«Questo è il
sentimento che riempie di sé tutta l'opera
leopardiana: la desolata nostalgia d'una felicità
sconosciuta ed assurda, la disperata aspirazione
verso un mondo migliore. Nelle più riuscite fra le
"Operette", come nei "Canti", la poesia non nasce
dalla brutta realtà ma dal vano bisogno di
superarla... Così nelle "Operette" come nei "Canti"
questa realtà grigia si disegna sul fondo luminoso
di un ideale: e l'impressione dominante è quella di
una delusione non rassegnata».
Queste parole di
Attilio Momigliano bastano da sole a definire il
mondo poetico del Leopardi; e di una definizione
sintetica il giovane lettore aveva certamente
bisogno dopo la lunga attenzione dedicata ai “Canti”.
Ma queste parole
valgono anche come magistrale premessa allo studio
delle “Operette Morali” perché ci danno
subito una indicazione preziosa: che le “Operette”
sono certamente opere di poesia a dispetto dello
stesso Autore che voleva forse farne opera di
filosofia e che anche per questo aveva adottato la
prosa. Anche per questo, ma la ragione più profonda,
quella che si impone da sé all’artista, certamente
derivò dalla condizione particolare in cui venne a
trovarsi l’animo del Poeta, costretto nuovamente,
dopo la squallida parentesi romana, a rinchiudersi
in Recanati senza alcuna prospettiva per un futuro
migliore (resterà nel “borgo selvaggio” dal
1822 al 1825, fino a quando, cioè, ebbe l’invito di
recarsi a Milano dall’editore Stella; la maggior
parte delle “Operette” risalgono al 1824).
Nelle “Operette
Morali” il Leopardi ci vuol dare “la
descrizione concreta della vita e la dimostrazione
che essa è ignobile e misera” (Momigliano) e a
questo scopo non serve il ritmo del verso,
l’immagine icastica che sorge per incanto da un
sostantivo, da un aggettivo, e che invita la
fantasia a prodursi in un volo acrobatico nella
stratosfera del sentimento: serve invece il tono
dimesso, che più agevolmente scivola nei meandri
della coscienza, il sottile linguaggio del
persuasore che deve inculcare una amara verità.
Eppure anche nella prosa delle “Operette” il
Leopardi è soltanto poeta: «Sembra prosa
riflessiva - osserva il Momigliano -,
ragionativa, ma in fondo non è. Si paragoni, per
esempio, con quella del “Principe”; e si vedrà che
qui si può sempre isolare il periodo o il breve
tratto che, anche in sé, ha il suo significato e il
suo rilievo, perché la sua forza deriva dal
pensiero, da una riflessione morale o psicologica:
nelle “Operette” questo non succede, perché il
motivo è diffuso, è uno stato d’animo assai più che
una osservazione o una constatazione: e anche le
“Operette”, come i “Canti”, sono, nella loro viva
essenza, un’autobiografia sentimentale». Insomma
il Leopardi prosatore non cessa di essere poeta; e
se si risolve a scrivere in prosa è perché egli in
questi anni, “ripiegandosi su se medesimo -
come nota il Fubini - trova purificati e chiariti
i motivi originari del suo pessimismo, formulati in
alcuni concetti tra logici e fantastici a cui egli
si può rivolgere con un moto di affetto, di amore e
di odio”: non per nulla le pagine più vive e
palpitanti sono quelle in cui riaffiorano le
rimembranze degli ameni inganni, si riaccendono lumi
di speranza nonostante la piena consapevolezza che
la vita è male.
Le
“Operette Morali” composte dal Leopardi
furono 26. Due, però, il Poeta stesso le ripudiò
successivamente, sicché l’edizione definitiva curata
da lui stesso tra il 1834 ed il 1835 ne comprende
24. Di queste, 19 furono scritte nel 1824, una nel
1825, due nel 1827 e due nel 1832. Le “Operette”
non vanno intese singolarmente, come opere a se
stanti, ma nel loro insieme, perché tutte
rappresentano un'opera d’arte sostanzialmente
unitaria per tono ed ispirazione. Questo anche se
alcune sono in forma di dialogo (ad imitazione dei
dialoghi ironici dello scrittore greco Luciano di
Samosata, 121-180 d.C.) ed altre in prosa
continuata.
Vari documenti
danno la certezza che il Leopardi meditasse da
tempo sul progetto di queste “Operette”: nel
1818 scrisse che aveva in animo di dare all'Italia
un nuovo tipo di prosa in cui “la lingua e lo
stile essendo classico e antico paresse moderno e
fosse facile ed intendere e dilettevole così al
volgo come ai letterati”; nel 1819 affermò di
volere scrivere alcuni “dialoghi satirici alla
maniera di Luciano... tra personaggi che si fingono
vivi, ed anche volendo, fra animali”; nel 1821
annunciava: «Io cercherò di portare la commedia a
quello che finora è stato proprio della tragedia,
cioè i vizi dei grandi, i princìpi fondamentali
della calamità e miseria umana, gli assurdi della
politica, le sconvenienze appartenenti alla morale
universale e alla filosofia, l’andamento e lo
spirito generale del secolo, la somma delle cose,
della società, delle civiltà presente» (da qui
forse derivò l’idea di definire “morali” le
sue future operette); e sempre nel 1821, quasi a
voler giustificare per tempo quella che sarebbe
stata una tendenza abbastanza diffusa nella sua
opera di prosatore, e cioè la rievocazione di “favole
antiche”, scrisse: «Io non voglio credere
alle allegorie né cercarle nella mitologia o
invenzioni dei poeti o credenze del volgo. Tuttavia
la favola di Psiche, cioè dell’anima, che era
felicissima senza conoscere e accontentandosi di
godere, e la cui infelicità provenne dal voler
conoscere, mi pare un emblema così conveniente e
preciso, e nel tempo stesso così profondo della
natura dell’uomo e delle cose, della nostra
destinazione vera su questa terra, del danno del
sapere, della felicità che si conveniva, che unendo
questa considerazione col manifesto significato del
nome Psiche appena posso discredere che quella
favola non sia un parto della più profonda sapienza
e cognizione della natura dell’uomo e di questo
mondo»; e, ancora più esplicitamente, qualche
mese dopo: «Uno dei principali dogmi del
cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno
stato primitivo più perfetto e felice... Il
principale insegnamento del mio sistema è appunto la
detta degenerazione. Tutte, pertanto, le infinite
osservazioni e prove generali o particolari ch’io
adduco per dimostrare come l’uomo fosse fatto
primieramente alla felicità, come il suo stato
perfettamente naturale, che non si trova mai nel
fatto, fosse per lui il solo perfetto, come quanto
più ci allontaniamo dalla natura tanto più diveniamo
infelici... ».
Se però il
Leopardi meditava da tempo la composizione delle “Operette”,
bisogna riconoscere che a queste pose mano quando il
suo “istinto” poetico glielo impose. Ed anche
se parla di sistema ed afferma di voler dimostrare
con osservazioni e prove generali la degenerazione
della condizione umana, in effetti anche in queste
prose dà corpo alla propria immaginazione ed esprime
i propri sentimenti: non è cosa assai ardua “rendersi
conto della sostanziale unità - come sostiene il
Ferretti - che accomuna l’opera poetica e quella
in prosa del Leopardi, poeta in quanto filosofo e
filosofo in quanto poeta, più conscio forse d’esser
filosofo, cioè di aver offerto ai suoi lettori la
documentazione di un pensiero originale e coerente,
che d’esser poeta: ma, per noi, essenzialmente poeta
non meno nella limpida prosa che nei versi
concettosi, perché non meno in quella che in questi
muove l’immaginazione, cioè fa rivivere in noi il
suo mondo interiore”.
La prima delle “Operette
Morali” è la “Storia
del genere umano” in cui il Leopardi
accoglie, trasformandola, la materia di un mito
pagano già cantato da Esiodo e da Ovidio. La storia
dell'uomo si divide in quattro epoche: nella prima
l'umanità viveva in uno stato quasi felice,
allietato da vaghe speranze che però non venivano
mai ad effetto. Non paghi di questa condizione che,
pur essendo quasi beata, non mostrava di poter
accrescere il bene, gli uomini si lamentarono e
Giove per accontentarli mandò sulla terra sogni e
illusioni. Ebbe così inizio la seconda età in cui
gli uomini, eccessivamente impegnati nella
impossibile realizzazione dei sogni e delle
illusioni, scivolarono nella corruzione e furono da
Giove puniti col diluvio che li annientò. Si
salvarono Deucalione e Pirra cui gli dei assegnarono
il compito di ripopolare la terra. Ebbe così inizio
la terza età, nella quale Giove
«...fatto accorto, per le cose passate, della
propria natura degli uomini, e che non può loro
bastare, come agli altri animali, vivere ed essere
liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi,
che bramando sempre e in qualunque stato
l'impossibile, tanto più si travagliano con questo
desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti
dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a
conservare questo misero genere: le quali furono
principalmente due. L'una mescere la loro vita di
mali veri; l'altra implicarla in mille negozi e
fatiche, ad effetto di intrattenere gli uomini, e
divertirli [= distrarli] quanto più si potesse dal
conversare col proprio animo, o almeno col desiderio
di quella loro incognita e vana felicità.
Quindi primieramente diffuse tra loro una varia
moltitudine di morbi e un infinito genere di altre
sventure; parte volendo, col variare le condizioni e
le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà
e crescere colla opposizione dei mali il pregio de'
beni; parte acciocché il difetto dei godimenti
riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori,
molto più comportabile che non aveva fatto per lo
passato; e parte eziandio con intendimento di
rompere e mansuefare la ferocia degli uomini,
ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla
necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare
della propria sorte, e rintuzzare negli animi
affievoliti non meno dalle infermità del corpo che
dai travagli propri, l'acume e le veemenza del
desiderio...
E per escludere la passata oziosità, indusse nel
genere umano il bisogno e l'appetito di nuovi cibi e
di nuove bevande, le quali cose non senza molta e
grave fatica si potessero provvedere, laddove insino
al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole
acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta
che la terra e gli arbori somministravano loro
spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a
procacciare, siccome usano di sostentarsi anche
oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli della
California... Esso medesimo diede leggi, stati e
ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo
con un incomparabile dono beneficiarle, mandò tra
loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e
soprumane, ai quali permise in grandissima parte il
governo e la potestà di esse genti: e furono
chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con
altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu
medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo
primieramente, siccome anco gli altri, venne in
terra: perciocché innanzi all'uso dei vestimenti,
non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile
negli uomini di allora da quello che fu di ogni
tempo nei bruti, spingeva l'un sesso verso l'altro,
nella guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili
oggetti, i quali non si amano veramente, ma si
appetiscono.»
In
questa terza età gli uomini condussero una vita
abbastanza tollerabile, ma poi si stancarono anche
di essa e cominciarono a pretendere di conoscere la
verità. Giove, seccato di questa eterna
incontentabilità degli uomini, mandò in terra la
Verità e rimosse tutti gli altri antichi fantasmi,
ad eccezione dell'Amore: sorse così la quarta ed
ultima età dell'uomo, quella della infelicità.
La seconda delle
“Operette” è in forma di dialogo e si
intitola appunto “Dialogo
d’Ercole e di Atlante”. Anche qui la
materia è tratta da una favola mitologica: Ercole,
per volere di Giove, si reca da Atlante per aiutarlo
a sostenere la sfera terrestre. Questa però non ha
più quasi alcun peso e sembra morta o addormentata.
Per scuoterla in qualche modo decidono di giocare “a
palla”, ma la sfera cade loro di mano e dopo un
botto sembra per davvero morta. I due si spaventano:
Atlante si affretta a riporsi il carico sulle spalle
mentre Ercole corre dritto da Giove a scusarsi del
fallo. Inutile dire che l’intenzione del Poeta è di
deridere, mettendola addirittura in ridicolo, la
sonnacchiosa società contemporanea, ma non certo con
la volontà di scherzare su un argomento che invece
sentiva molto seriamente e dolorosamente: in effetti
egli in questa operetta porta ad effetto quanto
affermato qualche anno prima in una nota dello “Zibaldone”:
«A volere che il
ridicolo primieramente giovi, secondariamente
piaccia vivamente e durevolmente, cioè la sua
continuazione non annoi, deve cadere sopra qualche
cosa di serio e d’importante. Se il ridicolo cade
sopra bagatelle e sopra, dirò quasi, lo stesso
ridicolo, oltre che nulla giovi, poco diletta e
presto annoia. Quanto più la natura del ridicolo è
seria, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche
per il contrasto... ».
Forse è bene anche
per questa operetta riportarne uno squarcio, in modo
da dare un esempio di dialogo leopardiano:
«Ercole:
Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi
accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata
a uso delle pagnotte, e non più tonda, come era al
tempo che io studiai la cosmografia per fare quella
grandissima navigazione cogli Argonauti: ma tutto
questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.
Atlante:
Della causa non so. Ma della leggerezza ch'io
dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che
tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e
provare il peso.
Ercole:
In fe d'Ercole, se io non avessi provato, io non
poteva mai credere. Ma che è quest'altra novità che
vi scuopro? L'altra volta che io la portai, mi
batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli
animali; e metteva un certo rombo continuo, che
pareva un vespaio. Ma ora quando al battere, si
rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e
quanto al ronzare, io non vi odo un zitto [= un
benché minimo rumore].
Atlante:
Anche di questo non ti so dire altro, se non
ch'egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare
ogni moto e ogni rumore sensibile; e io per me
stetti con grandissimo sospetto che fosse morto,
aspettandomi di giorno in giorno che m'infettasse
col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi
seppellire, e l'epitaffio che gli dovessi porre...
Ercole:
Io piuttosto credo che dorma... io voglio che noi
proviamo qualche modo di risvegliarlo.
Atlante:
Bene, ma che modo?
Ercole:
Io gli farei toccare una buona picchiata di questa
clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e
che io non ne facessi una cialda [= sfoglia di
pasta]; o che la crosta, atteso che riesce così
leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli
mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche
non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio
combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso
colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti
in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la clava e
tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con
questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i
bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed
io per giocare in casa di Giove o nell'orto: ma le
pugna basteranno.»
Durante il gioco la sferuzza cade, ma nessun uomo
sembra svegliarsi al gran colpo. Ciò è di pretesto
ad Ercole per una sagace battuta:
«Ercole: E' molti secoli che sta in casa di
mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci
come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era
stato deificato da Giove per considerazioni che si
dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo
poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra
l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove
se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli
uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e
niuno s'è mosso.
Atlante:
Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non
istare a perder più tempo, e corri su presto a
scolparmi con tuo padre, che io m'aspetto di momento
in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in
Etna.»
Nel “Dialogo
della Moda e della Morte” il Leopardi
ironizza sulla vanità della prima e la definisce
sorella della Morte perché entrambe sono nate dalla
Caducità: dice la Moda: «...l'una e l'altra
tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo
le cose di quaggiù, benché tu vada a questo effetto
per una strada e io per un'altra».
Segue la “Proposta
di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi”
[=poeti burleschi], in cui, come nella “Palinodia
al marchese Gino Capponi”, si afferma che le
nuove scoperte ed invenzioni scientifiche possono
accrescere il benessere materiale, ma non liberare
l’umanità dai vizi, che sono la fonte maggiore
dell’infelicità degli uomini.
Nel “Dialogo
di un Folletto e di uno Gnomo” (il primo
appartiene alla categoria degli spiriti, di
invenzione medievale, che vagavano nell’aria a
molestare gli uomini; il secondo alla categoria
degli spiriti che custodivano i tesori nascosti
nella terra) si canzona la pretesa dei filosofi
che affermano che l’universo sia stato creato per
gli uomini: i due protagonisti del dialogo si
incontrano dopo la scomparsa dell’uomo dalla terra
e ridono sulla vanità degli uomini, ma poi
incominciano a discutere se il mondo sia stato
creato per i folletti o per gli gnomi. Più saggi
degli uomini, però, alla fine concludono che non
vale la pena discutere su tale argomento perché
forse anche le lucertole ed i moscerini staranno
rivendicando ognuno per la sua specie il privilegio
di avere il mondo in funzione di loro.
Nel “Dialogo
di Malambruno e di Farfarello” il mago
Malambruno evoca il diavolo Farfarello per ottenere
da lui almeno un attimo di felicità, ma lo spirito
infernale gli dice che nemmeno Belzebù potrebbe
concedergli tanto, dato che questo andrebbe contro
l'ordine della natura.
Nel
“Dialogo della Natura e di
un'Anima” l’Anima chiede alla Natura un
po’ di felicità, ma questa risponde che al più può
concederle un po’ di gloria, visto che tutti la
considerano un gran bene, anche se per l’invidia che
produce è piuttosto motivo di dolore che di gioia.
L’Anima allora prega la Natura di riprendersi pure
tutte le nobili doti che le ha dato e di ricacciarla
pure nel più ignobile degli animali, purché la
faccia morire presto.
Nelle operette
successive continua la polemica contro la nuova
filosofia e la nuova scienza e contro il progresso
in generale: “Dialogo della
Terra e della Luna”, “La
scommessa di Prometeo”, “Dialogo
di un Fisico e di un Metafisico” (nel
quale il Fisico si vanta di aver trovato il modo per
prolungare la vita dell’uomo e il Metafisico lo
accusa di aver danneggiato l’uomo in quanto questi
apprezza la vita solo se è fonte di felicità e
quindi il Fisico meglio avrebbe fatto a scoprire il
modo di rendere felice l’esistenza umana, magari
abbreviandola), “Dialogo di
Torquato Tasso e del suo Genio familiare”
(nel quale si espone la tesi che la vita umana è
fatta di dolore e noia e di niente altro). Questo
gruppo di operette si conclude col “Dialogo
della Natura e di un Islandese” nel quale
si attribuisce alla Natura la responsabilità
dell’infelicità umana, ma questa si difende dicendo
che essa si limita a compiere il “perpetuo
circuito di produzione e distruzione” senza
minimamente porsi il problema della felicità o
infelicità degli uomini.
Segue una lunghissima operetta,
“Il Parini ovvero della
gloria”, divisa in dodici capitoli.
Rifacendosi con molta probabilità alla terza e
quarta lezione di eloquenza tenute dal Foscolo a
Pavia, il Leopardi afferma che la gloria può essere
conseguita più con le azioni che con le lettere, che
è comunque difficile da raggiungere e dà certamente
più pene che gioie. Però, mentre il Foscolo riteneva
che, passata la stagione dell’attuale barbarie, i
posteri avrebbero riconosciuto il valore dei poeti,
il Leopardi, più pessimisticamente, ritiene che i
posteri non saranno punto migliori della società
presente e che pertanto ingegno e immaginazione sono
beni superflui e dannosi.
Nel “Dialogo
di Federico Ruysch e delle sue mummie”
il Leopardi immagina che il grande anatomista
olandese (1638-1731), svegliato in piena notte dal
canto delle mummie, atterrito dal sospetto che
queste siano resuscitate, intraprende con esse una
discussione circa le sensazioni che si provano nel
momento del passaggio dalla vita alla morte.
Le mummie
affermano che tale passaggio non è affatto doloroso,
anzi è piacevole perché annienta i sensi
gradualmente, fino a spegnerli del tutto, come fa il
sonno che ci vince poco a poco, dandoci una benefica
sensazione di rilassamento. In questa operetta sono
evidenti le influenze di Epicuro, Lucrezio e
Cicerone (per citare solo gli antichi).
C’è poi un’altra
lunga operetta, in sette capitoli, “Detti
memorabili di Filippo Ottonieri”, in cui
il Leopardi, imitando la foscoliana “Notizia
intorno a Didimo Chierico”, ci offre una breve
ideale autobiografia ed un insieme di precetti di
filosofia pratica che riguardano i temi del dolore e
del piacere, dei vizi e delle virtù, sulla
giustizia, sulla falsa austerità e concretezza degli
uomini maturi e sull’imprudenza dei giovani, ecc.
Nel primo capitolo, in cui dà notizie biografiche
sull’Ottonieri (cioè su se stesso), è assai evidente
l’imitazione del Foscolo:
«Filippo Ottonieri,
del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti
notabili, che parte ho uditi dalla sua propria
bocca, parte narrata da altri; nacque e visse il più
del tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdiveneto
[entrambi sono nomi fantastici]; dove anche morì
poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che
fosse ingiuriato da lui, né con fatti né con
parole...
Nella vita,
quantunque temperatissimo, si professava epicureo,
forse per ischerzo più che da senno. Ma condannava
Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di
colui, molto maggiore diletto si poteva trarre dagli
studi della virtù e della gloria, che dall'ozio,
dalla negligenza, e dall'uso delle voluttà del
corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo
bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina
epicurea, proporzionatissima all'età moderna, fu del
tutto aliena dall'antica.
Nella filosofia
godeva di chiamarsi socratico: e spesso, come
Socrate, s'intratteneva una buona parte del giorno
ragionando filosoficamente ora con uno ora con
altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra
qualunque materia gli era somministrata
dall'occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le
botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli, de' fabbri e
degli altri simili; perché stimava che se i fabbri e
i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere in
filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto
altrettanto, sarebbero morti di fame...
Non lasciò scritta
cosa alcuna di filosofia, né d'altro che non
appartenesse ad uso privato. E dimandandolo alcuni
perché non prendesse a filosofare anche in iscritto,
come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi
pensieri nelle carte, rispose: il leggere è un
conversare che si fa con chi scrisse. Ora, come
nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che non
sono o non credono di essere parte dello spettacolo,
prestissimo si annoiano; così nella conversazione è
più grato generalmente il parlare che l'ascoltare.
Ma i libri per necessità sono come quelle persone
che, stando cogli altri, parlano sempre esse, e non
ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro
dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene;
acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar
sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio
qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.»
E come il Chierico
foscoliano, anche l’Ottonieri provvide a scrivere il
proprio epitaffio:
«Vicino a morte, compose
esso medesimo questa inscrizione, che poi gli fu
scolpita sopra la sepoltura:
OSSA
DI FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
NE' DELLA FORTUNA
SUA» |
Il “Dialogo
di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez”
anticipa la tematica, poi svolta nella canzone “Al
conte Carlo Pepoli” e nell’idillio “La quiete
dopo la tempesta”, che la vita non è altro che
dolore e noia e che quel tanto di piacere che tocca
ai mortali deriva o dallo scampato pericolo o dalla
pausa breve che intercorre fra un dolore e l'altro.
Nell’ “Elogio
degli uccelli” il Leopardi, per bocca del
filosofo Amelio (III sec. d.C.), dice che gli
uccelli sono le uniche creature a mostrare di
prendere diletto dalla vita: «Sono gli uccelli
naturalmente le più belle creature del mondo... Si
veggono gli altri animali comunemente seri e
gravi; e molti di loro anche paiono malinconici:
rade volte fanno segni di gioia, e questi piccoli e
brevi;... Gli uccelli per lo più si dimostrano nei
moti e nell'aspetto lietissimi: e non da altro
procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla
vista, se non che le loro forme e i loro atti,
universalmente, sono tali, che per natura dinotano
abilità e disposizione speciale a provare godimento
e gioia».
Nel
“Cantico del Gallo Silvestre”
l’Autore fa ricorso questa volta ad un’immagine
biblica, a quella di “un certo gallo selvatico, il
quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla
cresta e col becco il cielo”: questo gallo di buon’ora
chiama al risveglio gli uomini perché tornino al
consueto dolore, dato che è questo il loro destino
ed il sonno è concesso dalla Natura solo perché
altrimenti sarebbe impossibile vivere in uno stato
permanente di sofferenza.
A
questo punto il Leopardi inserì un’operetta scritta
nel 1825, “Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco”, in cui
tratta della origine del mondo, della sua esistenza
e della sua certa distruzione: è esperienza comune
che le cose del mondo, singolarmente considerate,
periscono tutte. Esse, quindi, debbono avere un
principio. Ma la materia di cui sono composte non
perisce mai: deve quindi ritenersi che non abbia un
principio e sia perciò eterna. Questa incessante
trasformazione della materia è però assai lenta,
sicché noi ci accorgiamo della scomposizione dei
singoli individui, ma non percepiamo la dissoluzione
dei generi e delle specie. Da qui la nostra falsa
convinzione che il mondo sia eterno. Ma non è così,
perché anch'esso, nella sua totalità, prima o poi si
dissolverà, dando origine ad un nuovo caos. Ma
poiché nessuna particella della materia può perire,
dal caos nasceranno nuove relazioni fra le
innumerevoli particelle che costituiscono la materia
e quindi un nuovo mondo: «Venuti meno i pianeti,
la terra, il sole e le stelle, ma non la materia
loro, si formeranno di questa nuove creature,
distinte in nuovi generi e nuove specie, e
nasceranno per le forze eterne della materia nuovi
ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità
di questo e di quelli, siccome eziandio
degl’innumerabili che già furono, e degli altri
infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur
solamente congetturare». E' chiaro che in questa
operetta il Leopardi faccia propria la dottrina dei
materialisti e che, ravvisando la rovina del mondo
sulla scorta delle ipotesi del Newton e del Laplace,
attribuisca tale rovina solo ad una forza intrinseca
nella materia stessa, con l’esclusione di ogni
intervento di una “mente superiore”.
Segue l’ultima delle operette
scritte nel 1824, il “Dialogo
di Timandro e di Eleandro”. I due
protagonisti (i cui nomi, secondo un’etimologia
greca, significano rispettivamente, “colui che
onora il genere umano” e “colui che ha
compassione del genere umano”) hanno uno scontro
verbale tra di loro perché Timandro accusa Eleandro
(che rappresenta il Leopardi stesso) di prendersi
gioco degli uomini, pur non facendo mai loro male
materialmente. Eleandro ribadisce che, consistendo
la vita in uno stato permanente di infelicità, è
necessario che l’uomo si convinca ad accettare tale
suo destino senza ricorrere goffamente ed
assurdamente a teorie filosofico-religiose che
vogliono illuderlo del contrario o ingannarlo con
false promesse di felicità futura: meglio è
accettare virilmente la propria condizione e ridere
dei mali comuni, anziché disperarsi.
Seguono le due operette composte nel 1827, “Il
Copernico” e “Dialogo
di Plotino e di Porfirio”. Di quest’ultima,
che tratta il tema del suicidio, abbiamo già
parlato. L’altra è in forma drammatica ed è divisa
in quattro scene. Nella prima il Sole annuncia alla
Prima Ora che vuole riposare perché è stanco di
illuminare la terra: se vuole riscaldarsi, faccia
essa il cammino intorno al sole; e se gli uomini
sono riluttanti a ciò, dia l’incarico ad un filosofo
di convincerli. Nella seconda scena Copernico (il
grande astronomo prussiano, 1473-1543, che compì i
suoi studi a Bologna), stupito che il Sole tarda a
sorgere, si affaccia “in sul terrazzo di casa
sua, guardando in cielo a levante, per mezzo d’un
cannoncello di carta; perché non erano ancora
inventati i cannocchiali”. Tutta la scena è
occupata da un suo soliloquio. Nella terza scena
Copernico ha un colloquio con l’Ora Ultima e si
lascia convincere a seguirla nella casa del Sole per
tentare di persuaderlo a desistere dal suo
proposito. Nell’ultima scena si svolge il dialogo
fra Copernico ed il Sole. Copernico dice che non è
facile convincere la Terra ad abdicare al suo ruolo
di regina dell’universo ed a mettersi a roteare
intorno al sole; che se anche accettasse di farlo,
gli altri pianeti pretenderebbero la parità con essa
e vorrebbero fiumi, piante, abitatori, ecc., senza
dire che poi le altre stelle potrebbero avanzare la
pretesa di stare ferme ed essere attorniate pure
loro da vari pianeti: insomma si sconvolgerebbe
l’ordine attuale dell’universo ed il Sole cesserebbe
di essere il secondo nell’universo, dopo la Terra.
Il Sole risponde che preferisce essere il primo nel
suo sistema anziché il secondo nell’universo, e che
comunque non ne fa una questione di dignità, quanto
piuttosto una questione di tranquillità. A Copernico
non resta che accettare di convincere gli uomini
alla nuova disciplina, ma confessa di temere il
rogo. Il Sole però gli consiglia come fare per
salvare la pelle:
«Copernico: Che io non vorrei, per questo
fatto, essere abbruciato vivo, a uso della fenice:
perché, accadendo questo, io sono sicuro di non
avere a risuscitare dalle mie ceneri, come fa quell'uccello,
e di non vedere mai più, da quell'ora innanzi, la
faccia della signoria vostra.
Sole:
Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando voi
altri filosofi non eravate appena nati, dico al
tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato
profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per
l'ultima volta, e che per la memoria di quella mia
virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque
che forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno
quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi
qualche scottatura, o altra cosa simile: ma che tu
per conto di quest'impresa, a quel ch'io posso
conoscere, non patirai nulla. Se tu vuoi essere più
sicuro, prendi questo partito: il libro che tu
scriverai a questo proposito, dedicarlo al papa. In
questo modo, ti prometto che né anche hai da perdere
il canonicato.»
Ancora
una volta il Leopardi fustiga l’orgoglio degli
uomini e la presunzione dei filosofi, con una ironia
così sottile e con una grazia discorsiva così
elegante, che non ti stancheresti mai di leggere
queste pagine.
Concludono
le “Operette Morali” due dialoghi, veri
gioielli d'arte, entrambi scritti nel 1832. Nel
primo, il famosissimo “Dialogo
di un venditore d'almanacchi e di un passeggere”,
con poche argute battute, il Poeta afferma che la
vita che piace non è quella trascorsa, ma quella
avvenire, quella cioè che si ignora: il che equivale
ad affermare che la felicità non esiste in atto, ma
solo nella speranza; nel secondo, “Dialogo
di Tristano e di un amico”, il Leopardi,
nelle vesti di Tristano, finge prima di ricredersi
di tutte le sue pessimistiche passate opinioni circa
il destino dell’uomo, ma poi fa sul serio, tanto
serio che il De Sanctis disse che il tono qui
raggiunto era quello solenne di un testamento, e
riafferma per l’ultima volta che la vita è male e
solo la morte può salvarci: egli non invidia quelli
che avranno lunga vita né i posteri, ma gli uomini
passati, che sono già morti.
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