Le
tappe fondamentali della formazione
culturale del Manzoni furono sostanzialmente
tre: la prima riguarda l’educazione ricevuta
nei collegi ecclesiastici, frequentati nella
fanciullezza e nell’adolescenza, che ebbe
l’effetto contrario a quello che si
proponeva, allontanando il giovinetto dalla
fede cattolica a causa soprattutto della
grettezza con cui veniva impartito
l’insegnamento: già abbiamo visto il
giudizio che il Manzoni espresse nel carme
“In morte di Carlo Imbonati” circa tale
insegnamento, ed anche se in seguito si
pentì della durezza con cui aveva espresso
quel giudizio, in un certo senso lo ribadì
affermando che quegli educatori “lasciavano
molto a desiderare essi stessi in
educazione”; la seconda riguarda gli anni
trascorsi a Parigi, ove approfondì le teorie
illuministiche già in gran parte assimilate
e accettate durante i suoi studi personali
condotti anche in collegio di nascosto dai
suoi maestri; la terza si riferisce al
periodo in cui maturò la conversione al
cattolicesimo ed agli anni successivi.
Storia e storiografia
Il primo dato che balza evidente è che il
Manzoni fu principalmente un autodidatta: lo
confessa egli stesso nel Carme per l’Imbonati.
Il secondo è che, anche quando si allontanò
dal primitivo insegnamento cattolico per
accostarsi alle dottrine illuministiche, di
queste accettò soprattutto quelle più
direttamente ed esplicitamente umanitarie e
filantropiche: segno evidente della sua
innata vocazione a considerare il problema
dell’ “uomo” nella sua globalità e
universalità più ancora che in rapporto alla
situazione contingente. Fu certamente
codesta vocazione, oltre all’influenza
esercitata su di lui dal Fauriel, a
determinarlo agli studi storici, che egli
condusse però in modo del tutto indipendente
e non certo come un “curioso” di cose
passate, sì invece con lo spirito di chi
vuol carpire dalla storia il segreto, il
mistero in cui è immerso quel “guazzabuglio”
che è il cuore umano. Perciò egli nei suoi
studi storici rivolse la propria attenzione
non tanto ai fatti salienti ed alle vicende
dei Grandi che lasciarono più marcata la
propria impronta nel tempo in cui vissero,
ma alle condizioni di vita delle folle
anonime, alle loro miserie ed alle loro
aspirazioni ed ai loro disinganni, alle loro
superstizioni ed alla loro fede. E'
significativo a tal proposito quanto il
Manzoni affermerà nel “Discorso sopra alcuni
punti della storia longobardica in Italia”:
egli lamenta che gli storici di quel periodo
non si siano punto interessati alla
condizione delle masse popolari:
«Prenda adunque qualche acuto e insistente
ingegno l' impresa di trovare la storia
patria di que' secoli; ne esamini, con nuove
e più vaste e più lontane intenzioni, le
memorie; esplori nelle cronache, nelle
leggi, nelle lettere, nelle carte de'
privati che ci rimangono, i segni di vita
della popolazione italiana. I pochi
scrittori di que' tempi e de' tempi vicini
non hanno voluto né potuto distinguere, in
ciò che passava sotto i loro occhi, i punti
storici più essenziali, quello che importava
di trasmettere alla posterità: riferirono
de' fatti, ma l'istituzione e i costumi, ma
lo stato generale delle nazioni, ciò che per
noi sarebbe il più nuovo, il più curioso a
sapersi, era per loro la cosa più naturale,
più semplice, quella che meritava meno
d'essere raccontata. E se fecero così con le
nazioni attive e potenti, e dal nome delle
quali intitolavano le loro storie, si pensi
poi quanto dovessero occuparsi delle
soggiogate! Ma c'è pure un'arte di
sorprendere con certezza le rivelazioni più
importanti, sfuggite allo scrittore che non
pensava a dare una notizia, e d'estendere
con induzioni fondate alcune poche
cognizioni positive. Quest'arte, nella quale
alcuni stranieri fanno da qualche tempo
studi più diligenti [è chiaro che il Manzoni
si riferisce al Fauriel], e di cui lasciano
di quando in quando monumenti degni di
grande osservazione, quest' arte, se non
m'inganno, è, ai giorni nostri, poco
esercitata tra di noi.»
Cattolicesimo liberale
Intanto dall’Illuminismo aveva appreso e
fatti propri i princìpi di Libertà,
Giustizia e Fraternità, princìpi che,
durante le lunghe meditazioni che lo
condussero alla conversione religiosa, egli
riscoprì nelle pagine del Vangelo. Da questo
punto di vista la conversione non fu che un
approfondimento della sua moralità. La Fede
riacquistata, o meglio, finalmente
acquistata, con spontanea e convinta
adesione, conferì ai suoi valori morali il
segno di una certezza che li rendeva
incrollabili e li arricchiva di un
significato ben altrimenti sublime che non
quello che potevano avere entro i limiti di
una gretta concezione materialistica della
vita.
Se la lettura della storia portava all’amara
considerazione che la forza del Male prevale
più spesso che quella del Bene nelle vicende
umane (concezione pessimistica della
storia), il senso del “divino” calato nella
storia aveva la forza di santificare il
dolore, rendere purificatrice la sofferenza
umana e bollare la cattiveria e la violenza
dei malvagi col marchio sinistro della
ribellione alla legge di Dio: il sacrificio
degli “umili” veniva esaltato come dono al
Signore e come simbolo di autentica umanità,
mentre l'arroganza dei “potenti”, anche
quella che aveva dettato i fatti più
clamorosi della storia umana, veniva
screditata ed abbassata al livello della
bestialità.
La vita appariva dunque al Manzoni come
l’eterno conflitto tra il Bene ed il Male,
che si svolge continuamente nelle coscienze
dei singoli individui come nelle vicende dei
popoli e che impegna gli uni e gli altri in
infinite prove, in cui si erge a
protagonista il “libero arbitrio” dell’uomo.
E' nell’impegno di orientare le proprie
scelte in favore del Bene che si distingue
il cristiano, il quale deve riconoscersi
nelle parole con cui il Manzoni definisce
l’esempio dato dal Cardinale Borromeo:
«Persuaso che la vita non è già destinata ad
essere un peso per molti, e una festa per
alcuni, ma per tutti un impiego, del quale
ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo
a pensare come potesse render la sua utile e
santa». A confortare e sostenere la
difficile prova del cristiano vale la fede
nella Provvidenza Divina, la fede in quel
Dio che «non turba mai la gioia de' suoi
figli, se non per prepararne loro una più
certa e più grande».
Poetica
Naturale quindi che il Manzoni non potesse
pensare all’attività artistica se non come
un impegno in favore dell’uomo, in difesa
del Bene e nel rispetto del disegno divino.
E’ nota la proposizione con cui egli
definisce l’arte, la quale deve proporsi il
“vero per oggetto, l'utile per iscopo e
l'interessante per mezzo”. E' chiaro, però,
che il Vero dell’arte, cioè il “vero
poetico”, pur traendo origine dal “vero
storico”, è cosa ben diversa da questo.
Infatti il “vero storico” è l’insieme dei
fatti realmente accaduti che hanno avuto a
protagonista l’uomo. Esso costituisce la
“realtà” della vita che non deve mai essere
elusa o falsata o, peggio, tradita in
nessuna circostanza e in nessuna attività
umana, se non ci si vuole deliberatamente
porre contro la vita stessa. E' giusto
quindi che il “vero storico” sia a
fondamento anche dell’attività artistica
come unica materia legittima di qualsivoglia
“speculazione” umana. Però l’artista non può
e non deve confondersi con lo “storico” e
non può quindi limitarsi a leggere la
“realtà” per come si presenta in superficie.
Egli deve invece penetrare quella realtà
oggettiva per giungere a scoprire le verità
più riposte, cioè tutto quanto si agitava
nelle coscienze degli uomini che produssero
quella realtà, e ricavare così il “vero
poetico”, cioè l’essenza stessa della vita,
che sarà poi il motivo d’ispirazione
dell’opera d’arte. Perciò nell’opera d’arte
non si riproduce questo o quel momento
storico, ma il senso della storia e, quindi,
della vita. Questo “senso” non si trova
nell’esame dei fatti oggettivi, ma,
attraverso tale esame, bisogna scoprirlo nel
cuore degli uomini, nella sede cioè in cui
si vive realmente il “dramma”
dell’esistenza. Ed è nella rappresentazione
di questo dramma che consiste la poesia:
«Più si va addentro a scoprire il vero nel
cuore dell'uomo - dice il Manzoni - e più vi
si trova poesia vera».
Se il “Vero” (cioè il “vero poetico” che
nasce dall’intuizione del Genio esercitata
sul “vero storico”) deve essere l’oggetto
dell’arte, il fine di questa deve essere l’
“utile”, cioè la capacità di trasmettere un
messaggio morale che sappia conquistare le
coscienze degli uomini, purificarle e
rigenerarle. Non è concepibile che l’arte
viva da sé e di sé e per sé: essa deve
invece nascere dalla considerazione della
storia, nutrirsi degli affetti e delle
passioni degli uomini e servire
all’elevazione del loro spirito.
Naturalmente l’ “utile” - cioè il messaggio
morale - non va perseguito a bella posta
dall’artista perché in questo caso
limiterebbe e condizionerebbe la libertà di
ispirazione e di espressione dell’artista
stesso.
L’ “utile” costituisce invece, secondo il
Manzoni, un fatto intrinseco all’arte: esso
rientra nella natura stessa dell’arte: non
può esistere opera d’arte veramente tale che
non sia “morale”.
Infine l’arte deve avere l’ “interessante”
per mezzo, nel senso che deve rappresentare
qualcosa di vivo e palpitante per le
coscienze del suo tempo, sicché quel “senso”
della vita in essa calato, cioè il “Vero” -
che per sua natura è universale ed eterno -,
trovi una immediata verifica nell’attualità
del momento storico in cui l’opera sorge.
Queste idee furono alla base dell’attività
artistica del Manzoni e trovano riscontro
nelle opere della sua migliore stagione. Ma
qui trovarono quasi istintivamente il loro
effetto, mentre nelle opere teoriche sulla
Poetica appaiono segnate della fatica di una
lunga ricerca, di una macerante meditazione,
che indusse l’Autore anche a profonde
revisioni e clamorose smentite dei risultati
già espressi.
A tal proposito le opere più significative
furono la “Lettera a Monsieur Chauvet
sull'unità di tempo e di luogo della
tragedia”, del 1820, e la “Lettera sul
Romanticismo”, del 1823, indirizzata al
marchese Cesare D’Azeglio.
Con la prima lettera il Manzoni risponde
alle critiche mossegli dal letterato
francese Chauvet per non aver egli
rispettato il precetto delle famose “unità”
aristoteliche di tempo e di luogo nella
tragedia “Il Conte di Carmagnola”. Il
Manzoni obietta che quelle unità sono
assurde in quanto costringono l’autore a
condensare ed esasperare le passioni dei
protagonisti, facendolo così incorrere in
due errori assai gravi per la vera poesia:
il primo consiste nel falsare il ritmo
psicologico reale di quelle passioni; il
secondo nel coinvolgere violentemente lo
spettatore in quelle passioni,
contravvenendo al canone più naturale della
poesia, che è invece quello di mettere lo
spettatore nella condizione ideale della
“contemplazione disinteressata”. In questa
lettera il Poeta ribadisce l’opinione che
solo la storia ha la dignità di materia
poetica ma che il poeta non può fermarsi,
come lo storico, alla conoscenza oggettiva
degli avvenimenti e deve invece penetrarli
per mettere a nudo la coscienza dell’uomo:
«...che cosa ci dà la storia? dei fatti che
non sono, per così dire, conosciuti se non
nel loro aspetto esteriore; quello cioè che
gli uomini hanno fatto: ma quello che hanno
pensato, i sentimenti che hanno accompagnato
le loro deliberazioni e i loro progetti, i
loro successi e le loro sventure; i discorsi
per mezzo dei quali essi hanno fatto o
cercato di far prevalere le loro passioni e
la loro volontà su altre passioni e altre
volontà, per mezzo dei quali hanno espresso
la lor collera, dato sfogo alla loro
tristezza, hanno, in una parola, rivelato la
loro individualità, tutto questo è passato
quasi sotto silenzio della storia; e tutto
questo è il dominio della poesia».
Nella seconda Lettera il Manzoni tenta di
delineare la posizione assunta dai Romantici
nei confronti dell’arte, ma in effetti
illustra la sua poetica. Egli afferma che
gli studi dei Romantici sulla poesia hanno
avuto due direzioni: una “negativa” per
contestare la poetica neoclassica e
cancellare per sempre l’uso della mitologia,
dell’imitazione e delle regole prestabilite;
l’altra “positiva” per affermare soprattutto
che la poesia deve esprimere il “vero” e
deve essere popolare. Per quanto riguarda la
mitologia egli afferma di condividere la
tesi dei Romantici contraria alla pretesa
dei classicisti di voler riproporre le
“allegorie” che sarebbero insite nei miti
classici (tesi questa cara al Foscolo: si
confronti il paragrafo su “Le Grazie”), ma
aggiunge di suo che la mitologia gli sembra
vera e propria “idolatria”.
«Un’altro argomento de' Classicisti era che
nella mitologia si trova involto un
complesso di sapientissime allegorie. I
Romantici rispondevano che, se sotto quelle
fandonie, c'era veramente un senso
importante e ragionevole, bisognava esprimer
questo immediatamente; che, se altri, in
tempi lontani, avevano creduto bene di dire
una cosa per farne intendere un’altra,
avranno forse avuto delle ragioni che non si
vedono nel caso nostro, come non si vede
perché questo scambio d'idee immaginato una
volta deva divenire e rimanere una dottrina,
una convenzione perpetua...»
«Ma la ragione per la quale io ritengo
detestabile l'uso della mitologia, e utile
quel sistema che tende ad escluderla... è
che l'uso della favola è idolatria. Ella sa
molto meglio di me che questa non consisteva
soltanto nella credenza di alcuni fatti
naturali e soprannaturali: questi non erano
che la parte storica, ma la parte morale era
fondata nell'amore, nel rispetto, nel
desiderio delle cose terrene come se fossero
il fine, come se potessero dare la felicità,
salvare... Così l'effetto generale della
mitologia non può essere che di trasportarci
alle idee di que' tempi in cui il Maestro
[Cristo] non era venuto, di quegli uomini
che non ne avevano né la previsione, né il
desiderio; di farci parlare anche oggi, come
se Egli non avesse insegnato; di mantenere i
simboli, l'espressioni, le formule de'
sentimenti ch'Egli ha inteso distruggere; di
farci lasciar da una parte i giudizi ch'Egli
ci ha dati delle cose, il linguaggio che è
la vera espressione di quei giudizi, per
ritenere le idee e i giudizi del mondo
pagano.»
Quanto alla parte positiva della poetica
romantica egli riconosce che non è facile
definire il “vero” e che i Romantici hanno
trovato più agevole specificare quello che
non rientra nel concetto di “vero”, e cioè
il “falso, l'inutile e il dannoso”, anziché
quello che esso deve rappresentare. Dal
canto suo egli intravede nella poetica
romantica, anche se non espressamente
dichiarata, una tendenza cristiana, giacché
«proponendo anche in termini generalissimi
il vero, l'utile, il bono, il ragionevole,
concorre se non altro, con le parole, allo
scopo del cristianesimo, non lo contraddice
almeno nei termini».
Questa “Lettera sul Romanticismo” fu scritta
nel 1823 ma fu pubblicata dall’Autore solo
nel 1871. Ciò ci persuade che essa
rappresenti, in definitiva, il credo poetico
del Manzoni, anche se fra queste due date
comparvero altri scritti che sembrano in
parte contraddire la tesi esposta nella
“Lettera”. Ad esempio è del 1845 il discorso
“Del romanzo storico e, in genere, dei
componimenti misti di storia e
d'invenzione”, nel quale egli afferma
l’impossibilità della sintesi estetica di
storia e di invenzione (condannando quindi
come opere ibride e poeticamente
inconsistenti anche l’ “Adelchi” ed i
“Promessi Sposi”!) ed afferma
esplicitamente: «Un gran poeta e un gran
storico possono trovarsi, senza far
confusione, nell'uomo medesimo, ma non nel
medesimo componimento»; ed è del 1850 il
dialogo “Dell'invenzione”, in cui,
riprendendo il pensiero del Rosmini, afferma
che solo Dio può creare e che quindi il
poeta non crea, ma scopre nella sua mente
l’idea poetica esistente da sempre, ab
aeterno, nella Mente di Dio.
Questione linguistica
Il Manzoni si interessò molto anche al
problema della lingua, sia perché
necessitato dalle sue esigenze di scrittore,
sia perché animato da motivi democratici e
patriottici. Si sa che egli andò a risiedere
per alcun tempo in Firenze per riscrivere il
suo romanzo nell’autentica e moderna lingua
fiorentina, e ciò prova la predilezione che
egli ebbe per questa lingua dal punto di
vista artistico. Ma il Manzoni, osservando
che una nazione ormai unita non potesse fare
a meno di avere una lingua unitaria, e
considerando altresì che la letteratura, per
essere veramente popolare come le istanze
romantiche richiedevano, non poteva che
adottare la lingua del popolo, concluse che
il fiorentino - lingua usata ormai da secoli
da tutti i letterati della penisola -
dovesse essere assunto come lingua nazionale
ed essere diffuso in tutta Italia mediante
l’insegnamento scolastico, così come, nei
tempi antichi, la lingua di Roma fu estesa a
tutto l’impero e, nei tempi più recenti, la
lingua parigina fu estesa a tutta la
Francia.
Naturalmente il Manzoni faceva propria la
tesi, già assunta dal Monti, che una lingua
è un organismo vivente che nasce e prospera
da sé e non può essere artificialmente
confezionata con l’apporto delle varie
parlate regionali, né può essere bloccata in
una forma definitiva una volta per sempre.
Pertanto la lingua nazionale da adottare,
che valesse tanto per i letterati che per il
popolo, doveva essere il fiorentino colto
dei contemporanei: questa lingua, divenuta
patrimonio di tutti gli Italiani, cesserebbe
d’essere “fiorentina” per divenire
“italiana” e continuare il suo processo
evolutivo col contributo di tutti gli
Italiani.
Degli scritti dedicati al problema della
lingua ricordiamo: “Sentir messa” (1835,
incompiuto), “Dell'unità della lingua e dei
mezzi di diffonderla” (1868, relazione al
Ministro della Pubblica Istruzione Emilio
Broglio), le due lettere a Ruggero Bonghi,
del 1868, “Intorno al libro De vulgari
Eloquio di Dante” e “Intorno al Vocabolario”.
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