Introduzione
Alessandro
Manzoni inizia a scrivere I Promessi
Sposi il 24 aprile 1821, mentre si trova
con la famiglia nella bella villa di
Brusuglio, immersa nella campagna, a pochi
chilometri da Milano.
Sono tempi difficili: in città la polizia
austriaca sta arrestando, uno a uno, i
patrioti affiliati alla società segreta
della Carboneria. L'anno prima è stato
arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in
corso i processi nei quali sono anche
implicati i collaboratori del
Conciliatore, tra cui il direttore del
giornale, Silvio Pellico (1789-1854).
Molti di loro sono amici e
conoscenti di Manzoni che spera, nel suo
rifugio, di non essere coinvolto né chiamato
a subire estenuanti interrogatori .
Ha con sé alcuni libri: le
Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti
(1573-1643) e il saggio di Melchiorre Gioia
(1767-1829) Sul commercio di commestibili
e caro prezzo del vitto, dove legge il
passo di una grida (legge emanata dal
Governatore di Milano, chiamata così perché
veniva gridata nelle strade da pubblici
ufficiali, al fine di informare i cittadini,
spesso analfabeti) del Seicento, che commina
pene severe a chi impedisca la celebrazione
di un matrimonio.
Nell'arco di quaranta giorni
Manzoni stende di getto l'Introduzione
e i primi due capitoli del romanzo che, in
realtà, sta enucleando nella mente da alcuni
anni e che rappresenta una vera e propria
sfida, per la sua novità formale e di
contenuto. Ricostruire il processo di
ideazione, stesura e revisione di questo
capolavoro significa aprire anche uno
spaccato sulla vita culturale dell'Ottocento
e calarsi in quell'affascinante fase della
cultura italiana che segue e sorregge le
prime fasi del processo di unificazione
nazionale.
-
L'Illuminismo lombardo
Il
tardo Settecento è un momento
particolarmente felice per la vita culturale
di Milano: la Lombardia, infatti, è passata
nel 1713, con il trattato di Utrecht, sotto
il controllo dell'Austria, liberandosi dal
malgoverno spagnolo. Sovrani aperti alle
riforme, come Maria Teresa e suo figlio,
Giuseppe II d'Asburgo, introducono
innovazioni che danno, nel decennio 1770-80,
i primi risultati positivi. Ricordiamo in
particolare l'istituzione del Catasto
geometrico della proprietà fondiaria che
pone la proprietà terriera su basi sicure,
regola il gettito fiscale, accorda
facilitazioni agli agricoltori più
intraprendenti, senza danneggiare
l'aristocrazia, che poggia la sua ricchezza
sul razionale sfruttamento della fertile
pianura Padana.
Gli intellettuali, per lo più di
estrazione nobiliare o alto-borghese, sono
chiamati a collaborare: ricevono incarichi
di responsabilità e a volte sono accreditati
consulenti per migliorare la legislazione e
controllare l'opportunità di scelte
fondamentali, in ambito monetario o nei
rapporti commerciali.
Pietro Verri
(1728-1797) è un esempio convincente di
questa figura di intellettuale calato nella
vita civile: chiamato a far parte nel 1770
della Giunta per la riforma fiscale,
ottiene l'abolizione degli appalti privati
nella riscossione delle imposte. Come
presidente del Magistrato camerale
(l'equivalente della direzione finanziaria),
si sforza di riorganizzare meglio l'apparato
fiscale. Intanto si diffondono in Europa
nuove idee che egli enuclea nelle
Meditazioni sull'economia politica
(1771).
Il movimento culturale dell'Illuminismo
(così chiamato perché gli intellettuali
confidano unicamente nel lume della Ragione)
nasce in Inghilterra e si sviluppa
rapidamente in Francia, Italia e nel resto
dell'Europa. Gli illuministi esaltano una
cultura operativa, che propugna lo sviluppo
della scienza e delle tecniche. Ricordiamo
che l'opera più significativa di questo
movimento, l'Enciclopedia (in 17
volumi pubblicati tra il 1751 e il 1772, più
altri volumi successivi di tavole), riceve
dai suoi ideatori e organizzatori, Denis
Diderot (1713-1784) e Jean Baptiste d'Alembert
(1717-1783), un significativo sottotitolo:
Dizionario ragionato delle scienze, delle
arti e dei mestieri, da parte di
un'associazione di letterati. Ad essa
collaborano, con articoli e interventi sulle
varie voci, i nomi più prestigiosi della
Francia del tempo: Voltaire (1694-1778),
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Charles
de Secondat, barone di Montesquieu
(1689-1755), Claude-Adrien Helvétius
(1715-1771), Étienne de Condillac (1715-80),
Paul-Henry D'Holbach (1723-89), il
naturalista George-Louis Buffon (1707-88),
gli economisti Robert Turgot (1727-81) e
François Quesnay ( 1694-1774).
Si diffondono i giornali, sul
modello dello Spectator (1711)
dell'inglese John Addinson, strumento di
informazione destinato al largo pubblico, e
dello spregiudicato "Tatler" ("Il
Chiacchierone") di Richard Steele.
A Milano questa cultura, proiettata
verso il progresso, attenta ai problemi
concreti dell'uomo, pronta a intervenire
nella gestione del pubblico interesse, trova
attenti interlocutori. Nasce, così la
Società dei Pugni e un periodico, "Il
Caffè", edito dal giugno 1744 al
maggio1766. Si distinguono, per impegno e
numero di interventi, i fratelli Pietro e
Alessandro Verri (1741-1816), ma il
collaboratore più prestigioso è Cesare
Beccaria (1738-1794), l'autore di un vero
best-seller, il trattato Dei delitti e
delle pene (1764) in cui dimostra
l'inefficacia della pena di morte e delle
torture nella prevenzione dei delitti.
- Il
Romanticismo
Il
Romanticismo entra in Italia attraverso la
garbata mediazione di una grande "operatrice
culturale", madame de Stäel (1766-1817). Il
suo articolo, Sulla maniera e l'utilità
delle traduzioni, esce nel gennaio del
1816 sulla Biblioteca italiana,
periodico milanese promosso e divulgato a
cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli
italiani ad aprire i propri orizzonti, a
guardare anche alla produzione d'oltr'Alpe
e, in particolare, agli sviluppi della
cultura in Inghilterra, Germania e Francia,
dove ormai si sta diffondendo il
Romanticismo.
Subito si infiamma il dibattito fra i
critici della proposta della Stäel e i suoi
sostenitori, come Pietro Borsieri
(1786-1852), autore dell'articolo Intorno
all'ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani (1816) e Ludovico Di Breme
(1780-1820) che scrive Avventure
letterarie di un giorno (1816), ma non
mancano in primo piano gli amici del
Manzoni, come Ermes Visconti e Giovanni
Berchet. Questi, nella Lettera semiseria
di Giovanni Grisostomo (dicembre 1816),
elabora il manifesto del Romanticismo
italiano. In tono elegante e vivace
polemizza contro i classicisti, che ripetono
sempre gli stessi moduli poetici, imitando i
modelli antichi, fanno della poesia mezzo di
diletto, piuttosto che di educazione,
ignorano il sentimento, si rivolgono a una
categoria ristretta di "addetti ai lavori".
Invece il Romanticismo propugna
un'arte diretta a un ampio pubblico
borghese, mira a riprodurre i problemi degli
uomini, calati nella realtà, si propone una
funzione importante, perché vuole educare le
menti e i cuori.
Anche Alessandro Manzoni vi
aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia
per iscritto. Conosciamo le sue idee sul
questo movimento dalla lettera Sul
Romanticismo, inviata al marchese Cesare
D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza il suo
consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo
l'uso della mitologia, massicciamente
presente nella poesia neoclassica, perché
crea una letteratura d'evasione, elaborata
secondo l'imitazione acritica, pedissequa e
anacronistica dei classici. Invece l'opera
d'arte deve essere educativa, cioè deve
aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso
e il mondo in cui vive. In questo testo
Manzoni elabora una formula che mette a
fuoco la sua concezione poetica: l'opera
letteraria ha «l'utile per iscopo, il
vero per oggetto e l'interessante per mezzo».
È questa
un'affermazione non nuova nella forma, ma
certamente nuova nella sostanza. L'utile
coincide con la moralità in senso cristiano
ed è il fine stesso della poesia tesa alla
formazione delle coscienze; l'interessante
viene a coincidere con la scelta stessa
dell'argomento da trattare, che deve restare
nell'ambito della meditazione sull'uomo,
sulla sua vita e sul suo rapporto con la
Divina Provvidenza; mentre il
vero
coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il
Romanticismo come un rinnovamento dei moduli
espressivi e dei temi propri della
letteratura, poiché si indirizza a un
pubblico vasto. In modo particolare
sottolinea le peculiarità del
Romanticismo lombardo‚
che, erede dell'Illuminismo, non lo
sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le
tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex
capitale della napoleonica Repubblica
Cisalpina, ospita intellettuali e periodici
che non intendono sconfessare la Ragione,
ma, semmai, vogliono affiancarle il
sentimento, per rendere più completa la
visione dell'uomo. In nome della Ragione si
cerca di svecchiare la letteratura,
liberandola da regole assurde, come le tre
unità aristoteliche, che hanno condizionato
la produzione teatrale italiana sino al
Settecento.
I classici sono letti con
ammirazione e costante interesse, ma non più
imitati, perché l'opera d'arte nasce
strettamente congiunta con lo spirito di
un'epoca, che è irripetibile. Infine anche
la Religione è vissuta in sintonia con il
vaglio della Ragione.
L'esempio più evidente delle
strette interrelazioni tra i due movimenti
culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni,
un grande romantico, nipote di un grande
illuminista, Cesare Beccaria. Ma c'è di più:
il Romanticismo lombardo porta avanti, senza
nasconderlo, un preciso intendimento
patriottico-risorgimentale che emerge dalle
pagine del periodico Il Conciliatore.
È un foglio azzurro che viene
pubblicato due volte la settimana a Milano,
dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819:
viene sostenuto economicamente dal conte
Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal
conte Federico Confalonieri (1785-1846), che
collaborano anche con interventi
redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio
Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet,
Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes
Visconti. Collaboratori occasionali sono
grandi nomi dell'economia, come Melchiorre
Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e
Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come
il ginevrino Sismonde de Sismondi
(1773-1842), scienziati come il
medico-letterato Giovanni Rasori
(1766-1837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo
assorbito dalla sua attività creativa, che
in quegli anni è davvero intensa. Segue,
però, con attenzione e partecipazione,
condividendone il programma. Il titolo del
periodico, Conciliatore, non è
casuale: nasce dall'intenzione di mettere in
comune gli sforzi dei circoli intellettuali
milanesi per dare alla letteratura forza ed
efficacia, per elaborare un valido progetto
culturale, sociale e politico: inevitabile,
quindi, proprio alla luce dell'evidente
intento patriottico, che intervenga l'occhio
vigile della censura austriaca, la quale
lascia ben poca vita al giornale. L'impegno
sociale del Conciliatore, che mira
alla «pubblica utilità», istruendo i
Milanesi sulle innovazioni che in Europa
segnano il progresso in tutte le branche del
sapere (dalla pedagogia all'agricoltura,
dalle istituzioni alla medicina, dalle
scienze naturali alle loro applicazioni
tecniche), lo pongono sulla linea del
Caffè, del quale, peraltro, i
"conciliatori" si considerano eredi e
prosecutori.
Naturalmente il
giornale si presenta come espressione di una
cultura italiana.
Per esempio, il problema della coltivazione
della vite in Toscana non risulta meno
interessante di quello dei bachi da seta in
Lombardia. C'è quanto basta per indurre
l'Austria a sopprimere il giornale e
costringere al silenzio i collaboratori con
l'intimidazione o la deportazione: tra
questi ricordiamo Silvio Pellico, il quale
riporta le memorie della sua prigionia nel
carcere asburgico dello Spielberg nel
libretto Mie prigioni (1832), che
fece grande scalpore e rappresentò per
l'Austria una notevole sconfitta.
Gli
anni del "periodo creativo" del Manzoni sono
caratterizzati da grandi eventi storici che
si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando
tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e
la restaurazione sui troni degli antichi
sovrani, "spazzati via" dalla conquista
francese, porta la Lombardia nuovamente
sotto la dominazione austriaca. Anche qui,
come in altri Paesi europei, si formano
società segrete; in Lombardia sorge la
Carboneria, che organizza moti
insurrezionali, destinati a fallire prima
ancora di realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali
patriottici e risorgimentali, auspicando
l'indipendenza e l'unificazione delle
regioni italiane: esprime le sue idee
soprattutto nelle quattro appassionate
Odi civili.
Proprio il Cinque maggio,
che non ha un carattere militante
patriottico, perché non invita all'azione,
rappresenta una riflessione sul rapporto fra
l'uomo e la storia. Manzoni introduce il
concetto di provvida sventura,
affermando che le sconfitte, come l'esilio
di Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e
gli fanno conquistare qualcosa di molto più
alto e prezioso, la salvezza dell'anima.
Con la scrittura
delle tragedie, Il conte di Carmagmola
e l'Adelchi, si rafforzano proprio
due concetti che diventeranno il fondamento
della poetica manzoniana: la
provvida sventura
e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet
sur l'unité de temps et de lieu dans la
tragédie, pubblicata nel 1823, il
Manzoni offre un vero saggio di metodologia.
Egli sostiene che l'unità d'azione
non corrisponde a un singolo avvenimento, ma
a molti avvenimenti, anche lontani nel tempo
e nello spazio; essi, però, sono collegati
da rapporti interni (come quello di causa ed
effetto). Collante che garantisce l'unità
dell'azione è, per Manzoni, il
vero storico
ossia rispetto per i fatti e riproduzione
fedele delle caratteristiche dei personaggi,
così come ci sono state tramandate dalla
storia e puntualizzate in seguito a una
severa ricostruzione preliminare. Sentiamo
l'eco dell'insegnamento dello Schlegel che
costituisce il punto fondamentale della
poetica manzoniana: il rispetto della verità
storica è garanzia della validità morale ed
estetica dell'opera d'arte: l'unità
d'azione, dunque, nasce dalla capacità dello
scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi
e rintracciarne il senso più alto. Si noterà
anche che non è estranea, soprattutto in
quest'ultima implicazione, la visione
religiosa dell'autore.
- L'ideazione
Siamo
arrivati al punto da cui eravamo partiti.
All'inizio abbiamo detto che Manzoni ìdea
I Promessi Sposi leggendo una grida
del Seicento, riportata da Melchiorre Gioia.
È la stessa trascritta nel terzo capitolo
del romanzo, circa le pene a cui va incontro
chi impedisca la celebrazione di un
matrimonio.
«Sai che cos'è stato che mi diede
l'idea di fare I Promessi Sposi? È
stata quella grida che mi venne sotto gli
occhi per combinazione, e che faccio
leggere, appunto, dal dottor
Azzecca-garbugli a Renzo dove si trovano,
tra l'altro, quelle penali contro chi
minaccia un parroco perché non faccia un
matrimonio. E pensai, questo sarebbe un buon
soggetto per farne un romanzo (un matrimonio
contrastato), e per finale grandioso la
peste che aggiusta ogni cosa!», scriverà il
Manzoni, anni dopo, al figliastro Stefano
Stampa.
Sono anni di lavoro intenso. Così
Pietro Citati lo immagina intento nel suo
sforzo creativo: «Fu il periodo più felice
della sua vita: l'unico, forse, felice
ch'egli conobbe... Era incuriosito e
divertito da quello che raccontava, e per la
prima volta scoprì la gioia di proporre
avventure, di sciogliere intrighi, di
giocare con i fatti... persino la nevrosi e
gli incubi sembrarono allentare per qualche
tempo la loro presa sopra di lui» (da Pietro
Citati, La collina di Brusuglio, in
Immagini di Alessandro Manzoni,
Milano, Mondadori, 1973, p. XXXIX).
Come arriva al romanzo? Quali sono
le urgenze interiori che lo avvicinano a
questo tipo di produzione, pressoché assente
in Italia, considerata anzi con una sorta di
sufficienza dagli intellettuali, perché
orientato verso un pubblico borghese di non
"addetti ai lavori"?
In realtà Manzoni capisce che né la
lirica civile né il teatro soddisfano quel
bisogno di comunicare "ad ampio raggio"
che è una sua aspirazione profonda. Anzi, i
personaggi del teatro si trasformano quasi
in simboli, si innalzano in una sfera
astratta che coinvolge la meditazione
esistenziale: Adelchi è un eroe, chiuso nel
cerchio sublime del suo pessimismo. Quanti
lettori possono riconoscersi in lui, pur
condividendone, i princìpi e le aspirazioni?
Il romanzo, invece, si presenta al
largo pubblico con un linguaggio più
semplice, una narrazione avvincente,
personaggi verosimili per le loro umanissime
reazioni. Il genere del romanzo è l'immagine
letteraria della classe borghese che
rappresenta un pubblico non d'élite e
tuttavia desideroso di letture.
Grazie a Fauriel, durante il
secondo soggiorno parigino, Manzoni ha
conosciuto le opere dello scozzese Walter
Scott: con lui si parla di
romanzo storico
perché le vicende sentimentali dei
protagonisti sono calate in periodi
storicamente ben definiti e per lo più nel
Medioevo, ricostruito con una certa
attendibilità. Ivanhoe è, all'interno
della feconda vena narrativa dello Scott, il
romanzo più celebre, pubblicato nel 1820. Se
vogliamo comprendere in quale misura il
Manzoni ne rimane influenzato, ma anche se
ne distacca per costruire I Promessi
Sposi all'insegna di una straordinaria
originalità, bisognerà soffermarci un poco
su di esso.
La
vicenda di Ivanhoe è ambientata
nell'Inghilterra del XII secolo. I Normanni
hanno imposto la loro supremazia sui Sassoni
e re Riccardo Cuor di Leone cerca di
amalgamare i due popoli. Partito per una
crociata, il sovrano ha affidato
l'amministrazione del regno al fratello
Giovanni, incapace e sleale.
La narrazione comincia con la
descrizione di un grande torneo, in cui si
distingue un misterioso cavaliere, che poi
si scoprirà essere Wilfred d'Ivanhoe, figlio
di Cedric il Sassone, tornato dalla
Terrasanta. Egli viene ripudiato dal padre,
perché vorrebbe trovare un accordo con i
Normanni. Per questo non può sposare lady
Rowena, pupilla di Cedric, deciso a
maritarla soltanto a un Sassone fedele ai
suoi principi. Nella storia intervengono
vari personaggi. L'ebreo Isacco di York e la
figlia Rebecca aiutano Ivanhoe quando si
trova in difficoltà, mentre Robin Hood, con
i suoi uomini, fuorilegge abitanti la
foresta di Sherwood, che rifiutano di pagare
le tasse, non esitano a dare man forte al
cavaliere, circondato da nemici. Tra questi
è accanito il templare Brian de
Bois-Guilbert che, alla fine, viene ucciso
in duello. La storia, naturalmente, è a
lieto fine: Ivanhoe e Rowena si sposano, il
misterioso personaggio che ogni tanto
compare, denominato "il cavaliere nero",
non è altri che re Riccardo, tornato a
riportare il buon governo. La giustizia e
l'amore trionfano.
Come
si può notare, il romanzo è impostato sulla
contrapposizione di
buoni perseguitati e di
cattivi
persecutori, i quali troveranno il giusto
castigo. L'amore, a lungo mortificato e
quasi annullato dalla prepotenza dei
"cattivi", alla fine si risolve in nozze
benedette.
Alessandro Manzoni comprende le enormi
potenzialità letterarie contenute nel
romanzo. In Italia questo esperimento non è
ancora compiuto. Circola solamente il
romanzo epistolare di Ugo Foscolo Ultime
lettere di Jacopo Ortis (1817), dal
carattere parzialmente autobiografico, dove
al tema dell'amore si unisce quello della
patria asservita allo straniero. Jacopo,
deluso nelle speranze di sposare l'amata e
deluso perché con il trattato di Campoformio
del 1797 la Repubblica di Venezia è caduta
in mano agli Austriaci, si uccide.
- L'Europa e
il romanzo
Nell'Europa
del primo Ottocento, invece, il romanzo si è
affermato pienamente da circa un secolo.
Compare in Francia nel 1678 con la
commovente vicenda della Princesse de
Clèves narrata da madame de La Fayette:
ambientato a metà del Sedicesimo secolo,
alla corte di Enrico II, è la storia di una
passione tenuta a freno dal senso dell'onore
e del dovere.
Avventura e ricerca filosofica sono abbinate
nel romanzo di Voltaire Candide(1759)
in cui un giovane, dopo mille peripezie,
sposa la sua amata, ormai vecchia e brutta,
ma scopre anche il senso della vita.
Nei Promessi Sposi le
partenze i viaggi, le separazioni, le
ricerche, gli incontri fortuiti sono
piuttosto frequenti e, alla base, sta il
meccanismo tipico dei romanzi d'avventura.
D'altra parte il filosofo francese
Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo La
nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema
dell'amore contrastato dal senso del dovere,
costruendo un modello insuperabile di eroina
romantica nella figura di Giulia, figlia
obbediente e moglie fedele al quale, fatte
le debite riserve, potremmo accostare quello
di Lucia. Il tema del viaggio, del
naufragio, delle difficoltà a cui l'uomo,
con la scienza, sa porre rimedio, tornano in
Robinson Crusoe (1719) dell'inglese
Daniel De Foe, mentre il motivo
dell'ingiustizia e della malvagità del
nobile che si accanisce su un giovane povero
emerge in Tom Jones (1749) di Henry
Fielding.
Inutile dire che tutti questi
romanzi si risolvono con un lieto fine:
l'intrigo viene smascherato e il
perseguitato riceve la giusta dose di
ricompensa, proprio come nei Promessi
Sposi, benché nel romanzo manzoniano
esista una componente che manca in tutti gli
altri: la visione
religiosa. Abbiamo dovuto anticipare
questa osservazione per evitare false
interpretazioni. Nel Settecento, all'interno
del filone "gotico", compaiono romanzi
"neri", in cui gli eroi si muovono su sfondi
tenebrosi di castelli popolati da forze
misteriose e sovrumane, ostacolati da
malvagi che evocano potenze ultraterrene: è
questo il contenuto del Castello di
Otranto (1764) dell'inglese Horace
Walpole, in cui emerge la figura della
fanciulla che, a causa della persecuzione
del nobile prevaricatore, non può sposare il
giovane che ama. La monaca (1796) del
francese Dénis Diderot, narra le peripezie
di una giovane che entra in convento,
forzata dalla famiglia: non possiamo non
pensare alla celebre vicenda manzoniana
della monaca di Monza, anche se la storia di
questo personaggio è recuperata dalle
cronache secentesche del Ripamonti. Il
monaco (1796 ), di Mattew Gregory Lewis,
rappresenta il tipico esempio di romanzo
gotico in cui orrore, erotismo, suspense e
violenza si mescolano, avvincendo il
lettore. Non dimentichiamo che anche nei
Promessi Sposi non mancano rapimenti e
colpi di scena, compaiono personaggi che
potrebbero ben essere definiti "oppressori".
Il grande scrittore tedesco
Wolfgang Goethe (1739-1842) suggerisce al
Foscolo il tema dell'amore infelice nelle
Ultime lettere di Jacopo Ortis con il
romanzo I dolori del giovane Werther
(1774), che racconta la storia di un amore
impossibile per la bella Carlotta. Tuttavia
nell'altro suo romanzo, Gli anni di
apprendistato di Wilhelm Meister (1795)
offre un valido spunto anche per Manzoni.
L'analisi goethiana della formazione del
giovane, infatti, non è estranea
all'ideazione del personaggio di Renzo che,
nel corso del romanzo, matura e arricchisce
la sua esperienza, sino a consolidare una
personalità sicura.
- Fermo e
Lucia
La
prima stesura dei Promessi Sposi è
molto diversa dall'edizione definitiva, che
vedrà la luce quasi vent'anni dopo, nel
1840. L'autore, nell'arco di due anni scrive
il romanzo in quattro tomi, intitolandolo
provvisoriamente Fermo e Lucia, dal
nome dei protagonisti.
La composizione inizia nel 1821 e termina
nel 1823, con alcune interruzioni. Le sue
fonti sono quelle già citate: oltre ai
romanzi che circolano in quegli anni e che
vengono pubblicati intorno al 1820, come
quello di Walter Scott, il Manzoni attinge
alle cronache e alle opere di storiografia
del Seicento: ricordiamo: De peste
Mediolani quae fuit anno MDCXXX (La
peste che scoppiò a Milano nel 1630), e
Historiae Patriae (Le storie della
patria, in 23 libri) di Giuseppe Ripamonti
(1573-1643), il Raguaglio di
Alessandro Tadino (1580-1661), medico
milanese che diagnosticò la peste e le sue
cause, nonché le già citate opere
dell'economista Melchiorre Gioia,
contemporaneo del Manzoni.
La novità che balza subito
all'occhio è il fatto che sono protagonisti
personaggi di origine umile e
l'ambientazione è di tipo rurale. Niente
cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e
duelli all'ultimo sangue, ma solo situazioni
che, trasposte in epoche diverse, potrebbero
vedere coinvolto chiunque. Certo non mancano
vicende eccezionali, come la peste, la
guerra, il rapimento della protagonista, una
clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le
presenta con estrema verosimiglianza.
Infatti crede nella necessità di rifondere,
nel romanzo, il vero
storico e l'invenzione
poetica: lo scrittore pensa che la
letteratura, per avere carattere educativo,
non può rinunciare a proporsi come momento
di conoscenza e stimolo alla riflessione.
Perciò deve prospettare personaggi, vicende,
situazioni, considerazioni, scene, dialoghi
e soliloqui in cui il lettore si possa
riconoscere.
Come mai la scelta degli
umili come
protagonisti? E perché proprio un romanzo
storico? Sicuramente non è estranea la
concezione cristiana del Manzoni e la sua
opinione che la storia sia fatta dalla gente
comune, dalla massa popolare, piuttosto che
dalle élites al potere. Naturalmente si
tratta di una narrazione, nella quale una
vicenda d'amore è inserita in un contesto
illustrato con precisione e sul quale
l'autore si documenta con cura puntigliosa.
A questo punto torniamo ancora una volta al
felice binomio di verità e fantasia che dà
al romanzo realismo e universalità.
Spieghiamoci meglio:
l'ambientazione rigorosamente studiata e i
tipi umani scelti dall'autore rimandano alla
realtà. I protagonisti non sono creature
eccezionali, ma gente semplice come se ne
trova ovunque e in ogni epoca. I personaggi
"storici", ossia quelli ricavati dalle
cronache, sono riprodotti senza che mai
siano falsate (o "romanzate") le fonti
storiche, ma proprio questi personaggi
acquistano una suggestione straordinaria
quando l'autore cerca di illuminare la loro
psicologia e immagina ciò che le cronache
non possono dire, ossia il loro dramma
interiore, il fastello di irrequietezze, di
paure, di contraddizioni, le riflessioni, i
compromessi che li portano a scelte e
decisioni sofferte. L'autore li ricostruisce
dall'interno, inventa il processo
spirituale che li ha resi quelli che
tramandano gli storici. Per questa
operazione letteraria deve fare appello
alla sua arte poetica, alla sua sensibilità,
e, perché no?, anche alla sua esperienza
personale: chi potrebbe negare che, per
ricostruire la faticosa conversione
dell'innominato, Manzoni non abbia ripensato
alla "sua" conversione?
Un'altra domanda: perché proprio il
Seicento? Si può rispondere, ricordando il
patriottismo profondo del Manzoni. Nel
secolo della dominazione spagnola sul
Milanese, egli ravvisa molte analogie con il
suo tempo, in cui la Lombardia è sottomessa
agli Austriaci e ancora compaiono
prevaricazioni e violenze. Come a quei tempi
gli umili erano in balìa delle forze
politiche, così ora i diritti dei cittadini
sono violati e le loro giuste esigenze di
libertà sono soffocate. La vicenda è
ambientata nel territorio del Ducato di
Milano e dura per due anni, dal 1628 al
1630. Protagonisti sono due giovani
borghigiani che non possono sposarsi perché
il signorotto della zona si è incapricciato
della promessa sposa. Dopo lunghe peripezie
(i fidanzati devono separarsi ma si
ritrovano, poi, in circostanze drammatiche)
le nozze vengono celebrate.
Il
romanzo non soddisfa affatto l'autore che lo
dà in lettura agli amici Visconti e Fauriel.
Quest'ultimo gli suggerisce alcuni tagli
sostanziali, per modificare una struttura
poco equilibrata, in alcune parti prolissa e
fuorviante.
A questo punto, però, l'autore
comprende che non si tratta soltanto di
scrivere una bella storia capitata in
passato, di comporre un romanzo che sappia
divertire e intrattenere il lettore: sente
dentro di sé l'urgenza di trasmettere un
messaggio universale e di dare alla sua
opera quella funzione educativa, già
obiettivo dei suoi capolavori precedenti.
Occorre, quindi, guadagnare in sobrietà e
chiarezza, dando ai personaggi quel
carattere particolare che consente di farsi
portavoce di un'esperienza di vita.
Nel 1825 i quattro volumi sono
ridotti a tre, dall'intreccio più agile e
organico. Nel 1827 ecco l'edizione (detta "ventisettana")
dei Promessi Sposi. Storia milanese del
secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro
Manzoni: duemila copie sono esaurite
nell'arco di due mesi. Già il titolo è
notevolmente suggestivo: l'autore, infatti,
si presenta nelle vesti di scopritore
e rifacitore, nel milanese in uso ai suoi
tempi, di un antico manoscritto secentesco,
composto da un misterioso autore Anonimo:
non è un espediente molto originale, se
pensiamo che già Ludovico Ariosto l'ha usato
per l'Orlando furioso (1532) e Miguel
de Cervantes se ne è servito per il Don
Chisciotte (1605-16015).
- La storia
Vediamo
ora, in sintesi, la storia che inizia la
sera del 7 novembre 1628.
Don
Abbondio, parroco di un paesino sulle
colline presso Lecco, viene minacciato dai
bravi di don Rodrigo, affinché non celebri
il matrimonio fra Renzo e Lucia. I
malviventi, al servizio del signorotto,
sanno incutere una gran paura al pavido
curato che, con mille pretesti, l'indomani
convince lo sposo a rimandare la cerimonia.
I due giovani cercano una soluzione: Renzo
si reca a Lecco per chiedere aiuto
all'avvocato Azzecca-garbugli, Lucia confida
nell'intervento di padre Cristoforo, un
cappuccino che non esita ad affrontare don
Rodrigo in persona.
Ma questi è irremovibile; anzi,
progetta il rapimento della ragazza. I
fidanzati devono fuggire la notte del 10
novembre. Qui la narrazione si biforca: la
storia di Lucia porta il lettore in un
convento di Monza. Qui la ragazza trova
protezione presso una potente monaca, di cui
l'autore ci racconta la storia.
Successivamente Lucia viene rapita dal
convento, con la connivenza della suora, e
portata in un castello sul confine con il
territorio veneziano; è in quest'occasione
che fa un voto alla Madonna: rinunciare a
Renzo in cambio della salvezza e della
libertà. Lì il rapitore, l'innominato, un
potente malfattore che ha voluto assecondare
don Rodrigo, commosso dalla ragazza, decide
di cambiare vita: già da tempo si sentiva
stanco di commettere delitti e violenze.
Alla "conversione" lo aiutano anche le buone
parole dell'arcivescovo di Milano Federigo
Borromeo. Lucia, liberata, trova ospitalità
presso la nobile famiglia milanese di don
Ferrante e donna Prassede.
Frattanto Renzo giunge a Milano e
si fa coinvolgere nei tumulti scoppiati in
seguito alla scarsità di pane. A stento
sfugge alla polizia, che lo crede un
sobillatore, e raggiunge il cugino Bortolo a
Bergamo, dove lavora in un filatoio, sotto
falso nome. Trascorre così un anno. Nel 1630
le truppe imperiali dei lanzichenecchi
scendono in Italia, attraversano il ducato
di Milano, per andare ad occupare Mantova:
infatti è in corso la guerra dei trent'anni,
che coinvolge molti Stati europei. Francia e
Spagna sono in lotta per il controllo del
ducato di Mantova e del Monferrato. Le
truppe diffondono la peste che falcia
migliaia di vite umane e mette in ginocchio
la ricca e prosperosa Milano. Renzo si
ammala, ma guarisce e decide di tornare in
cerca di Lucia. La trova al lazzeretto,
un centro di raccolta degli appestati di
Milano: anche lei ha preso la peste ma l'ha
superata ed ora è convalescente e assiste
una ricca vedova di Milano.
Nel lazzeretto si trova
anche don Rodrigo è malato, ma la sua
situazione non lascia sperare, ed è stato
oltretutto reso folle dalla malattia e dal
tradimento del suo fedele Griso. Non
lasciano sperare neanche le condizioni di
Fra' Cristoforo che con totale abnegazione
assiste i malati: a lui si rivolge Renzo per
la questione del voto, che viene cancellato
perché non valido in quanto fatto in
condizione di pericolo. Ottenuta la nuova
promessa di Lucia, Renzo torna al paesello
per preparare le nozze: un violento
acquazzone fa terminare il contagio. I due
giovani si riuniscono al paesello e,
finalmente, don Abbondio celebra le nozze.
Risolti tutti i problemi, compresa la
pendenza con la giustizia relativo al
tumulto di San Martino, la famigliola si
trasferisce a Bergamo, dove Renzo impianta
un filatoio con il cugino. La storia finisce
serenamente.
Che
cosa è cambiato dal Fermo e Lucia ai
Promessi Sposi? Qualcosa di molto
sostanziale. Non solo, infatti, i personaggi
modificano il loro nome (Fermo Spolino
diventa Renzo Tramaglino, filatore di
seta, come ricorda il cognome; Lucia Zarella
si chiama Lucia Mondella; fra
Galdino, il cappuccino che protegge i
fidanzati, assume il nome di padre
Cristoforo; il Conte del Sagrato riceve
la misteriosa denominazione dell'innominato,
Marianna De Leyva diventa l 'anonima
monaca di Monza), ma sono introdotti
tagli decisi alla narrazione. Le vicende dei
due personaggi storici per eccellenza
(perché sono il frutto di una pignola
consultazione delle cronache del tempo),
ossia l'innominato e la monaca di
Monza, sono sfumate e ridotte. Di queste
figure il lettore non conosce tutti gli
antefatti, ma soltanto le notizie
fondamentali: in compenso è approfondito lo
scandaglio psicologico, a tutto vantaggio
della poeticità e suggestione della loro
personalità. Infatti la storia della
fanciulla monacata per forza nel Fermo e
Lucia è così vasta da costituire davvero
"un romanzo nel romanzo", che spiazza il
lettore e gli fa dimenticare il filo
centrale della narrazione. Inoltre, subito
dopo l'interminabile odissea della monaca,
ecco apparire il tenebroso Conte del
Sagrato, anche lui con una lunghissima
biografia alle spalle, vero excursus
in cui il lettore si immerge nel mondo
violento dei sicari secenteschi. Però ne
deriva un grosso inconveniente: quando, dopo
pagine e pagine, ricompare il povero Fermo,
che poi è il protagonista, sembra quasi un
intruso piovuto non si sa da dove. A ciò si
aggiunge, come osservano gli amici di
Manzoni, che emerge un eccessivo
compiacimento per gli aspetti truculenti,
torbidi, violenti dei personaggi. Per
esempio l'autore illustra con esagerato
realismo l'agguato del Conte a un nemico sul
sagrato della chiesa, oppure si dilunga nel
descrivere l'assassinio di cui la monaca si
rende complice tra le mura del convento.
Tacendo i torbidi retroscena della
monaca e lasciando intuire solamente il
passato dell'innominato, il romanzo acquista
maggiore eleganza e omogeneità stilistica,
mentre i personaggi risultano più
misteriosi, interiormente ricchi,
sfaccettati, verosimili e forti di una
incredibile capacità di ricreare la
suspense.
Solo don Rodrigo rimane immutato,
anzi, risulta peggiore. Sembra che Manzoni
voglia davvero fare di lui l'incarnazione
del male di tutto un secolo. Nel Fermo e
Lucia, infatti, egli è scosso da una
vera passione per la ragazza e vive una
tremenda crisi di gelosia nei confronti di
Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce
da un sentimento che potrebbe, se non
giustificarla, renderla umanamente
comprensibile. Nella redazione successiva,
invece, gli ostacoli che frappone alle nozze
nascono da una futile scommessa stipulata
con il cugino Attilio, superficiale e
prepotente come lui.
Alcune scene ad effetto,
come la morte di don Rodrigo, che impazzisce
per il contagio della peste e si getta in
una furibonda cavalcata nel lazzaretto,
vengono riequilibrate, smorzate nella
suspense, a tutto vantaggio dell'armonia
della narrazione.
Anche dal punto di vista
strutturale I Promessi Sposi
risultano in parte modificati, con lo
spostamento di alcuni blocchi narrativi: i
due episodi della monaca di Monza e
dell'innominato vengono distanziati
con l'inserimento delle avventure di Renzo
nei tumulti di Milano.
Nell'edizione del Ventisette il
Manzoni attua anche tagli decisi nelle parti
più specificatamente metodologiche e
storiografiche: abolisce la dissertazione
sul problema della lingua del romanzo e
toglie tutta la documentazione dei
processi agli untori (presunti
responsabili della diffusione della peste a
Milano) che ha rinvenuto negli atti
riportati dalle cronache milanesi. Questa
documentazione, peraltro di grande
interesse, verrà enucleata e rielaborata
nella Storia della colonna infame,
pubblicata nel 1842 in appendice all'ultima
e definitiva edizione del romanzo.
Non mancano, infine, le aggiunte:
poche, ma utili per infondere al romanzo
quel tono di realismo, arricchito da un
umorismo sottile che tempera la drammaticità
di alcuni episodi. Per esempio l'autore
inventa il soliloquio di Renzo che,
in fuga verso Bergamo, sta cercando un
facile guado dell'Adda. È un capolavoro di
introspezione psicologica: chi non ha mai
parlato da solo, in maniera concitata e
aggressiva, quando ha rimuginato fra sé un
torto subito?
Uno dei primi entusiasti recensori
del romanzo è Wolfgang Goethe, ma seguono
rapidamente giudizi molto positivi di
scrittori francesi come Stendhal
(1783-1842), Alphonse de Lamartine e di
autori che languiscono nelle carceri
austriache, come Silvio Pellico («quanto
consola il vedere in Manzoni il cristiano
senza pusillanimità, senza servilità, senza
transazioni co' pregiudizi dell'ignoranza»,
scrive dallo Spielberg nel 1829).
Gli anni compresi tra il 1827 e il
1840 sono dedicati a una attenta revisione
linguistica dell'opera. L'autore è da tempo
interessato alla questione della lingua ,
che in Italia è dibattuta sin dal XIII
secolo: se ne occupa Dante Alighieri
(1265-1321) nel De vulgari eloquentia,
se ne occupano importanti trattatisti del
Cinquecento. Infatti gli Italiani, divisi
politicamente, si sentono uniti nella
cultura e nell'Ottocento aspirano a una
lingua letteraria che sia nazionale. La
tradizione addita nel fiorentino l'idioma
più raffinato della penisola.
Perciò il Manzoni, che vuole fare
del suo romanzo un'opera italiana, e non
lombarda, mobilita la famiglia, per
trasferirsi a Firenze qualche tempo. Ha
bisogno di "orecchiare" il toscano parlato
dalle classi colte, per frequenti e
determinanti correzioni al linguaggio della
narrazione.
- L'edizione
del 1840 e il linguaggio
Tredici
persone, tra cui cinque domestici, stipate
in due carrozze, nel luglio 1827
intraprendono il viaggio per quella che il
Manzoni chiama una "risciacquatura in acqua
d'Arno".
Nel capoluogo toscano Manzoni riceve
un'accoglienza festosa, mentre lo stesso
granduca Leopoldo II lo convoca a corte.
Gli intellettuali che si raccolgono
nel Gabinetto scientifico-letterario di
Giampiero Viesseux vedono nel Manzoni il
rappresentante più accreditato del
Romanticismo nostrano.
Il suo romanzo non è l'unico nel
panorama italiano, poiché negli anni di
pubblicazione dei Promessi Sposi sono
dati alle stampe altri romanzi storici,
scritti sul modello delle opere di Walter
Scott: proprio a Firenze escono, di
Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873),
La battaglia di Benevento, L'assedio di
Firenze e Beatrice Cenci.
Ricordiamo anche Marco Visconti, di
Tommaso Grossi (1790-1853), Ettore
Fieramosca, di Cesare D'Azeglio,
Margherita Pusterla di Cesare Cantù
(1804-1895).
Eppure nessuno si sognerebbe di
negare il primato ai Promessi Sposi.
A
Firenze Alessandro Manzoni si lega
d'amicizia con Giuseppe Giusti e Gino
Capponi, mentre conosce, senza trarne grande
piacere, Giacomo Leopardi (1798-1837) e
Giambattista Niccolini (1782-1861). Conosce
anche una fiorentina "verace", Emilia Luti,
che lo segue a Milano, come istitutrice
della nipotina Alessandra D'Azeglio, diventa
la sua più fedele collaboratrice nel
faticoso lavoro di revisione linguistica che
porterà all'edizione del 1840. Quando uscirà
l'edizione illustrata dei Promessi Sposi,
il Manzoni gliene regalerà una copia con
questa dedica: «Madamigella Emilia Luti
gradisca questi cenci da lei risciacquati in
Arno, che Le offre, con affettuosa
riconoscenza, l'autore» (da Citati,
Immagini di Alessandro Manzoni, pag.
120).
Fermo restando che nella Quarantana
rimane inalterata la trama e non sono
affatto modificati i personaggi, vediamo di
mettere a punto in che cosa consiste questa
revisione linguistica.
Nel Fermo e Lucia il Manzoni ha usato
una lingua derivata dalla sua abitudine a
scrivere in poesie e in parte anche
tradotta dal francese. Ne è derivato
(sono parole sue!) un «composto indigesto di
frasi un po' lombarde, un po' toscane, un
po' francesi, un po' anche latine» cui,
nella Ventisettana, viene sostituito il
toscano letterario, con l'aiuto del
Vocabolario milanese-italiano di
Francesco Cherubini, il Dizionario
francese-italiano e il Vocabolario
della Crusca, nell'edizione 1729-38. È
un toscano libresco che non soddisfa
l'autore, il quale crede nel romanzo come
genere letterario che si orienta a un
lettore dinamico, calato nella sua epoca,
operativo, incisivo nella società e non
certo "topo di biblioteca". Il viaggio a
Firenze e la collaborazione della Luti hanno
proprio lo scopo di "insegnare" al Manzoni
l'uso del fiorentino "borghese", parlato
dalle persone colte, con le sue sfumature
ironiche, la sua spigliatezza, la sua
armonia e musicalità. L'autore vuole
superare il divario tra lingua parlata e
lingua scritta. Non è un capriccio, ma sente
che è in gioco un elemento importante circa
il futuro del popolo italiano: «per nostra
sventura» aveva scritto anni prima al suo
amico Fauriel (in una lettera del 9
febbraio1806) «lo stato dell'Italia divisa
in frammenti, la pigrizia e l'ignoranza
quasi generale hanno porto tanta distanza
tra la lingua parlata e la scritta che
questa può dirsi quasi morta». Si tratta di
portare a dignità letteraria la lingua
d'uso.
Il suo obiettivo, si è detto, è di
raggiungere un pubblico vasto, di non
elevata cultura ma sinceramente interessato.
D'altra parte è proprio per questo pubblico
che ha scritto il romanzo, genere letterario
tenuto in scarsa considerazione dagli
intellettuali italiani che, prima dei
Promessi Sposi, ancora lo ritengono
proprio di persone poco acculturate.
L'opera del Manzoni mostra
l'assurdità di questo pregiudizio, ma
l'autore deve compiere il grosso sforzo di
aprire una strada, anche sul piano del
linguaggio, poiché deve inventarlo.
Dopo tredici anni di
rimaneggiamenti, finalmente l'editore
Redaelli di Milano può far uscire I
Promessi Sposi a dispense, nella sua
redazione definitiva. La pubblicazione si
conclude nel 1842, riscuotendo un grande
successo grazie, ovviamente, anche alla
forma linguistica, in cui Manzoni riesce a
superare la discrepanza tra lingua scritta e
lingua parlata e appronta lo strumento
espressivo tanto atteso dai Romantici per
una letteratura
nazional-popolare.
Non di rado l'autore dialoga con il
pubblico, chiamandolo «i miei venticinque
lettori» o interrogandolo giovialmente su
qualche problema, presentato in modo
ironico. È un modo di costruire un rapporto
immediato, che contribuisce a sottolineare
l'intento educativo del romanzo, finalmente
riconosciuto nella sua dignità di genere
letterario a tutti gli effetti.
I critici sottolineano la vivacità
dei dialoghi, la pluralità dei registri, che
passano dal tono amichevole e colloquiale a
quello solenne e persino oratorio (per
esempio del cardinal Borromeo).
Manzoni
sa introdurre una garbata
ironia laddove
la tensione emotiva si fa troppo opprimente,
ma sa anche assumere la severità dello
storico che riferisce avvenimenti con
l'indicazione delle fonti. Non meno
importante è la capacità mimetica
dell'autore che sa mettere in bocca ai
personaggi esattamente le parole e il tono
giusto, quasi suggerendo al lettore anche
l'intuizione del gesto che lo accompagna.
Quando il conte, zio di don Rodrigo, un
"pezzo grosso" del Consiglio segreto,
accoglie nel suo studio il padre
provinciale, responsabile dei cappuccini del
ducato, per decidere la sorte di padre
Cristoforo, il Manzoni dice che «il
magnifico signore fece sedere il padre molto
reverendo» (cap. XVIII) e l'ampollosità
della frase sottolinea la cerimoniosità dei
due interlocutori.
Quando don Ferrante, nobile e ricco
intellettuale milanese che ospita Lucia,
viene presentato al lettore, l'autore
sottolinea, circa i rapporti con la moglie
impicciona : «Che, in tutte le cose, la
signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora;
ma lui servo, no» (cap. XXVII),
sottolineando, con la vivacità della
negazione, la dimensione patetica in cui si
inserisce il personaggio.
E così, tanto per sottolineare un
toscanismo, è da notare questa espressione:
alla domanda di Lucia se rivelerà a padre
Cristoforo il progetto di forzare don
Abbondio con il matrimonio "a sorpresa", «-
Le zucche! -» (cap. VII), risponde Renzo,
frase che equivale a un "Fossi matto!", ma
ha sicuramente un'incisività, una pregnanza
e un'arguzia molto maggiori.
La lingua manzoniana sa adattarsi
alla psicologia dei personaggi: sa farsi
allusiva laddove due "politiconi"
organizzano una piccola congiura; sa
diventare appassionata ma non priva di
humour quando narra le peripezie di
Renzo in fuga; sa assumere il tono severo di
chi, senza giudicare, non condivide scelte
educative improntate all'orgoglio e
all'egoismo; sa rispettare talune
caratteristiche del personaggio, come la
reticenza di Lucia a corrispondere
verbalmente al fidanzato; sa evocare
l'allucinazione dell'incubo, nel sogno di
don Rodrigo appestato, sa trasmettere il
sollievo di chi ha finalmente ritrovato chi
cercava; sa riportare con lucidità cronache
del passato; sa descrivere, con pochi tratti
sobri e aggettivi "mirati", paesaggi che
sono lo specchio dello stato d'animo dei
personaggi.
È necessario sottolineare
l'importante scelta artistica che sta alla
base di questa "nuova" lingua manzoniana.
Prima dei Promessi Sposi il
linguaggio veniva modulato secondo
l'imitazione dei classici, sulla base della
loro autorità. Il romanzo, invece,
propone nella redazione definitiva una
lingua viva che ha, però, dignità
letteraria. Il criterio che il Manzoni segue
per coniare questa lingua è quello, per
usare le sue parole, dello «scrivere come il
parlare», per la realizzazione di una prosa
duttile, comunicativa, attuale e...
italiana. Sì, perché nelle intenzioni più
riposte del "patriota" Manzoni c'è anche
questa esigenza, che costituisce un
significativo contributo nel processo di
unificazione nazionale. Se con la "Ventisettana"
lo scrittore presenta un romanzo indirizzato
al pubblico milanese, con la "Quarantana"
realizza l'ambizioso progetto di parlare a
un pubblico italiano.
- La
struttura
Potremmo
definire "a cannocchiale" la struttura dei
Promessi Sposi, per l'ampliamento
della prospettive che, dai primi capitoli
chiusi nell'ambito ristretto del paese dei
protagonisti, coinvolge spazi sempre più
ampi e fatti storici di portata europea.
I primi otto
capitoli (I-VIII) costituiscono la
sezione borghigiana, perché luogo
dell'azione è il borgo
dove vivono Renzo e Lucia. Qui la storia
prende inizio con la mancata celebrazione
delle nozze, qui risiedono i personaggi
d'invenzione, che sono presenti per tutto lo
svolgimento della storia: i promessi sposi,
la madre della ragazza, Agnese, il parroco
del paese, don Abbondio e, naturalmente, il
persecutore don Rodrigo, che vive in un
palazzotto poco distante.
Cronologicamente la sezione
borghigiana presenta una narrazione molto
lenta e un numero assai elevato di fatti,
concentrati in quattro giorni, dal 7 al 10
novembre 1628.
La seconda sezione
e la terza sezione
del romanzo comprendono rispettivamente i
capitoli IX-XVII e XVIII-XXVI. Le storie dei
fidanzati divergono: Lucia viene a contatto
con i personaggi "storici" (la monaca di
Monza, l'innominato, il cardinal Borromeo,
dopo la sua liberazione). La ragazza svolge,
del tutto inconsapevolmente, il ruolo di
strumento della Provvidenza, perché ha una
parte significativa nella conversione
dell'innominato. Le scene che la vedono
protagonista si svolgono in spazi chiusi (il
convento, il castello, la casa del sarto
dove viene ospitata dopo la liberazione). Il
tempo in cui vive le sue avventure è
decisamente indeterminato.
Renzo, invece, si muove in spazi
aperti: Milano, la campagna lombarda,
l'Adda, il territorio di Bergamo. Egli
rimane coinvolto nei tumulti contro il
carovita nel capoluogo lombardo, dove,
nell'arco di due giorni (11 e 12 novembre)
partecipa alla rivolta, si ubriaca, litiga
con un ospite, si fa credere un rivoltoso,
cade nella trappola di una spia, si fa
arrestare, ma riesce a scappare. Il 13
novembre eccolo libero in territorio
bergamasco, alla volta del cugino Bortolo,
presso cui si ferma una quantità di tempo
non specificata.
La quarta
e quinta sezione
sono costituite rispettivamente dai capitoli
XXVII-XXXII e XXXIII-XXXVIII. Vi sono
descritte, seguendo le cronache del tempo,
senza risparmiare dettagli e particolari, la
carestia nel Milanese, la guerra per il
possesso di Mantova (episodio "italiano"
della guerra dei trent'anni che insanguina
l'Europa) e la peste che i soldati imperiali
(i famigerati lanzichenecchi) diffondono nel
ducato e nelle zone circostanti.
Renzo guarisce dalla malattia e
torna a Milano in cerca di Lucia. Dopo che
l'ha trovata , si reca al paese. I loro
destini si ricongiungono e finalmente ecco
celebrate le nozze. I personaggi essenziali
alla storia ci sono tutti: i fidanzati, in
primo luogo, la madre Agnese e poi don
Abbondio.
Il respiro narrativo si fa ampio e
compare anche una lunga ellissi (infatti non
viene raccontato nulla di ciò che accade ai
nostri eroi nell'anno 1629) che fa scorrere
velocemente il racconto. Però le parti in
cui vengono illustrate le cause dei tre
flagelli sono molto dense e asciutte, veri
resoconti storiografici che appesantiscono
il ritmo e hanno indotto il critico e
filosofo Benedetto Croce (1866-1952) a
considerarle pagine assolutamente prive di
poesia, se non addirittura superflue (il
critico Benedetto Croce, nel saggio
Alessandro Manzoni. Saggi e discussioni,
Bari, Laterza, 1952, nega decisamente il
carattere poetico del romanzo, sostenendo
che troppo rigido e intransigente è il
moralismo manzoniano, mentre lo stile
indulge all'oratoria e le parti storiche
risultano pesanti).
Potremmo aggiungere che la
struttura a cannocchiale implica anche una
struttura "ad anello", poiché la storia
parte dal borgo, si snoda lungo una
serie di direttrici spaziali che coinvolgono
l'intero ducato di Milano, ma ritorna al
borgo‚ dove le nozze vengono finalmente
celebrate, con due anni di ritardo sul
programma iniziale.
Proviamo a visualizzare il percorso:
nozze mancate
al BORGO |
Renzo: Milano
e poi Bergamo |
Guerra -
Carestia
Peste |
ritorno al BORGO |
I-VIII |
IX-XVII |
XVIII-XXXVI |
XXXVII-XXXVIII |
Lucia a Monza |
Lucia al castello
dell'innominato |
Lucia a Milano
e al lazzaretto |
nozze al BORGO |
Come
si può notare l'intreccio‚ (ossia la
disposizione degli avvenimenti scelta
dall'autore) è piuttosto complesso, perché
tiene conto della necessità di elaborare
flash-back che
illustrino al lettore alcuni antefatti.
Perciò non sempre coincide con la naturale
sequenza dei fatti, che si chiama
fabula. Lo
vediamo, ad esempio, nei punti in cui
l'autore racconta la vita di alcuni
personaggi. Nel IV capitolo viene illustrata
la giovinezza di padre Cristoforo e un
tragico episodio, fondamentali per
comprenderne il carattere e le scelte
importanti che stanno alla base del suo
atteggiamento in difesa degli umili. Allo
stesso modo due capitoli (il X e l'XI)
raccontano la lunga serie di maneggi che
riescono a costringere Gertrude alla
clausura nel convento di Monza; la storia
dell'innominato viene sintetizzata
(cap. XIX) per meglio illustrare la portata
della sua "conversione", mentre la vita del
cardinal Borromeo viene proposta (cap. XXII)
quasi come il modello di comportamento
cristiano. Si aggiungono le digressioni
circa le condizioni del Milanese nel
Seicento, la situazione sociale, le classi e
il sistema di governo. Ancora la narrazione
viene interrotta per spiegare la causa dei
tumulti per il caro-pane, la causa della
calata dei lanzichenecchi, il diffondersi
della peste tra l'ignoranza, l'incompetenza
e la superstizione sia della popolazione che
degli addetti alla tutela della salute
pubblica.
Nei confronti della vicenda
l'autore si propone come narratore
onnisciente,
ossia al di sopra della storia, già al
corrente di "come andrà a finire" e quindi
in grado di formulare giudizi,
sdrammatizzare con toni pacati, intervenire
ironizzando sulle reazioni emotive dei
personaggi. La sua è una
focalizzazione zero,
in quanto, essendo al di fuori degli
avvenimenti, e osservandoli criticamente,
come un regista che dirige l'allestimento di
una scena, non assume il punto di vista di
alcun personaggio, ma valuta con
imparzialità.
Talvolta l'autore interviene
direttamente, apostrofando il pubblico:
«Pensino ora i miei venticinque lettori...»
(cap. I) oppure esprimendo un chiaro
giudizio morale: «Il principe (non ci regge
il cuore di dargli in questo momento il
titolo di padre)...» (cap. X); o ancora come
quando introduce l'ironia (che
corrisponde a un giudizio, pur sfumato e
temperato) per sottolineare la denuncia di
Agnese all'arcivescovo delle scuse addotte
da don Abbondio per rimandare le nozze: «non
lasciò fuori il pretesto de' superiori che
lui aveva messo in campo (ah, Agnese!)» (
cap. XXIV).
Quella dell'autore però, non è
l'unica voce narrante
del romanzo: non dimentichiamo la finzione
del manoscritto. Infatti Manzoni immagina di
trascrivere un libro elaborato da un Anonimo
e, all'occasione, si trincera dietro le
responsabilità di quello.
Per esempio, quando non vuole
rivelare il nome dell'innominato (che, in
tal modo, risulta più misterioso e
suggestivo), dice, riferendosi anche alla
località in cui sorge il castello: «Tale è
la descrizione che l'anonimo fa del luogo:
del nome, nulla; anzi, per non metterci
sulla strada di scoprirlo, non dice niente
del viaggio di don Rodrigo...». Infatti il
signorotto sta recandosi dall'innominato per
chiedergli di rapire Lucia dal convento di
Monza.
Capita, però, che l'autore si cali
nei personaggi, assumendone il punto di
vista: non è la posizione prevalente, ma
ogni tanto succede che il narratore adotti
una focalizzazione interna. Lo notiamo nei
monologhi di Renzo in fuga: «Io fare il
diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un
fascio di lettere , io!...» (cap. XVII).
- Il sistema
dei personaggi
I rapporti fra
i personaggi si uniformano a quello che è lo
schema consolidato nel romanzo storico e nel
romanzo d'avventura: accanto all'eroe
(Renzo) compare l'antagonista (don Rodrigo)
e l'oggetto del
desiderio (Lucia) che li contrappone.
Ecco, poi, una folta schiera di sostenitori,
dell'una o dell'altra parte, i "buoni" e i
"cattivi". Tuttavia, il discorso si complica
perché la notevole capacità di penetrazione
psicologica del Manzoni impedisce ai
personaggi di assumere connotazioni nette,
definite, unilaterali: nessuno (salvo,
forse, don Rodrigo e il suo luogotenente, il
bravo Griso) è "completamente
cattivo", mentre nemmeno un sant'uomo come
il cardinal Federigo risulta perfetto: anche
lui, infatti, ha qualche difettuccio e
commette errori. Così troviamo dei "cattivi"
che si trasformano, come l'innominato
che assume, agli occhi della popolazione,
l'aspetto d'un santo energico, grande nel
bene come lo è stato nel male.
Analogamente la condotta di eroi
positivi come Renzo non va immune da errori
e da ambiguità (si ubriaca, parla a vànvera...),
mentre nel passato di un campione della
carità e del perdono come padre Cristoforo
campeggia... un omicidio.
Inoltre non è semplice stabilire
"da che parte stanno" alcuni
aiutanti,
perché la loro personalità si evolve nel
corso della storia. Tornando all'innominato,
notiamo che inizialmente è aiutante di don
Rodrigo (rapisce Lucia per lui!), ma poi,
ravvedutosi, non vede l'ora di liberare la
ragazza!
E la monaca di Monza? Comincia
schierandosi a difesa della sicurezza di
Lucia e poi, per cause di forza maggiore, si
fa complice del suo rapimento! Quanto a don
Abbondio, nonostante i suoi sforzi di essere
neutrale, di fatto sostiene gli squallidi
propositi di don Rodrigo.
Osserva questo schema:
EROE: Renzo |
ANTAGONISTA: don
Rodrigo |
OGGETTO DEL
DESIDERIO: Lucia |
Aiutanti
dell'Eroe |
Aiutanti
dell'Antagonista |
Padre Cristoforo,
Agnese
Perpetua, Bortolo, don Ferrante
donna Prassede, il sarto e sua
moglie, Federigo Borromeo,
l'innominato, ecc. |
Griso, conte
Attilio, Nibbio
l'innominato conte zio,
monaca di Monza , ecc |
Potremmo
comunque raggruppare i personaggi secondo le
schema
vittima-oppressore, anche questo
molto usato nel romanzo del Settecento e
dell'Ottocento: le azioni sono collegate
secondo la logica che regge tutto
l'intreccio dei Promessi Sposi: Renzo
e Lucia sono le
vittime, mentre Don Rodrigo l'oppressore.
I suoi "alleati" (innominato, cugino
Attilio, conte zio) con i bravi e tutti i
"parassiti" (Azzecca-garbugli, podestà di
Lecco) che siedono alla sua tavola, sono gli
aiutanti
dell'oppressore.
Invece figure come padre
Cristoforo, il cardinal Borromeo, Agnese e
persino l'energica Perpetua, governante di
don Abbondio, o gli amici al paese, come
Tonio e il fratello "tocco" Gervaso, possono
annoverarsi fra gli
aiutanti delle vittime. Renzo e
Lucia, infine, hanno anche dalla loro alcuni
personaggi che li ospitano, danno
protezione, lavoro, sicurezza, come il
cugino Bortolo che abita a Bergamo e la
coppia di nobili milanesi (don Ferrante e
donna Prassede, anche se molto a modo loro)
che accoglie Lucia dopo la sua liberazione.
Possiamo visualizzare quanto si è detto in
questo schema:
VITTIME |
Renzo |
Lucia |
OPPRESSORI |
Don Rodrigo |
Innominato |
AIUTANTI
DELL'OPPRESSORE |
Griso
Don Abbondio |
Nibbio
Monaca di Monza |
AIUTANTI
DELLE VITTIME |
Padre
Cristoforo
Tonio e Gervaso |
Cardinal
Borromeo
Agnese |
OSPITI
DELLE VITTIME |
Bortolo |
Don Ferrante
Donna Prassede |
I
personaggi, poi, possono essere
ulteriormente suddivisi in due categorie:
statici e
dinamici,
da intendere non solo nel senso che nel
corso della storia non mutano e restano
fedeli a se stessi nel corso del tempo,
ma anche della staticità o dinamicità
rispetto allo spazio, se cioè restano
fermi in un determinato luogo o sono portati
dalle vicende a decidere autonomamente di
spostarsi (in questo senso Lucia è statica
perché "viene spostata" contro la sua
volontà e diviene dinamica solo alla fine
quando decide insieme al marito di
abbandonare il paesello per andare a
Bergamo, ma anche qui con una buona dose di
staticità, perché in fondo segue il marito).
Sono
personaggi statici‚
(o piatti)
quelli che non modificano la propria
personalità nel corso della narrazione, come
don Abbondio, definito "eroe della paura" e
considerato da Luigi Pirandello (in Saggi,
Milano, Mondadori, 1939, pp. 153 e segg.)
veramente "umoristico". Egli, infatti,
proprio perché si comporta in una maniera
diversa da come si dovrebbe comportare un
normale parroco, non solamente diverte il
lettore, che sorride alle sue eccessive
paure, alla sua pavidità di coniglio, al suo
egocentrismo, alle sue ansie per la propria
tranquillità, alle meschinità messe in atto
per non compiere scomodi doveri, ma anche
riflette sulle proprie piccinerie: in
fondo don Abbondio è il personaggio nel
quale meglio si riflettono i difetti degli
uomini e, soprattutto, le paure e gli
egoismi dei mediocri.
Lucia
è un altro personaggio che rimane fedele a
se stessa. Il Manzoni ne fa, riguardo a
talune vicende, una specie di strumento
della Provvidenza Divina. La sua presenza al
castello dell'innominato, alcune parole che
dice impulsivamente, circa il perdono di
Dio, che viene concesso anche solo per
un'opera di misericordia, hanno un effetto
dirompente sul truce signore, in crisi di
identità e, ancora inconsciamente,
desideroso di mutar vita, stanco di
commettere violenze contro innocenti. Lucia,
con la sua umiltà, sembra veicolo della luce
della Grazia Divina, ma non tutti i
personaggi sanno accoglierla. Anche la
monaca di Monza, infatti, si affeziona alla
ragazza e si consola al pensiero di poterle
fare del bene, lei che conduce, benché
religiosa, un'esistenza colpevole. Tuttavia
non ha il coraggio di andare fino in fondo
nel suo sforzo di rinnovamento e, a
differenza dell'innominato, non riesce a far
tesoro del buon influsso che emana la
presenza della fanciulla.
Anche don
Rodrigo è un personaggio statico: lo
troviamo sempre nel suo palazzotto, dal
quale dirige le operazioni per far
capitolare Lucia; a un certo punto, vista la
sua impotenza, è costretto a spostarsi nel
castellaccio dell'innominato per chiedere
aiuto, e alla fine viene letteralmente
trascinato al lazzaretto, dove finisce la
sua miserabile esistenza: in questo senso lo
possiamo definire come il simbolo
dell'eterna staticità del male nella sua
essenza.
Ai personaggi statici (o
piatti), si
contrappongono i personaggi a tutto tondo‚
(o dinamici),
ossia quelli che si evolvono e cambiano nel
corso della narrazione, come l'innominato
oppure Renzo. Il dinamismo di Renzo non
riguarda soltanto la sua trasformazione da
giovane ingenuo in accorto imprenditore,
attraverso le numerose peripezie a Milano,
durante i tumulti e poi all'epoca della
peste. Renzo è dinamico anche perché le
circostanze lo portano a percorrere, a
piedi, chilometri e chilometri.
Attraverso la sua persona, l'azione
narrativa stessa acquista dinamismo e si
sposta da un luogo all'altro del Milanese: è
legittimo definire una vera odissea, quella
del giovane che, convinto di lasciare il
paesino per trovare ospitalità a Milano per
qualche tempo, si trova al centro di fatti
più grandi di lui. Inseguito dagli sbirri,
che lo credono una spia responsabile dei
tumulti, fugge in direzione di Bergamo. Non
è un percorso facile, il suo! Ricercato
dalla polizia, deve "dribblare" astutamente
la curiosità di osti e avventori nelle
taverne dove si ferma a riposare, deve
trovare un riparo per la notte e guadare
l'Adda. Poi, quando l'anno successivo torna
al paese in cerca di Lucia, viene a sapere
che si trova a Milano, ospite di una nobile
famiglia. Eccolo ancora nel capoluogo
lombardo, scambiato prima per un untore e
poi per un monatto, e in questa veste
raggiunge Lucia che è ricoverata al
lazzaretto: anche in questo luogo di dolore
non mancano avventure. Ritrovata la
fidanzata, comincia un andirivieni tra il
paese, Bergamo (dove torna per allestire la
casa) e Pasturo, dove Agnese si è rifugiata
per evitare il contagio.
Quanto camminare! Ma non è soltanto
un espediente per dare movimento all'azione.
I viaggi di Renzo hanno un significato più
profondo, perché questo personaggio è
davvero una guida‚
per il lettore. In sua compagnia subisce
l'ingiustizia di don Rodrigo e del dottor
Azzecca-garbugli, si cala nei tumulti di
Milano e vi partecipa come testimone
oculare, con lui si commuove e inorridisce
di fronte alla condizione degli appestati, e
gioisce della forza della pioggia
purificatrice, come se vivesse in prima
persona gli avvenimenti, osservando i fatti
attraverso gli occhi del giovane. Lo notiamo
da molte osservazioni di Renzo: «Spiccava
tra questi, ed era lui stesso uno
spettacolo, un vecchio mal vissuto, che,
spalancando due occhi affossati e infocati,
contraendo le grinze a un sogghigno di
compiacenza diabolica... agitava in aria un
martello, una corda, quattro gran chiodi,
con che diceva di voler attaccare il vicario
a un battente della sua porta, ammazzato che
fosse» (cap. XIII). La rappresentazione non
è soltanto viva e interessante, ma trasmette
anche l'indignazione del giovane, che emerge
dal giudizio contenuto nelle espressioni
«mal vissuto» e «compiacenza diabolica».
Inoltre la commozione del giovane, di fronte
alle sofferenze dei malati, contagia il
lettore e gli fornisce le coordinate per
"muoversi" anch'egli, in quella tragedia,
con un preciso stato d'animo.
Un'ultima
osservazione circa i
personaggi storici. Sono figure
fortemente suggestive: l'innominato
è modulato sull'immagine di Bernardino
Visconti, feudatario di Ghiara d'Adda, di
cui parlano le cronache milanesi del
Seicento. Si sa che, per merito di Federigo
Borromeo, cambiò vita e, dopo aver congedato
i suoi bravi, visse onestamente gli ultimi
anni della sua esistenza.
La monaca di
Monza era Marianna De Leyva, figlia
di don Martino, costretta alla monacazione
con il nome di suor Virginia. Anch'ella si
pentì, come narrano gli storici e, dopo aver
subito un processo a causa delle sue
malefatte (tresche amorose e un omicidio),
venne murata viva e morì in odore di
santità. Questi due personaggi sono
"rivisitati" liricamente dal Manzoni. Ciò
che di loro tramandano le cronache viene
illuminato poeticamente e viene messo in
luce quanto la storia non può dire: le
segrete speranze, i timori, le pressioni
psicologiche, il disagio esistenziale, il
bisogno di amore, di bontà, di chiarezza
nella vita, di dialogo aperto con i propri
simili, lo sforzo di non lasciarsi
sopraffare dalla prepotenza altrui.
Anche il gran cancelliere
Antonio Ferrer,
protagonista di una delle più vivaci
sequenze durante i tumulti di Milano, viene
presentato con le sue caratteristiche
storiche ma anche nelle sue connotazioni
psicologiche. Operando con la fantasia
l'autore immagina il suo atteggiamento umile
e cortese di fronte alla folla in rivolta e
gli pone in bocca frasi in due lingue: in
spagnolo dice ciò che pensa veramente, in
italiano pronuncia frasi di circostanza per
ammansire i Milanesi inferociti: «è vero, è
un birbante, uno scellerato» dice alla
gente, ma subito, chinato sul vicario di
provvisione che sta portando in salvo,
mormora in spagnolo: «Perdone, usted» (cap.
XIII).
Le cronache non riportano questo
particolare che colora di tinte fortemente
ironiche tutta la vicenda: l'autore ha fatto
appello alla sua immaginazione, a quella che
chiama invenzione e che serve a
compenetrare il vero
storico per dare ai personaggi
l'umanità che non rimane impressa nelle
pagine delle fonti.
Il
critico ottocentesco Francesco De Sanctis
(1817-1883), in particolare nel saggio I
Promessi Sposi, pubblicato nella rivista
Nuova Antologia dell'ottobre 1873, ha
notato un particolare curioso: il
protagonista del romanzo è tutto il secolo,
il Seicento‚ illustrato nel suo
carattere di epoca piena di contraddizione,
dove i nobili ostentano sfarzo, ma anche
sudiciume, dove i sentimenti più umani e
profondi cedono all'orgoglio, dove possono
avvenire le più incredibili prevaricazioni,
nonostante le leggi parlino chiaro, dove un
giovane onesto che vuole difendere un suo
diritto, viene cacciato dall'avvocato
abituato a difendere soltanto malfattori
(questo accade a Renzo in visita
all'avvocato Azzecca-garbugli nel capitolo
III). Il Seicento viene "illustrato"
attraverso alcune descrizioni che hanno il
fascino delle stampe d'epoca. Manzoni è
maestro nel ritrarre gli usi dei nobili,
riuniti per assistere a una cerimonia e
intanto sfoggiare i loro abiti sontuosi, le
scene di duello per le strade, i banchetti e
le conversazioni, i discorsi dove non si
dice ma si sottintende un accordo che, per
allusioni, viene siglato (lo puoi notare nel
capitolo XVIII, dove si narra l'incontro fra
il conte zio e il padre provinciale).
La riflessione sul Seicento, però,
non è solamente dettata dall'interesse di
Manzoni per la storia. Manzoni vuole aiutare
i suoi contemporanei a prendere coscienza
degli squilibri politico-sociali, delle
gigantesche ingiustizie e dell'inefficienza
burocratico-amministrativa che ha frenato in
passato, ma frena anche al presente, il
processo di crescita economica della
Lombardia insieme all'unificazione nazionale
degli stati italiani. È un invito agli
intellettuali del primo Ottocento a
riflettere sulla necessità di un ricambio di
classe al potere: la borghesia sembra la più
idonea a superare la crisi, a promuovere una
nuova realtà, nella quale i diritti civili
siano rispettati e le energie popolari
possano proficuamente esplicarsi, senza
soprusi, violenze, privilegi mortificanti,
intrallazzi.
- Il
paesaggio
L'uso
del paesaggio nei Promessi Sposi è un
elemento tecnico molto importante che porta
alla soluzione di un problema fondamentale:
come far capire al lettore in profondità
l'anima dei personaggi dando nel contempo
una collocazione spaziale in campo aperto
alla vicenda (il campo aperto si contrappone
al campo chiuso rappresentato da una casa o
addirittura una stanza), ed è descritto
sempre con molta sobrietà. Rappresenta
spesso il commento alle vicende e lo
specchio dello stato d'animo dei personaggi.
La celebre descrizione di Quel ramo del
lago di Como offre al lettore le
coordinate spaziali della vicenda e la
inquadra in un alone di poesia. I segni
della carestia, che ha aggredito anche gli
abitanti delle campagne, sono evidenziati
all'inizio del capitolo IV con la
rappresentazione dei contadini che seminano
con parsimonia e preoccupazione, con la
ragazzetta che conduce una mucca magra e le
sottrae erbe commestibili, da portare alla
famiglia.
L'Addio ai monti, a conclusione del
capitolo VIII sottolinea la struggente
nostalgia di Lucia che si allontana da
luoghi cari, prendendone congedo con
strazio, mentre il cielo luminoso, che
accoglie Renzo dopo aver guadato l'Adda
all'alba e aver conquistato la libertà (cap.
XVII), sembra la promessa di un futuro
sereno. La valle cupa e le montagne brulle
su cui incombe il castello dell'innominato
sono un'introduzione alla comprensione della
sua violenza, mentre il cielo che lo
sovrasta pare fungere da interlocutore,
quasi da coscienza per il tiranno (cap. XX).
E quando egli, dopo la notte drammatica in
cui le parole di Lucia gli hanno suggerito
una possibile soluzione al disagio della sua
vita, si affaccia alla finestra, vede la
valle chiara allietata dallo scampanio e il
cielo grigiastro percorso da nuvole leggere:
paiono simboleggiare il suo passato che si
va sfaldando, per lasciar spazio alla luce
della Provvidenza Divina (cap. XX).
Molte sono le indicazioni di
paesaggio che sembrano configurare aspetti
della vita degli uomini. Quando Renzo torna
al suo paese, devastato dalla peste e dalla
calata dei lanzichenecchi, trova la sua
vigna distrutta e infestata dalle erbacce:
segno tangibile del disordine morale dei
tempi (cap. XXXIII). Invece il paesaggio
greve, oppresso dall'afa nella Milano
distrutta dalla peste e l'acquazzone gioioso
che toglie il contagio (cap. XXXVI), non
soltanto sottolineano un'atmosfera, ma
traducono in termini concreti un diffuso
stato d'animo: al languore e alla
spossatezza della disperazione si
sostituisce una gioiosa speranza, quasi un
senso di purificazione e di rinnovamento.
In alcuni casi, più che di paesaggio si può
parlare di ambientazione. Lo notiamo nelle
scene di villaggio, nella descrizione
dell'interno delle case, in quel «brulichio»
che riempie le strade al crepuscolo e dà la
misura della vita, la sera in cui Renzo
organizza il matrimonio a sorpresa (cap.
VII). Anche il palazzotto di don Rodrigo,
cui si arriva per una stradetta che
attraversa il villaggio dei bravi, pare
visualizzare il male come frutto di
mediocrità, egoismo, opacità intellettuale,
piattezza morale e staticità spirituale. A
guardia della massiccia costruzione stanno
due bravi e due carcasse di corvi, mentre le
finestre sbarrate, l'urlo dei mastini
all'interno e il vociare dei convitati al
banchetto del padrone non sono meno volgari
dell'aspetto degli abitanti del villaggio:
«... omacci tarchiati e arcigni... vecchi
che, perdute le zanne, parevan sempre
pronti... a digrignar le gengive; donne con
certe facce maschie, e con certe braccia
nerborute...» (cap. V). Non è propriamente
una descrizione di paesaggio, ma rimanda a
un ambiente con una precisa connotazione
spirituale e, dunque, è coerente col modo in
cui il Manzoni intende il paesaggio, come
riflesso e elemento per capire le alterne
vicende umane.
- Le
tematiche della visione religiosa della vita
Numerose
sono le tematiche del romanzo: spicca, in
primo piano, il tema del
rapporto fra libertà e
condizionamento, in cui si innestano
i motivi dell'amore, della prevaricazione,
della paura, che concorrono a sviluppare
quello unificante del matrimonio mancato.
La libertà è il valore su cui si incardina
la morale cristiana, ma viene cancellata da
disvalori, primo fra tutti il conformismo
(come quello di don Abbondio e di Gertrude,
per i quali si parla giustamente di "cadute
senza riscatto", e soprattutto di donna
Prassede, alla quale Manzoni riserva alla
fine una stoccata cattiva: "Di donna
Prassede, detto che è morta, è detto
tutto").
Importante è anche il tema del
contrasto fra ideale e
reale, ossia fra come dovrebbe essere
la società e come, invece, di fatto è. Ecco,
allora, comparire i motivi del privilegio
che tocca solo a una piccola categoria di
persone, dell'ingiustizia che colpisce tutti
coloro che patiscono l'oppressione dei
privilegi altrui, della violenza nell'ambito
sociale, politico e anche familiare, della
mancanza di moralità che nasce dal mancato
rispetto delle più elementari norme
evangeliche.
A questo punto il pessimismo di
Manzoni, insieme a un certo senso latente e
sommesso di condanna si allenta nel tono
bonario dell'ironia,
soprattutto nei punti in cui smaschera le
piccole astuzie degli umili (che non
sortiscono effetto, come il matrimonio a
sorpresa) oppure si colora di amarezza
quando denuncia le ipocrisie dei politici
come il conte zio o Ferrer e diviene
denuncia aspra quando constata come anche i
valori più sacri, quali la paternità, siano
inquinati dall'orgoglio, che porta alla
menzogna, alla coercizione (si pensi al
padre di Gertrude), allo stravolgimento dei
valori della famiglia e della società.
Il
tema più significativo, però, quello su cui
poggia il messaggio manzoniano, si riferisce
alla visione religiosa
della vita, in cui domina il
leit-motiv del romanzo, ossia l'opera
della Provvidenza di Dio nella storia e
nelle umane vicende.
Il pessimismo manzoniano emerge
nella constatazione della presenza del male,
dell'irrazionalità dell'agire umano, della
forza dirompente degli egoismi in contrasto.
Pure la Grazia di Dio non abbandona gli
uomini che lo cercano e confidano in Lui.
Per chi ha fede nella Provvidenza il
succedersi dei fatti acquista un senso, una
logica. Naturalmente Dio non è colui che
punisce i malvagi e premia i buoni, come un
giustiziere. Il Suo giudizio e la Sua opera
riescono per la maggior parte delle volte
insondabili agli uomini che devono accettare
i fatti con umiltà e fiducia.
Sbaglia don Abbondio quando,
esultante, definisce la Provvidenza come una
«scopa» (cap. XXXVIII) che finalmente ha
fatto piazza pulita di don Rodrigo e dei
suoi scagnozzi. È più corretta la
riflessione di padre Cristoforo che, di
fronte a don Rodrigo agonizzante e
sofferente al lazzaretto, afferma: «Può
essere gastigo, può essere misericordia»
(cap. XXXV). La peste, infatti, non deve
essere semplicisticamente ridotta a una
punizione dei malvagi e la morte di don
Rodrigo, tra gli spasimi della malattia, può
essere intesa come l'ultima possibilità
offerta a lui dalla Misericordia divina
perché si ravveda e salvi la sua anima.
In
questo senso, anche se termina con la
celebrazione delle nozze, il romanzo di
Manzoni non presenta l'idilliaco "lieto
fine" dei romanzi storici tradizionali.
Infatti, a ben vedere, la conclusione della
storia si pone al capitolo XXXVI, quando
padre Cristoforo scioglie Lucia dal voto che
ha fatto la notte trascorsa nel castello
dell'innominato, secondo il quale rinuncia
alle nozze. In tal modo la ragazza può
seguire la voce del cuore e anche Renzo vede
finalmente rimosso l'ultimo ostacolo. I due
si congedano da padre Cristoforo, commossi
dalle sue ultime parole, che suonano alle
loro orecchie come un testamento spirituale
e che invitano a perdonare «sempre, sempre!
tutto, tutto!».
Gli ultimi due capitoli, con i
preparativi del matrimonio, la celebrazione
e la sintetica narrazione degli anni di vita
coniugale, sono un completamento della
storia: il momento essenziale, invece, è
rappresentato dal ritrovarsi dei due giovani
con sentimenti immutati e una capacità
rafforzata di accettare la volontà di Dio
nella loro vita.
Il
"lieto fine" dei Promessi Sposi,
semmai, non consiste nel rito delle nozze,
ma in quella sorta del "decalogo" con cui
Renzo, ormai marito, padre e imprenditore di
successo (ha impiantato, come abbiamo detto,
un redditizio filatoio a Bergamo) attua un
bilancio di quei due anni travagliati e
avventurosi. Constata che si è fatto una
dura esperienza di vita che lo mette in
grado di dare buoni consigli ai figli,
quando cresceranno. Invece Lucia osserva
che, per quanto la riguarda, non si è mai
messa nei guai, ma «son loro che son venuti
a cercar me».
Allora, insieme, gli sposi giungono
alla conclusione che, di fronte alle
tribolazioni, bisogna confidare in Dio e
sperare che le sofferenze migliorino la
vita. È un finale senza idillio, come
osservano i critici, ma coerente con la
tensione religiosa che percorre tutta la
narrazione.
Il tema
religioso, insieme con la scelta di
porre gli umili («genti meccaniche e di
piccolo affare», li definisce l'Anonimo) a
protagonisti della storia, rappresenta
sicuramente l'elemento di grande novità del
romanzo. Non solo balzano alla ribalta due
contadini, ma anche le figure importanti (un
arcivescovo, un potente feudatario, politici
ed esponenti delle gerarchie ecclesiastiche,
un avvocato, un podestà, un nobilotto con
parenti importanti) sono valutati sulla base
della posizione che assumono nei confronti
di quelli. Infine flagelli e pubbliche
calamità (come peste, rivolte, guerra e
carestia), assumono rilievo perché creano il
contesto in cui si pongono le avventure dei
protagonisti. È una scelta rivoluzionaria e
un coraggioso rovesciamento di valori
letterari, che il Manzoni attua, convinto e
sorretto dal messaggio evangelico. Questo,
d'altra parte, appare diluito tra le pagine
come il tessuto connettivo della narrazione;
affiora spesso ma con discrezione e a volte
si incarna in personaggi "minori" di
notevole interesse. Valga, tra tutti, quella
modesta ma splendida figura che è il
servitore di don Rodrigo: compare nel V
capitolo ad accogliere padre Cristoforo in
visita al palazzotto di don Rodrigo. L'aiuto
che egli dà al frate è fondamentale anche
per lo svolgimento della storia, perché lo
informa del progetto di rapire Lucia, in
seguito al quale il cappuccino organizza la
fuga dei giovani dal paese e innesca il
meccanismo che dà luogo alle vicende della
seconda sezione. Non a caso padre Cristoforo
lo definisce «un filo» della Provvidenza.
- La fortuna
letteraria del Manzoni
La
fortuna del Manzoni nelle pagine di critica
letteraria comincia già all'epoca della sua
giovinezza, quando Vincenzo Monti e Ugo
Foscolo apprezzano il poeta in erba. I
Promessi Sposi riscuotono un grande
successo e nell'arco di un anno sono
stampate tredici edizioni, alcune delle
quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far
conoscere veramente l'opera del Manzoni in
Italia è Francesco De Sanctis che dedica
all'autore un intero corso nel 1877.
Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue
Carducci, che lo taccia di conformismo
borghese, mentre il filosofo e critico
Benedetto Croce afferma che il romanzo
manzoniano non contiene poesia, ma è opera
oratoria, Antonio Gramsci (1891-1937) accusa
Manzoni di paternalismo nel suo
atteggiamento verso gli umili, nel saggio
Letteratura e vita nazionale (1950),
conglobato nei Quaderni dal carcere
(1972).
I prosecutori della ricerca di De
Sanctis e di Croce sono, a tutt'oggi, gli
interpreti più acuti dell'opera manzoniana.
Attilio Momigliano, Luigi Russo e molti
altri, cercano di evidenziare, accanto ai
vari temi e al significato dei personaggi,
l'unità poetica e il messaggio
fondamentalmente umano dell'opera
manzoniana. Michele Barbi progetta nel 1939
un'edizione nazionale delle opere del
Manzoni e, negli anni Cinquanta, attua
un'edizione critica delle tre redazioni del
romanzo, per consentire ai critici utili
esami comparativi.
Gli studiosi più recenti (G.
Petrocchi, L. Firpo, L. Caretti, G.
Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D.
Isella, E. Raimondi, M. Vitale, M. Corti, U.
Eco) si sforzano di illustrare anche i
rapporti fra Manzoni e la cultura italiana
ed europea del suo tempo, valutando in quale
misura essi siano filtrati attraverso
l'opera letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia
Manzoni (1983), ha ricostruito,
attraverso gli epistolari, il complesso e
variegato "ambiente" manzoniano, costituito
dai familiari, dagli amici e dai
collaboratori.
http://www.fausernet.novara.it/fauser/biblio/bios/bio048.htm |