Fra
le prime manifestazioni del carattere del
Leopardi, forse la più radicata nel suo
temperamento, risalta un certo sentimento di
superiorità che non riuscì mai a controllare,
neppure negli anni della piena maturità, e che
fu causa non secondaria della sua infelicità,
condizionando assai negativamente la sua vita di
relazione col prossimo. Fin da fanciullo, quando
organizzava giochi da svolgere con i fratelli e
per lo più impostati nella rappresentazione
scenica di avvenimenti storici antichi, egli non
solo riservava sempre a se stesso la parte
dell'eroe, ma si prodigava ad esasperare la
viltà o la imbecillaggine degli altri
personaggi impersonati dai fratelli. Egli
stesso, da adulto, ricordando quei giochi,
osservò in una nota dello Zibaldone: «Piacere,
entusiasmo ed emulazione mi cagionavano nella
prima gioventù i giochi e gli spassi ch'io
pigliava co' miei fratelli, dov'entrasse uso e
paragone di forze corporali. Quella specie di
piccola gloria ecclissava per qualche tempo a'
miei occhi quella di cui io andava continuamente
e sì cupidamente in cerca co' miei abituali
studi».
Uno smodato desiderio di gloria fu, dunque,
l'altra dominante caratteristica della
personalità del Leopardi, che non riuscì mai a
sottrarsi a quest'altro motivo di infelicità
pur riconoscendone la pericolosità, tanto da
definirlo, in una lettera al Giordani del 21
marzo 1817, “smodato ed insolente”.
Il sentimento di superiorità e il desiderio di
gloria furono le molle più evidenti e più
significative e determinanti di tutta la sua
attività intellettuale, rappresentarono la
forza vitale di tutta la sua intensa
laboriosità, impressero vigore alle sue
meditazioni. Lo resero però anche insofferente
della quotidiana consuetudine col genere umano,
gli fecero sentire il paese natio come un
carcere tetro ed insopportabile, gli mostrarono
inadeguata finanche la vita, pur varia e
dinamica, che si svolgeva a Roma: lo
condannarono, cioè, ad un sostanziale
isolamento, che fu una condizione spirituale
pressoché costante della sua esistenza, solo
superficialmente e temporaneamente modificata
dai rapporti col Ranieri e dalle conversazioni
che lo impegnarono alcun tempo, a Bologna nel
1826, con una nobile e colta signora fiorentina,
Rosa Carniani Malvezzi.
Sembra quasi che il Leopardi abbia speso ogni
cura possibile per inibire a se stesso ogni
gioia, ogni felicità. Infatti le
caratteristiche salienti della sua personalità
furono in gran parte volute, coltivate,
esasperate dal Poeta stesso nonostante la
consapevolezza che gli arrecassero fastidio e
dolore. Certo furono anche aggravate dalle
infermità fisiche, anch’esse per altro
prodotte da una condotta di vita antigienica
spontaneamente abbracciata (si ricordino i sette
anni di “studio matto e disperatissimo”), ma
mai il Poeta tentò con un atto di volontà non
dico di reprimerle, ma almeno di contenerle
entro limiti più sopportabili.
L’incapacità di comunicare col prossimo più
immediato -voglio dire l’incapacità che ebbe
di avere conversazioni di tono corrente con gli
uomini comuni, che pure rappresentano una
notevole fonte di scambio di esperienze e di
reciproco conforto, e non già l'incapacità a
discorrere delle cose degli uomini con gli
uomini nel profondo della sua solitudine e
dall'alto della sua arte -, se determinò la sua
tendenza ad isolarsi, gli procurò pure
l'ostilità degli altri che mal sopportavano il
compiaciuto senso di superiorità che egli
mostrava nei loro confronti. Sicché appare
naturale che la sua vita si improntasse quanto
meno ad uno stato permanente di insofferenza in
cui fosse frequente l'insorgere di quella
“ostinata, nera, orrenda, barbara
malinconia” di cui parla nella lettera al
Giordani del 30 aprile 1817.
Questo fu lo stato psicologico in cui si svolse
tutta la “storia della sua anima”, che ebbe
sostanzialmente un solo protagonista, il Poeta
stesso, e qualche “comparsa” in quei
pochissimi amici che reputava degni delle sue
confidenze e confessioni, come quel Giordani al
quale sentiva di poter partecipare le avventure
più esemplari della mente e del cuore, o il
fratello Carlo col quale si sfogava per ottenere
un minimo di conforto alle sue pene. Il grosso
dell’umanità sembra tagliato fuori dalla sua
“storia” e sono in molti a ritenere che il
Leopardi si sia finalmente affacciato alla
finestra che dà sul mondo ed abbia finalmente
considerato anche la vicenda degli “altri”
solo in uno dei suoi ultimi canti, “La
ginestra”. Ma il cuore non ci dice di
sottoscrivere una tale affermazione. E' vero che
il Leopardi nutrì sempre una certa avversione a
discorrere con gli uomini comuni; è vero che in
più occasioni espresse giudizi molto severi sul
comportamento loro (“Dico che il mondo è una
lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di
vili contro i generosi”, ove è chiaro che
“il mondo” sta per la quasi totalità degli
uomini contro i pochi dabbene e generosi, i
quali per di più sono anche odiatissimi perché
“ordinariamente sono sinceri, e chiamano le
cose coi nomi loro. Colpa non perdonata dal
genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa
male, né il male stesso, quanto chi lo
nomina.”); è vero che, sempre considerando
gli uomini, definì Recanati un “borgo
selvaggio”, Napoli un “paese semibarbaro e
semiafricano” e dei Romani disse che “il
più stolido Recanatese avesse una maggior dose
di buonsenso che il più savio e più grave
Romano”: con tutto ciò come si può dire che
avesse in odio o, quanto meno, in dispetto il
genere umano un poeta che soffrì tanto per
l’infelicità degli uomini, un poeta che amò
tanto le cose belle della vita e che in più
luoghi compianse se stesso e tutto il genere
umano per non avere la disposizione a godere di
quelle cose belle, un poeta che, come scrisse il
De Sanctis, «non crede al progresso, e te lo fa
desiderare; non crede alla libertà, e te la fa
amare; chiama illusioni l'amore, la gloria, la
virtù, e te ne accende in petto un desiderio
inesausto»? Come si può dire che non ami
l'umanità chi nell'umanità sa accendere tante
scintille di nobili speranze nonostante si senta
personalmente del tutto escluso da siffatte
speranze?.
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