1
- Introduzione – Leopardi: filosofo o poeta o
entrambi?
Che Leopardi sia poeta nessuno
l’ha messo in discussione. Che sia anche
filosofo, invece, è stato oggetto di acceso
dibattito. Alla base c’è il fatto che egli ha
scritto di filosofia e, per così dire, da
filosofo: sullo Zibaldone
troviamo tanti e tali pensieri sull’anima, la
metafisica, la religione, la società, la
natura, la morale, e via dicendo, che l’opera,
ancorché disorganica e non sistematica, ben
potrebbe configurarsi come trattato filosofico.
Né si può dire che manchi a Leopardi lo stile
filosofico, perché alcune sue pagine, specie
quelle relative alla teoria del piacere, sono di
tale rigore e oggettività che sembrano stilate
dalla penna di un Locke o di un suo seguace.
Ma non tutti i critici sono d’accordo su
questo punto. Il vecchio filone della cultura
laicista italiana, da De
Sanctis a Croce, nega la filosofia di L.,
ritenendola scarsamente significativa, non
originale né profonda.
Per Francesco De Sanctis (cfr. Schopenhauer e
Leopardi), interessato all’uomo e
all’artista, essa esprime un superficiale
pessimismo, contraddetto dalla poesia, l’unica
sua produzione genuina e profonda; il L.
filosofo, che odia la vita, con la sua poesia ce
la fa amare: "La
vita rimane intatta quando ci sia la forza
d’immaginare, di sentire e di amare: che è
appunto il vivere. Dice l’intelletto:
l’amore è illusione, sola verità è la
morte. E io amo e vivo e voglio vivere. Il cuore
rifà la vita che l’intelletto distrugge".
Vera poesia è l’idillio, che è mera
espressione del sentimento; l’elemento
raziocinante è un ostacolo, un pericolo, dal
quale il poeta non riesce sempre a guardarsi nei
"piccoli idilli", quasi più nei Canti
scritti dopo il ’30.
Benedetto Croce
riprende la contrapposizione, ma restringe ancor
più il campo poetico: la poesia del recanatese
gli sembra oscillare tra filosofia e
letteratura, quasi mai riuscendo a tenere la
rotta mediana (di qui la sua sostanziale e netta
stroncatura).
Una nuova linea,che rivaluta L. filosofo, è
aperta nei decenni tra le due guerre. Giovanni
Gentile, che legge L. con interessi
filosofici, nell’intento di rivalutare le Operette
morali, arriva ad affermare che L. è
autentico e grande filosofo. Nel 1940 Adriano
Tilgher sostiene che esiste una filosofia
di L., che non è sistematica né procede per
astrazioni (L. non indaga i problemi
gnoseologici o metafisici); essa ora si serve di
un’espressione lirica o letteraria (Canti,
Operette morali), ora è comunicata
in modo immediato, solitamente non elaborato,
attraverso lo Zibaldone.
Nel dopoguerra si assiste ad un sostanziale
rinnovamento degli studi leopardiani, grazie
prevalentemente agli apporti della critica
storicistico-marxiana, la quale mette in risalto
l’ultimo L. (la produzione posteriore al
’30), sostenendo l’eccellenza del poeta
impegnato e progressivo contro quello isolato e
solitario dell’idillio. Saggi fondamentali
sono i seguenti: L.
progressivo di Cesare
Luporini (Firenze, 1947), La
nuova poetica leopardiana di Walter
Binni (Firenze, 1947), Alcune
osservazioni sul pensiero di L. di Sebastiano
Timpanaro (Pisa, 1965), La
protesta di L. di W. Binni (Firenze,
1973), La posizione
storica di G.L. di Bruno
Biral (Torino, 1974), L.
– Schizzi, studi e letture di Carlo
Muscetta (Roma, 1976). Questi contributi,
tutti contrassegnati da una decisa matrice
ideologica, individuano una linea
"eroica" del pensiero leopardiano (L.
consapevolmente eroico di fronte al proprio
destino), pensiero che, non elevato al rango di
filosofia, non è più un ostacolo alla poesia,
ma piuttosto il suo vitale nutrimento. Notevole
il saggio di Umberto Bosco Titanismo e pietà in
G.L. (Firenze, 1957) per il tentativo
di spiegare tutto il percorso intellettuale del
poeta alla luce del motivo eroico-titanico.
Infine, entro l’ambito di una critica
prevalentemente stilistica si sono mosse le
ricerche di Bigongiari, Getto, Ramat, Solmi
e Bigi.
In conclusione, mentre per alcuni studiosi L. è
un filosofo esistenziale, che si pone problemi
di ordine pratico-morale (la vita ha un senso?
può l’uomo essere felice? dopo la morte c’è
qualcosa o con la morte finisce tutto?), la
maggior parte dei critici concorda oggi nel
ritenere che L. non possa essere considerato
filosofo per il fatto che, pur avendone
l’attitudine e i mezzi "culturali",
era viziata in partenza la sua volontà di
speculazione. Egli infatti, sollecitato da
motivi biografici e storico-culturali (vedi
sotto il punto 2), assunse sin dall’inizio un
atteggiamento critico negativo nei confronti
della vita e dei valori che essa esprime,
considerati alla stregua di miti e illusioni.
Tali convincimenti, penetrati profondamente e
per tempo nel suo pensiero, ne condizionarono di
fatto l’attività e gli intendimenti, cosicché,
quando L. disporrà degli strumenti filosofici,
se ne servirà non per sottoporre a critica
razionale il suo atteggiamento di base, bensì
per rafforzarlo, per aumentarne la consistenza
logica e la naturale persuasione. Così facendo,
però, si precludeva la via alla vera filosofia:
il giudizio, se segue e scaturisce
dall’analisi, è oggettivo e logicamente
valido, ma se la precede diventa pregiudizio e
strumentalizza e vizia gli esiti di quella.
2
- La formazione di Giacomo (1798-1816)
La genesi del pensiero di L.
appare determinata da una progressiva presa di
coscienza della propria infelicità.
All’origine di questa si possono individuare
due diversi ordini di fattori:
biografico-ambientali e storico-culturali.
Tra i primi l’atmosfera
affettivamente carente della sua famiglia
e l’educazione
retrograda e autoritaria, impartita da
una madre bigotta e formalista e da un padre
conservatore e chiuso; poi la formazione
isolata e solitaria, da autodidatta,
quello "studio matto e disperatissimo"
che contribuì all’insorgere di diverse malattie
croniche e alla malformazione
fisica. Al gelo dei rapporti familiari
vanno aggiunti lo scherno e la derisione
dei concittadini, la mediocrità e la scarsa
cultura dell’ambiente recanatese, la
precoce sensibilità e
la vivace intelligenza di
Giacomo.
Motivi di ordine storico-culturale furono la crisi
dell’illuminismo e l’insorgere
inizialmente indistinto e confuso di nuove
ideologie, la perdita
d’identità e di funzione
politico-civile dell’intellettuale,
l’arretratezza sociale e culturale dello stato
pontificio.
Né va dimenticato che il periodo storico in cui
Giacomo raggiunge la maturità è l’età della
Restaurazione,
caratterizzata dal conflitto tra nazionalismo,
liberalismo e romanticismo da una parte,
cosmopolitismo, assolutismo e classicismo
dall’altra. In ambito letterario nasce e si
sviluppa la polemica classico-romantica
attizzata dall’articolo di M.me
de Stael, nella quale interviene anche L.
(vedi sotto il punto 3).
Punto di partenza della speculazione
leopardiana, volta a tentare di chiarire il
senso della vita, è dunque il disagio
esistenziale dell’autore, ovvero la sua
infelicità fisica e psicologica. Tale disagio
è all’origine di un pessimismo
di tipo esistenziale, le cui
caratteristiche si possono compendiare come
segue: precoce venir meno delle illusioni e dei
sogni infantili, sfiducia nella vita, sentimento
(non ancora razionalizzato) di desolazione e di
delusione, insofferenza verso i condizionamenti,
sensazione di inutilità e di soffocamento.
3
- La fase del pessimismo storico (1816-1820)
Il pensiero leopardiano prende l’avvio da una
meditazione sull’infelicità in sé, della
quale vengono indagate le cause, le dinamiche e
le conseguenze.
Alla base c’è la teoria
dell’amor proprio (di derivazione
illuministica), secondo la quale l’uomo è un
essere che ama necessariamente se stesso e mira
alla propria conservazione e alla propria
felicità. L’altruismo è un controsenso:
quando io faccio del bene ad un altro è perché
provo piacere, quindi lo faccio sempre a me
stesso. L’altruismo non è il contrario
dell’egoismo, ma è una sublimazione
dell’amor proprio, in quanto esistere
significa amare se stesso, cercare la propria
felicità. L’amor proprio non coincide con
l’egoismo: quest’ultimo è una degenerazione
dell’amor proprio causata dallo sviluppo della
civiltà e dal predominio della ragione; è uno
degli esiti di quel progresso storico negativo,
all’indietro, che è, secondo L., il passaggio
dai primitivi ai civilizzati. L’amor proprio
è fonte di nobili azioni, di sacrifici eroici;
l’egoismo, invece, è calcolo meschino.
L’amor proprio è la volontà di potenza dei
forti, l’egoismo è il calcolo razionale del
debole che uccide la vita.
L. respinge le ideologie ottimistiche e le
utopie rassicuranti del suo secolo, si ribella
alla meschinità del suo tempo e alle
convenzioni del suo ambiente, che giudica arido
e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili
virtù e di valori
incorrotti, in cui gloria
e fama, unici antidoti contro il grigiore
della vita, erano possibili, conseguibili. Si
scaglia con veemenza contro i miti
dell’Ottocento, la storia e il progresso, e
contro la stoltezza di un secolo che dalla
filosofia della storia di Hegel fino al balletto
Excelsior esalta l’uomo come creatore
della realtà. Per L.
si tratta di un antropocentrismo fanatico, al
quale egli si oppone con forza, affermando che
la storia non è progresso, ma regresso dal
primitivo stato di natura, buono e felice, allo
stato di civiltà, corrotto e decadente.
Nella storia del genere umano si distinguono quattro
tappe:
1) l’età
primitiva, quando gli uomini vivevano in
uno stato di perfezione e di innocenza anteriore
alla civiltà;
2) l’antichità classica,
civiltà che L. ammira come sintesi equilibrata
di natura e ragione (nello Zibaldone
sostiene la superiorità del politeismo
greco-romano rispetto alla religione cristiana);
3) il medioevo, nel
giudicare il quale L. incorre nei tipici luoghi
comuni dell’illuminismo (secoli bui, epoca
negativa, trionfo della barbarie);
4) l’età moderna,
con il predominio assoluto della ragione, la
freddezza, il convenzionalismo, il calcolo, la
funzionalità, in una parola la vita inautentica.
L. rifiuta il
progresso civile e tecnologico, convinto che sia
negativo in sé, poiché l’incivilimento è
snaturamento, allontanamento dalla natura: il
mondo è sempre più corrotto e non può essere
corretto. Netta, quindi, per
L. l’antitesi tra
la remota grandezza e la miseria morale e
materiale odierna.
L’antagonismo di L. con gli orientamenti
spirituali e culturali del proprio tempo si
manifesta anche nell’impegno in favore dei
classicisti, i quali devono assolvere il duplice
compito di riproporre i
valori classici, che hanno funzione
liberatoria e di stimolo delle coscienze, e di
scrivere per il proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione,
"nemica della natura", corruttrice dei
costumi, madre della civiltà e della società
con tutti i loro egoismi, distruttrice del
rimpianto mondo eroico. Sogno è ritrovare la
"favilla antica", cioè la vivacità
dell’immaginazione, la forza delle illusioni,
la vitalità dell’ieri contro la delusione
dell’oggi, attraverso il meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo,
anche L. avverte la
necessità delle illusioni
(gloria, amor proprio, amor di patria, libertà,
onore, virtù, amore per la donna), che sono
secondo natura e costituiscono l’unico
antidoto agli effetti della civiltà e della
ragione, i quali hanno guastato il mondo
moderno, "tristissimo
secolo di ragione e di lume"; e
come il Foscolo nei Sepolcri,
così anche L.
concepisce la poesia come stimolatrice di
illusioni.
Tutta la storia del genere
umano è la storia della lotta tra la felicità
e il vero, tra l’illusione e la realtà, tra
la vita e il sogno. La realtà è banale e
cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia le
speranze, di cui l’umanità si nutre e che non
può abbandonare senza cadere nella
disperazione. "Larve" definisce L.
le illusioni in cui l’uomo crede nella sua età
giovanile, ovvero in quel "sabato del
villaggio" che precede il giorno più
noioso che è il giorno della "festa di sua
vita"; sono le illusioni che impediscono di
scorgere la tragedia del vivere. E le illusioni
rappresentarono veramente l’unica motivazione
alla vita per l’adolescente Giacomo, che le
ricorda con accenti commossi in uno degli
squarci più elevati della sua lirica, i vv.
77-103 delle Ricordanze.
La realtà è illusoria: manifestando
un’evidente consonanza con Schopenhauer, L.
sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo
la realtà niente altro che sogno, come scrive
Calderòn de la Barca. Questo concetto è
ribadito nelle opere della maturità (Operette
morali e Canti
posteriori al ’27). Nel Dialogo
di Torquato Tasso e del suo genio familiare
si legge: "Sappi
che dal vero al sognato non corre altra
differenza se non che questo può qualche volta
essere molto più bello e più dolce, mentre
quello non può esserlo mai". E
il verso conclusivo di A
se stesso ("l’infinita
vanità del tutto") sottolinea che il
vero è nemico della felicità. L.
mostra qui il suo paradosso: un’educazione
illuministica che si rivolta contro
l’illuminismo, un illuminista antiilluminista,
un uomo educato al culto della ragione (che
dissipa le tenebre della superstizione e liquida
come favole le verità della religione), il
quale distrugge i miti stessi dell’illuminismo
e afferma la superiorità rispetto al vero di ciò
che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo
di Timandro e di Eleandro tale concezione è
così espressa:
"Si
ingannano grandemente quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste
nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali
provengono dalle opinioni false e
dall’ignoranza, e che il genere umano allora
finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più
degli uomini conosceranno il vero, e a norma di
quello solo comporranno e governeranno la loro
vita."
L.
nega in tal modo l’essenza, il
"vangelo" dell’illuminismo: la
felicità è data non dalla conoscenza del vero,
bensì dalla sua ignoranza; sapere di più
significa soffrire di più, e chi aumenta la
conoscenza aumenta anche il dolore, come dice la
Bibbia. Tutta la poesia A
Silvia esprime in termini altamente
lirici questa concezione.
In
conclusione, la sostanza del pessimismo storico
leopardiano si esprime in quattro antinomie,
nelle quali il primo termine ha valenza
positiva, il secondo negativa:
valenza
positiva |
|
valenza
negativa |
natura |
vs |
ragione |
antico |
vs |
moderno |
stato
naturale |
vs |
società |
illusione |
vs |
vero |
4
- La fase del pessimismo cosmico (1823-1830)
A partire dagli anni del
cosiddetto "silenzio poetico"
(1823-27) L. opera
un progressivo ribaltamento della concezione
iniziale, giungendo a riabilitare la ragione
contro la natura.
Continuando ad analizzare le cause
dell’infelicità umana, egli osserva che il naturale
impulso vitale è contrastato e
ostacolato, a livello individuale, da un duplice
limite, biologico e
ontologico; a livello storico
da un terzo limite, l’egoismo,
che egli definisce "peste della società".
Il limite biologico
consiste nell’intrinseca debolezza
dell’uomo, il quale, al pari di ogni altro
essere vivente, è subordinato al ciclo
meccanicistico della materia. Di qui la scoperta
della propria fragilità e solitudine.
Il limite ontologico
è dato dall’impossibilità di essere felici:
la natura genera nell’uomo una tensione
irrefrenabile verso la felicità, un anelito
costante al piacere, ma la felicità è
irraggiungibile, giacché, in quanto tale, deve
essere infinita e pienamente appagante; di
conseguenza la ricerca di essa conduce
inevitabilmente ad una finita e concreta
infelicità. I piaceri momentanei che si provano
nella vita non sono altro che una tregua
relativa e passeggera dell’infelicità.
Per comprendere a fondo queste
ultime affermazioni, occorre rifarsi alla teoria
leopardiana del piacere,
secondo la quale il piacere non né è assoluto
né infinito; anzi, il piacere in sé non
esiste: esiste solo nel desiderio, essendo un
"subbietto speculativo", vale a dire
un puro concetto. Il desiderio è immaginazione,
speranza, sogno, proiettato sempre al futuro e
sempre destinato ad essere deluso. Invece del
piacere esistono i piaceri, intesi in senso
negativo come cessazione dell’affanno, brevi
momenti di assenza del dolore; concreti ed
effimeri, rendono sopportabile il dolore,
restituendo momentaneamente la vitalità,
l’impulso vitale.
La teoria del piacere, il cui carattere è
negativo, è strettamente legata alla teoria
dell’amor proprio. L’amor proprio, infatti,
implica la ricerca della felicità, ma questa
ricerca è senza esito, non può avere fine,
quindi non può mai appagarsi. L’uomo cerca il
piacere sempre, ma non può accontentarsi del
piacere che trova, che è finito; egli è
pertanto destinato a cercare il piacere in
qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto:
ciò significa che non lo trova mai. La tragicità
della condizione umana è in questa ricerca
dell’infinito, che conduce sempre allo scacco.
Il piacere è sempre sperato, mai posseduto,
sempre futuro, mai presente: esso sfugge sempre.
Non esistendo e non potendo esistere realmente,
esiste solo nel desiderio del vivente e nella
speranza o aspettativa che ne segue. In base a
questa teoria il concetto di piacere è
negativo, quello di dolore è positivo, per cui
si può dire che il piacere è la mancanza del
dolore, ma non si può dire che il dolore è la
mancanza del piacere, ovvero di qualcosa che non
esiste. Il concetto è espresso poeticamente nei
seguenti versi tratti da La quiete dopo la
tempesta:
Piacer
figlio d’affanno;
Gioia vana ch’è frutto
Del passato timore (…).
... ...
Uscir di pena
È diletto fra noi.
Pene tu (= la Natura) spargi a larga
mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel
tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno. |
È questa la concezione
del piacere negativo, perché, se per
caso cessa il dolore, di cui il piacere è la
negazione, non subentra il piacere, ma qualcosa
di peggio, che nella dialettica di L.
è la noia. Il
dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi
e speri di superarlo, mentre la noia è angoscia
e disperazione. E allora, per
L. come per Schopenhauer, la vita oscilla
inarrestabilmente come un pendolo tra il dolore
e la noia, in un eterno meriggio privo di
tramonto ristoratore.
Il limite storico
è dato dalla inconciliabilità di individuo e
società, tra i quali si determina uno scontro
di egoismi. L’atteggiamento dei singoli è
antisociale: ognuno cerca sempre di avere di più,
di soverchiare gli altri, di sottomettere tutto
e tutti al proprio utile o piacere. E ciò per
natura. Ne consegue che tutte le società
sono state cattive (superamento del pessimismo
storico) e che, a causa appunto dell’egoismo e
dell’aggressività umani, ci si avvia
inesorabilmente alla distruzione del mondo, già
data per avvenuta nel Dialogo
di un folletto e di uno gnomo. Di qui
la polemica contro l’ingenua fiducia del XIX
secolo nel progresso scientifico e tecnologico,
nelle macchine, nell’espansione economica, che
comporta lo sfruttamento industriale e il
colonialismo.
Considerati i tre suddetti limiti,
L. conclude che tutto
è male. Esistere equivale ad essere
perennemente insoddisfatti, incontentabili, a
soffrire per la propria fragilità. Il
bene consiste nel non esistere.
Responsabile del male è la natura, non più
vista come provvida e benefica madre, bensì
come causa
dell’infelicità umana. Essa con
l’esistenza ci dà i germi dell’infelicità,
essendo l’insopprimibile bisogno di felicità
destinato a restare insoddisfatto.
Documenti
(testi che
testimoniano la rottura del rapporto con la
Natura):
La sera del
dì di festa (idillio,
1820);
Cfr. vv. 11-15:
…
io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar
m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la
speme
Nego, mi disse, anche la speme; e
d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di
pianto. |
Commenta G.
Oliva: "Il sonno
silenzioso e tranquillo della donna si fa
metafora di una indifferenza ben più dolorosa
per il L.: quella della Natura, che mostra agli
uomini il suo aspetto più delicato (il cielo, che
sì benigno appare in vista) solo per
nascondere la sua malvagia crudeltà".
Ultimo canto
di Saffo
(canzone,
1822);
Imperscrutabile è il destino
dell’uomo; uniche certezze sono il dolore e la
morte:
…
i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è
tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta
prole
Nascemmo al pianto…
Morremo. |
La Natura
è beffarda, insensibile al dolore dell’uomo,
intenta solo a perpetuare se stessa; come nella Sera
del dì di festa cela sotto una
struggente immagine di bellezza il suo disdegno
(cfr. vv. 19-36). L. non sa proporre alcuna
soluzione in grado di superare il dolore del
mondo; l’assurdo non può essere vinto, ma
solo accettato come tale. L’uomo non può
sperare di vincere il nulla, da cui è sorto e a
cui farà ritorno, ma può solo identificarsi
con esso in un’operazione che ricorda quella
orientale del "nirvana",
dell’annullamento.
Zibaldone
(dal 1821);
Nella sua condanna della
Natura il L.
rifiuta qualsiasi provvidenzialismo, qualsiasi
consolazione religiosa, qualsiasi soluzione
irrazionale; al contrario, rivaluta pienamente
la ragione: è la
ragione che disinganna e guida l’uomo alla
vera sapienza, che consiste nel prendere
coscienza della propria inutilità; è la
ragione che "atterra" (cioè riporta
sulla terra dal cielo della metafisica) l’uomo
e lo pone davanti all’ arido
vero; è la ragione, infine, che scopre
che tutta l’umanità è accomunata da un unico
e identico destino (superamento del pessimismo
individuale e psicologico).
Dialogo
della Natura e di un Islandese (O.M., 1824);
Ogni tentativo di agonismo è
votato a disfatta: la Natura è invincibile ed
è indifferente alla felicità o meno
dell’uomo. L’universo è dominato
dall’irrazionalismo e dal casualismo: non c’è
una ragione, un senso; non c’è un fine, una
creazione, un orientamento; tutto è abbandonato
al caso. Del tutto inutile è la ricerca di un
significato: la Natura non dà risposte.
L’estrema domanda dell’Islandese ("Dimmi
quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi
piace o a chi giova cotesta vita infelicissima
dell’universo, conservata con danno e con
morte di tutte le cose che lo compongono?")
rimane senza risposta.
Cantico
del gallo silvestre (O.M., 1824);
L’essere esiste, ma
non c’è nessuna ragione perché esista anziché
perché non esista; la vita non ha senso, né ha
alcun senso la realtà. I positivisti, che
collegavano il pessimismo di L. alle sue
condizioni fisiche, nel centenario della nascita
ne riesumarono il corpo per misurarlo ed
espressero la tesi che egli, essendo infelice e
gobbo, doveva diventare fatalmente pessimista.
Ma tale tesi è del tutto insostenibile: il
pessimismo di L. non è di ordine psicologico,
bensì cosmico, poiché riguarda la realtà
tutta, non solo l’uomo, né tanto meno
l’uomo Giacomo Leopardi. Il quale, nella
pagina più terribile delle Operette
morali denuncia il radicale non senso
della realtà. Si tratta della parte conclusiva
del Cantico del gallo silvestre:
"Tempo
verrà, che esso universo, e la natura medesima,
sarà spenta. E nel modo che di grandissimi
regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti,
che furono famosissimi in altre età, non resta
oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo
intero, e delle infinite vicende e calamità
delle cose create, non rimarrà pure un
vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete
altissima, empieranno lo spazio immenso. Così
questo arcano mirabile e spaventoso
dell’esistenza universale, innanzi di essere
dichiarato né inteso, si dileguerà e
perderassi".
A
Silvia (idillio,
1828);
La Natura tradisce, è
matrigna, non mantiene le promesse, inganna,
spegne le illusioni:
O
natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di
tanto
Inganni i figli tuoi? |
La vita si rivela aridità
e disillusione:
All’apparir
del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano". |
Canto notturno di
un pastore errante dell’Asia
(idillio,
1830).
Il desiderio di sapere la verità non è
appagato; uniche certezze il vuoto e il nulla;
l’esistenza è assurda. "Perché siamo
nati?". A questa domanda L. risponde:
"Per mostrare che era meglio che non
nascessimo affatto": per questo, non appena
un bambino è nato, noi prendiamo a consolarlo
dell’essere venuto al mondo. E forse la
definizione più precisa del pessimismo cosmico,
del non senso dell’essere, si trova in questa
grande lirica, che è stata chiamata l’«anti
Divina Commedia», perché, se la Divina
Commedia è senso dell’ordine,
della provvidenza, della finalità, il Canto
notturno, all’opposto, esprime una
visione della vita improntata ad un totale
casualismo. Effetto di questa presa di coscienza
è il tedio, la noia,
definita "la più
sterile delle passioni umane", "figlia
della nullità e madre del nulla", ma anche
"il più sublime dei sentimenti umani".
Essa è tormento, è l’esaurirsi del mito
vitalistico, è privazione del desiderio, è
coscienza dell’inutilità del tutto; ed è
sentimento nobile, perché distingue gli spiriti
più sensibili e dotati. In questo risiede la
grandezza dell’uomo.
In
conclusione, una valida sintesi delle concezioni
su cui si fonda il pessimismo cosmico di G.L. può
essere la seguente:
1 |
L’uomo nasce per
il dolore e la gioia è cessazione
momentanea dell’affanno.
|
2 |
Dal punto di vista
dell’uomo (piano esistenziale) tutto
l’universo sembra cospirare contro di lui.
Da quello dell'’ssoluto (piano metafisico)
la vita è un processo naturale che alterna
gli esseri attraverso la generazione e la
morte.
|
3 |
La natura, intesa
come forza bruta e malefica, è responsabile
della nostra sventura.
|
4 |
L’uomo conosce il
suo destino, ma ciò lo rende infelice,
poiché da questa comprensione egli viene
ricondotto in se stesso, alla sorgente prima
della sua infelicità, che è il suo stesso
esistere. Perciò la morte è l’unico
rifugio per il vivente. |
5
- L’ultimo Leopardi: il pessimismo eroico
(1827-1837)
Dopo il definitivo
addio a Recanati del 30 aprile 1830 il pensiero
di L., sia sul piano ideologico sia su quello
etico, fa registrare una svolta (anticipata dal Dialogo
di Plotino e di Porfirio del 1827) nel senso
di un superamento della visione
materialisticamente negativa e nichilista
maturata nella fase del
pessimismo cosmico, per un messaggio
agonistico positivo (di difficile
comprensione e attuazione, perché "non
apprezzato in questo secolo").
Le ragioni di tale svolta sono molteplici e si
possono sintetizzare nei punti seguenti:
1 |
L’amicizia, per
quanto effimera, con i liberali toscani
dell’ Antologia.
|
2 |
La fallimentare
esperienza dell’amore (ultima delusione in
ordine di tempo il rifiuto ottenuto da Fanny
Targioni Tozzetti, che fu all’origine del Ciclo
di Aspasia).
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3 |
I contrasti con gli
spiritualisti napoletani dopo il
trasferimento a Napoli in casa di Antonio
Ranieri.
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4 |
L’assidua pratica
della filologia, improntata a severo rigore
scientifico, nella ricerca di risposte non
evasive né fideistiche al dramma
esistenziale.
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5 |
La scoperta del
linguaggio satirico come strumento
espressivo del titanismo e del pessimismo.
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6 |
La lettura di
Epitteto (filosofo stoico greco, autore del Manuale)
e di Teofrasto (discepolo di Aristotele,
propugnatore dell’empirismo
materialistico).
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7 |
Il superamento
dell’etica stoica e dell’atteggiamento
apolitico (dall’atarassia alla
partecipazione).
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8 |
L’esigenza di un
atteggiamento eroico e di una morale
costruttiva, fondata esclusivamente
sull’uomo e aliena dal trascendente. |
Nel ricostruire,
attraverso i documenti, le tappe di questa fase
del pensiero
leopardiano, troviamo nel Dialogo
di Plotino e di Porfirio del 1827 la
prima espressione della necessità di una
solidarietà umana di fronte al destino. Il
dialogo, incentrato sul tema del suicidio e
volto a chiarire le ragioni che lo respingono
come soluzione al dramma esistenziale, si
conclude con un‘appassionata esortazione
rivolta da Plotino all’amico:
" Viviamo,
Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non
ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì
bene attendiamo a tenerci compagnia l’un
l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando
mano e soccorso scambievolmente; per compiere
nel miglior modo questa fatica della vita. La
quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la
morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in
quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci
conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che,
poi che saremo spenti, essi molte volte ci
ricorderanno, e ci ameranno ancora."
Due anni più tardi L., in una famosa pagina
dello Zibaldone,
dissipa con forza i sospetti di misantropia
di cui era fatto oggetto il suo pensiero:
"La
mia filosofia non solo non è conducente alla
misantropia, come può parere a chi la guarda
superficialmente, e come molti l’accusano; ma
di sua natura esclude la misantropia, di sua
natura tende a sanare, a spegnere quel mal
umore, quell’odio, non sistematico, ma pur
vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono
filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né
creduti misantropi, portano però cordialmente
ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea
d’ogni cosa la natura, e discolpando gli
uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non
altro il lamento, a principio più alto,
all’origine vera dei mali dei viventi."
Ma L.
non trova rispondenza né comprensione nella
classe politica e intellettuale del suo tempo,
la quale professa fiducia nelle magnifiche
sorti e progressive. Contro l’ottimismo
storicistico del secolo, che egli giudica
stolto, e contro lo stesso impegno politico e
legislativo, che egli vede animato dalla sterile
e ridicola pretesa di procurare agli stati il
benessere e la felicità ignorando le reali
esigenze degli individui, L. intraprende una
vigorosa crociata solitaria. In una lettera al
Giordani del 1828 scrive:
"Mi
comincia a stomacare il superbo disprezzo che
qui si professa di ogni bello e di ogni
letteratura: massimamente che non mi entra poi
nel cervello che la sommità del sapere umano
stia nel saper la politica e la statistica.
Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità
quasi perfetta degli studi fatti dall’età di
Solone in poi per ottenere la perfezione degli
stati civili e la felicità dei popoli, mi viene
un poco da ridere di questo furore di calcoli e
di arzigogoli politici e legislativi; e
umilmente mi domando se la felicità dei popoli
si può dare senza la felicità
degl’individui."
La polemica
di L. è
particolarmente dura contro il liberalismo
cattolico e moderato, come attesta la satira dei
Nuovi credenti,
e la sua condanna coinvolge ogni tipo di
conformismo, sia reazionario, sia liberale.
Negli ultimi anni L. abbandona il pessimismo più
"metafisico" per acquisire un
atteggiamento più "relativistico",
fondato sul riconoscimento di un doppio piano
della verità, quello dell’"ordine delle
cose" e quello del "modo
dell’esistenza", e, di conseguenza, di
una duplice matrice del dolore. "C’è il
dolore che deriva dall’ordine delle cose,
dunque legato all’essenza stessa della vita e,
come tale, è ineliminabile se non a costo della
rinuncia alla vita stessa (si tratta del dolore
inflitto all’uomo dai "mali
esterni", ai quali non ci si può
sottrarre: malattie, eventi atmosferici,
cataclismi, deperimento dovuto a vecchiaia).
C’è poi un altro tipo di sofferenza, che
invece rimanda al mondo dell’esistenza, cioè
alla qualità della vita, alla storia, alla
cultura. Questo secondo tipo di dolore può
essere invece combattuto e rimosso in quanto
dipende non dalla natura, ma dall’uomo: di qui
il recupero del vitalismo e la scoperta, da
parte della poesia leopardiana, della dimensione
sociale.
Il male storico dipende dal libero sfogo
dell’egoismo umano: noi viviamo tutti per la
morte e, anche se accomunati dalla stessa
miseria della vita e dall’odio implacabile
della Natura, tendiamo a contrapporci l’un
l’altro per desiderio di affermarci, voglia di
prevalere, che sono la manifestazione degli
istinti più bassi. Così accresciamo il già
grande male di vivere. Ma l’uomo è essere
razionale, soggetto di cultura, dunque può
controllare i bassi istinti, che sono
fondamentalmente antisociali, e produrre valori
alternativi come la compassione, la solidarietà,
l’amicizia, che invece fondano la società.
E’ questo il compito della ‘filosofia
dolorosa ma vera’, che riconosce francamente
il male della vita e mostra concretamente come
esso possa essere mitigato. Questo è il compito
del nuovo poeta, che così recupera la funzione
di vate al servizio tanto della verità quanto
dell’intera umanità e si fa promotore di
autentica cultura e autentico progresso
sociale."
L’etica della solidarietà
è il tema centrale della Ginestra,
concepito come un messaggio indirizzato sia ai
contemporanei sia ai posteri: si impone una
grande alleanza fra tutti gli uomini, una social
catena che coalizzi i mortali contro
l’empia Natura e abbia il coraggio della verità,
rifiutando l’idea di una Provvidenza e le superbe
fole del secol superbo e sciocco.
Il messaggio finale di L. è frutto di un razionalismo
irriducibile. Progressismo e pessimismo
convivono in quest’ultima fase del suo
pensiero, caratterizzata dalla speranza che la
riconquista del giusto sapere sia il fondamento
di una società nuova, costruita con le sole
forze umane.
http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/bios/bio048.htm
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