sorprendente analogia fra il pessimismo del
Leopardi e quello del coetaneo Schopenhauer
(1788-1860).
Non sono
mancati studiosi di valore che hanno
assecondato il desiderio del Leopardi di
volersi considerare anche un filosofo, come
per esempio l'Agnoli, quando afferma: “Certo
al Leopardi è mancata la severa
preparazione, l’ordinamento sistematico, il
rigore di metodo, il magnifico paludamento
dialettico che si ammirano nelle opere
filosofiche dei due scrittori tedeschi [Hartmann
e Schopenhauer], ma non crediamo per questo
che gli si possa negare la facoltà di
analisi; certo però questa si palesa intera
e sicura specialmente quand’egli applica
l'osservazione al mondo interiore. Nel
Leopardi lottarono due facoltà ugualmente
possenti: la ragione e il sentimento. Le sue
incertezze, le sue esitazioni sono d'origine
psicologica. Tanto è vero che, superato il
dissidio interno, vinto il sentimento dalla
ragione, la filosofia leopardiana corre
filata alle naturali sue conclusioni, e il
Leopardi si mostra un ragionatore diritto,
poderoso e indipendente, almeno nelle
conclusioni”.
Noi siamo
invece del parere che proprio la mancanza o
la fragilità di un “ordinamento
sistematico” e di un “rigore di
metodo”, lamentata dallo stesso Agnoli e
condivisa dai più, sia di per sé sufficiente
a negare al Leopardi il titolo di filosofo.
Per noi non è vero che nel Leopardi la
ragione e il sentimento furono “due
facoltà ugualmente possenti” e riteniamo
invece che il sentimento sovrastò
enormemente la ragione ed anzi fu la causa
primaria della fiacchezza di questa. E'
difficile non rilevare, anche nei dialoghi
delle “
Operette Morali”,
che il ragionamento seguito dall’Autore, per
quanto serrato e rigoroso, non poggi su
assiomi che abbiano dignità filosofica e si
risolva invece in una quasi lirica
rappresentazione del sentimento del dolore.
Il sentimento prevale sempre sulla ragione e
detta le conclusioni, come nel “Dialogo
di Plotino e di Porfirio” da noi già
citato. Ciò può dipendere o dalla
straordinaria potenza del sentimento o dalla
debolezza della ragione. Certo è che, se
pure questa avesse avuto la forza di
filosofare, il sentimento gliel'ha impedito.
E non è mai capitato l'inverso, che cioè
fosse la ragione a conculcare il sentimento,
com'è facilmente dimostrabile considerando i
“Canti” leopardiani, in cui lo sfogo
lirico prorompe sicuro, travolgendo
nettamente i tentativi della ragione di
incunearsi con le sue riflessioni.
Per noi il Leopardi fu
solamente un grande poeta. D’altronde la
consistenza del suo “sistema”, né
originale né profondo, farebbe di lui un
filosofo di ben modesta levatura e questa
figura mediocre contrasterebbe tristemente,
malinconicamente con l'immagine superba del
suo Genio.
La poetica
Occupiamoci
ora della “poetica” del Leopardi.
I primi
scritti teorici sulla poesia risalgono agli
anni 1816-18, all'epoca, cioè, in cui più
accesa era la polemica fra i neoclassici ed
i romantici. Si tratta di una “Lettera
ai sigg. Compilatori della Biblioteca
Italiana in risposta a quella di Mad. la
baronessa Di Stäel Holstein ai medesimi”,
che non fu mai pubblicata né dalla rivista
milanese, cui era stata indirizzata, né dal
Leopardi; e del poderoso “
Discorso di un
Italiano intorno alla poesia romantica”,
composto nel 1818 ed affidato all’editore
milanese Stella perché lo pubblicasse o
sulla rivista “Spettatore”
o in opuscolo a parte, ma che non fu mai
pubblicato vivente l’Autore. Entrambi gli
scritti furono pubblicati postumi nel 1906.
Più significative indicazioni sono però
contenute in varie pagine dello “Zibaldone”,
in cui la poetica del Leopardi si va sempre
più delineando in termini romantici, laddove
nei primi scritti appare dichiaratamente,
sia pure con qualche “distinguo”,
favorevole ai classicisti. D’altra parte
l’iniziale formazione letteraria del Poeta,
così profondamente legata agli studi di
filologia classica, non poteva sortire
effetti diversi.
Nella “Lettera”
il Leopardi si dichiara esplicitamente
d’accordo con la tesi del Giordani, secondo
la quale la perfezione raggiunta dagli
autori classici antichi nell’arte è da
considerare definitiva e incapace di
ulteriore progresso:
" Se
gli scienziati italiani s'istruiscono con
diligenza dello stato delle scienze loro
presso gli stranieri, questo è perché le
scienze possono fare e fanno progressi tutto
giorno, dove che la letteratura non può
farne, cosa che l’Italiano [il Giordani]
autore della lettera a voi indirizzata ha
dopo infiniti altri dimostrato egregiamente,
e a cui non so per qual ragione la illustre
Dama abbia fatto vista di non badare”.
Ma il Leopardi condivide l’accusa della De
Stäel, secondo cui gli Italiani, allo stato
presente, non sanno far altro che imitare
stupidamente gli antichi, anche se nega
risolutamente che il rimedio potrebbe
trovarsi nel conoscere meglio le lettere
europee moderne:
“Scintilla
celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare
un sommo poeta, non studio di autori e
disaminamento di gusti stranieri. O noi
sentiamo l'ardore di quella divina
scintilla, e la forza di quel vivissimo
impulso, o non lo sentiamo. Se sì, un
soverchio studio delle letterature straniere
non può servire ad altro che a impedirci di
pensare, e di creare di per noi stessi; se
no, tutti gli scrittori del mondo non ci
faranno poeti in dispetto della natura...
noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli
antichi... perché essi quando volevano
descrivere il cielo, il mare, le campagne,
si metteano ad osservarle, e noi pigliamo in
mano un poeta, e quando voleano ritrarre una
passione s'immaginavano di sentirla, e noi
ci facciamo a leggere una tragedia, e quando
volevano parlare dell’universo vi pensavano
sopra, e noi pensiamo sopra il modo in che
essi ne hanno parlato... Ebbene date
dunque agl'italiani altri modelli, fate che
leggano gli autori stranieri: questo è mezzo
certo per aver novità e cacciare in bando il
rancidume. Vanissimo consiglio! Apriamo
tutti i canali della letteratura straniera,
facciamo sgorgare ne' nostri campi tutte le
acque del settentrione, Italia in un baleno
ne sarà dilagata, tutti i poetuzzi Italiani
correranno in frotta a berne, e a
disguazzarvi, e se n'empieranno sino alla
gola... si aumenterà del doppio il
vocabolario delle nostre frasi e delle
nostre idee; e dopo dieci anni tutte le
frasi e tutte le idee aggiunte diverranno
viete e comuni; e noi torneremo là onde
eravamo partiti, o più veramente ci
inoltreremo buon tratto verso il pessimo”.
Il “Discorso
di un italiano intorno alla poesia
romantica”, che doveva
inizialmente essere una lettera aperta di
risposta alle argomentazioni del Cavaliere
Lodovico Di Breme sulla poesia moderna
pubblicate sullo “Spettatore italiano”
e che invece si ampliò in un’opera organica,
svolge una serrata critica ai risultati
ottenuti dai poeti romantici. Basta dare una
scorsa ai titoli di alcuni capitoli che
compongono il Discorso per rilevare la
durezza con cui il Leopardi tratta i poeti
romantici: “
L'ufficio del poeta è imitar la natura. I
romantici al contrario cantano
l'incivilimento"; "La corruzione dei gusti
fa sì che la poesia romantica diletti un
infinito numero di persone”;
“La seconda cagione di questo diletto è
la rozzezza di molti cuori e di molte
fantasie”; “La
terza cagione è la novità della poesia
romantica, laddove l'assuefazione ha
fiaccato il diletto della poesia classica”;
“I romantici cercano, per commuovere i
lettori, le più strane cose che si possano
immaginare e gli eccessi di qualsivoglia
genere; e ne fanno materia di poesia”; “La
psicologia, caos di sofisticherie e di
frenesie, è una delle principalissime
singolarità usate dai romantici”;
“I romantici, con la loro impudica
ostentazione della sensibilità, hanno fatta
la poesia di celeste e divina vergine
verissima baldracca”.
Nel “Discorso”
tuttavia sono già fissati alcuni concetti
fondamentali della originale poetica
leopardiana, che sostanzialmente si
avvicinerà sempre di più all’essenza della
poetica romantica. E' già chiaro, ad
esempio, l’orientamento a distinguere fra “poesia
di immaginazione” e “poesia di
sentimento” secondo come era stato
teorizzato dallo Schlegel, dalla Stäel e, in
Italia, dal Sismondi; c'è l’affermazione che
la vera poesia è quella di “immaginazione”,
tipica degli antichi, ingenua e istintiva, e
non già quella del “sentimento”,
propria delle età civili, dei moderni (“non
cercheremo la natura e le illusioni di un
tempo dove tutto è civiltà e ragione e
scienza, e dove è scemato e scema l'uso
dell'immaginazione”); c'è ancora
l'affermazione che la condizione psicologica
degli antichi è simile a quella dei
fanciulli dell’età civile (“quello
che furono gli antichi siamo stati noi
tutti, dico fanciulli e partecipi di quell'ignoranza
che infiamma la fantasia”)
e che pertanto agli uomini moderni non resta
che ispirarsi ai ricordi dell'infanzia se
vogliono fare una poesia che si avvicini,
per quanto possibile, a quella veramente
autentica degli antichi (“io senza
fallo... mi crederei divino poeta se quelle
immagini che vidi e quei moti che sentii
nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al
vivo nelle scritture e suscitarli tali e
quali in altrui”).
Successivamente il Leopardi tornerà spesso
su questi concetti e li approfondirà in
varie annotazioni dello “Zibaldone”,
come in questa (datata Recanati 14 dicembre
1928) in cui ricorre il tema della “rimembranza”:
“Un oggetto
qualunque, per esempio un luogo, un sito,
una campagna, per bella che sia, se non
desta alcuna rimembranza, non è poetica
punto a vederla. La medesima, ed anche un
sito, un oggetto qualunque, affatto
impoetico in sé, sarà poeticissimo a
rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e
principale nel sentimento poetico, non per
altro se non perché il presente, qual
ch'egli sia, non può essere poetico; e il
poetico, in uno o in altro modo, si trova
sempre consistere nel lontano,
nell'indefinito, nel vago”.
A questo
punto ci sembra opportuno tracciare una
sintesi, più o meno schematica, della
poetica del Leopardi, per scrupolo di
chiarezza.
Il
Leopardi distingue, dunque, la poesia in “poesia
d'immaginazione” e “poesia
di sentimento”: la prima nasce
dalle sensazioni primordiali dell’umanità ed
è espressa con immagini di pura fantasia;
la seconda nasce da stati d'animo più
complessi e sofisticati ed è espressa in
forme elaborate ed artificiose: la prima è
tipica delle età antiche, irrazionali, “ignoranti”;
la seconda delle età civili, in cui la
ragione ha prevalso sulla fantasia ed il
tragico vero ha inibito le illusioni.
Da ciò
discende che la vera poesia è ormai preclusa
all'uomo moderno, il quale, però, pur
dispone di una risorsa per far poesia
all’uso antico: egli può scavare nella
memoria le impressioni, le emozioni che la
natura suscitò in lui quand'era fanciullo, e
riviverle e rappresentarle con immediatezza
con il loro stesso linguaggio, cioè con un
linguaggio pressoché infantile, suggestivo
nella sua indeterminatezza, libero il più
possibile da ogni ingerenza culturale. Da
ciò discende ancora che l’unico “genere”
poetico che l’uomo moderno può e deve usare
è quello “lirico”, dato che quelli “epico”
e “drammatico” impegnano
eccessivamente la ragione e la cultura del
poeta.
Interessante
è, a questo riguardo, ricordare la teoria
leopardiana sulle lingue: le lingue nascono
tutte poetiche, cioè tali da rispondere alle
esigenze fantastiche degli uomini
primitivi; man mano che l’uso della ragione
ha consentito all’uomo di avviare il cammino
del cosiddetto progresso e lo ha reso sempre
più consapevole dei fenomeni naturali, le
lingue si son dovute adattare alle nuove
esigenze di natura scientifica e sono
perciò divenute sempre più razionali,
precise, oggettive, fredde, impoetiche. Le
lingue poetiche erano quelle degli antichi,
mentre le lingue moderne sono scientifiche e
razionali, inadatte alla poesia. Fra queste
ultime si salva in qualche modo quella
italiana, perché l’Italia è indietro agli
altri paesi europei in fatto di progresso
scientifico. Tuttavia, anche nell’uso della
lingua il poeta moderno ha qualche risorsa
da spendere e questa consiste nell’usare un
linguaggio fanciullesco, istintivo, che
adoperi i vocaboli non nel loro reale
significato, ma nel significato che
avevano nell’infanzia dell’autore, e adoperi
anche vocaboli arcaici, propri dell’età
fanciullesca della nazione, ormai in disuso
e perciò capaci di mille sensazioni, di
mille evocazioni, capaci di creare
un’atmosfera di lontananza ricca di mille
suggestioni.
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