LETTERATURA ITALIANA: ALESSANDRO MANZONI

 

Luigi De Bellis

 


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MANZONI

 
L'INDOLE

Contrariamente a quanto avviene per il Foscolo, il biografo del Manzoni ha non poche difficoltà a tracciare il profilo psicologico del grande lombardo che, nonostante la lunga vita, ha lasciato poche testimonianze, dirette o indirette, sulla sua vita intima. Questo, però, ci consente di rilevare un primo aspetto della sua personalità: la ritrosia a parlare di sé e la tendenza a vivere appartato dal mondo o, per meglio dire, dalla società, perché, in effetti, la sua adesione alla vita del mondo fu quanto mai cordiale ed intensa, come ben si vede nelle sue opere maggiori.

 A queste appunto fa riferimento la maggior parte degli studiosi per desumere una immagine complessiva e persuasiva dello scrittore: procedimento, questo, giustificato dalla carenza di notizie autobiografiche e dalla scarsezza di testimonianze altrui dovuta alla volontaria solitudine in cui il Nostro si ridusse a vivere gran parte della propria esistenza, ma tuttavia in parte arbitrario e, comunque, precario perché eccessivamente condizionato dalla particola­re sensibilità e, perché no?, dai pregiudizi del biografo.

Volendo percorrere un itinerario più agevole, dobbiamo rifarci alle notizie certe, sia pure scarse, in nostro possesso e da queste dedurre valutazioni psicologiche che non siano in contrasto con la personalità dell’artista, quale emerge imponente dalla sua opera.

Il Manzoni ebbe certamente un’infanzia difficile ed infelice. Nato da un matrimonio sbagliato che aveva legalmente unito due persone diversissime e lontanissime tra loro (la madre, appena ventenne, spirito vivace e di buona cultura; il padre, di ventisei anni più anziano della moglie, incolto e rozzo) e forse figlio di una delle tante infedeltà coniugali della madre, visse i primi anni in un clima di tensioni familiari appena mascherato in superficie dal contegno aristocratico di entrambi i coniugi.  E proprio per sottrarlo a quest’aria irrespirabile, fu mandato ad appena sei anni in collegio, presso i Somaschi prima ed i Barnabiti poi, che non sopperirono punto alla mancanza di affetto che travagliava l’adolescente, favorendo in lui l’inclinazione alla solitudine.

Dopo nove anni di segregazione, fece ritorno in casa, ove fu accolto dall’indifferenza del genitore, che nel frattempo si era legalmente separato dalla moglie. Questa era andata a convivere col conte Carlo Imbonati a Parigi, dove le convivenze illegali non destavano scandalo ed erano frequenti nel bel mondo. Forse proprio per reazione a siffatta situazione, il Manzoni si diede alla bella vita. Ma forse anche per vincere la timidezza del carattere che in pubblico lo rendeva finanche balbuziente. Fu questa comunque una breve parentesi, perché egli non abbandonò quegli studi che aveva intrapreso da autodidatta e di nascosto già in collegio e non celò né a se stesso né agli altri la sua precoce disposizione alle lettere. A soli sedici anni, nel 1801, si provò a comporre, sull’esempio dell’Alfieri (e non del Foscolo, il cui sonetto “Solcata ho fronte” fu pubblicato per la prima volta solo nell’autunno del 1802), un “Ritratto di se stesso”, un sonetto pessimo dal punto di vista estetico, ma degno di considerazione, sia perché rappresenta forse l’unica occasione in cui il Poeta parla volutamente ed esplicitamente di sé, sia perché ci fa capire alcuni aspetti fondamentali del suo carattere mai smentiti in seguito.

Ecco il sonetto:

 

    Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,
naso non grande e non soverchio umile,
tonda la gota e di color vivace,
stretto labbro e vermiglio, e bocca esile;
lingua or spedita, or tarda, e non mai vile,
che il ver favella apertamente, o tace;
giovin d'anni e di senno, non audace;
duro di modi, ma di cuor gentile.
    La gloria amo, e le selve, e il biondo Iddio;
spregio, non odio mai; m'attristo spesso;
buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
    A l'ira presto, e più presto al perdono;
poco noto ad altrui, poco a me stesso:
gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

E' inutile soffermarci e  recriminare su quell’ “occhio loquace” o su quel “labbro stretto” o su quella “bocca esile”: il sonetto è opera di un adolescente non ancora maturo per l’arte. Ci interessa invece ricavare da questi versi alcune connotazioni che non ci sembrano distanti dall’immagine ideale che ci siamo fatta dell’Autore. Questi fu veramente alquanto impacciato nel dialogare, specialmente se con persone estranee al suo ristretto mondo consuetudinario, e preferiva piuttosto ascoltare che parlare, soprattutto quando si trattava di esprimere sentenze e giudizi e pareri: il profondo rispetto che nutriva per il prossimo l’induceva non solo ad evitare di esprimere su persone determinate giudizi di merito, ma anche ad astenersi dal dare consigli sembrandogli presuntuoso farsi “dottore” agli altri. Quando però parlava era sempre per dire chiaro e tondo quel che gli sembrava il “vero”, senza tentennamenti e senza riguardo per chi non gradisse quel vero. Ad essere eccessivamente prudente lo spingeva anche una certa irresolutezza negli affari concreti e minuti della vita, cosa questa in netto contrasto con la fermezza e determinazione dimostrate nei confronti dei princìpi fondamentali della sua fede morale e religiosa. Fu anche piuttosto scontroso (“duro di modi”) e facile all’ira (“a l'ira presto”), ma solo da giovane, perché la maturità degli anni lo perfezionò molto a questo riguardo. Non dové mai cambiare, invece, la tendenza innata alla bontà ed al perdono, che anzi con gli anni esaltò sempre più. E fu grazie a codesta tendenza, oltre che al lungo digiuno di affetti familiari, se, una volta ritrovata tutta per sé la madre (dopo la morte dell'Imbonati), le si legò in modo, non diciamo morboso, ma certamente profondo, fino a compiacersi di subirne l’ascendente. Per lei scrisse il “Carme in morte di Carlo Imbonati”, nel quale sono enunciati princìpi di morale e di arte, cui l’Autore rimase fedele in vita e che rappresentano ulteriori indizi validi per la conoscenza del suo mondo interiore. In questo carme, in cui il Poeta immagina di aver avuto la visita notturna dello spirito del conte, il Manzoni esprime un giudizio abbastanza negativo sulla società del suo tempo, un giudizio improntato a quella severità morale che fu suo abito costante anche dopo la conversione (sia pure in termini di maggiore compassione e di minore acredine): l’Imbonati afferma che gli è doluto di morire solo perché ha abbandonato al pianto la sua più cara amica, ma non per altro:

 

che dolermi dovea? Forse il partirmi
da questa terra, ov'è il ben far portento,
e somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier dalla parola è sempre
altro, e virtù per ogni labbro ad alta
voce lodata, ma nei cor derisa;
dov'è spento il pudor; dove sagace
usura è fatto il beneficio, e brutta
lussuria amor; dove sol reo si stima
chi non compie il delitto; ove il delitto
turpe non è, se fortunato; dove
sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo?
Dura è per giusto solitario, il credi,
dura, e pur troppo disegual, la guerra
contra i perversi affratellati e molti.

Lo spirito dell’Imbonati prosegue elogiando il ventenne Alessandro di non frequentare la compagnia dei malvagi e di preferire quella di pochi e intemerati amici e ancor di più quella dei grandi Autori del passato, “che, spenti, al mondo anco son pregio e norma”.  E il Poeta prende da ciò spunto per confidare al conte:

 

...Né ti dirò com'io, nodrito
in sozzo ovil di mercenario armento,
gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto
de l'insipida stoppia, il viso torsi
da la fetente mangiatoia; e franco
m'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
cui mi saria vergogna esser maestro,
mi volsi ai prischi sommi, e ne fui preso
di tanto amor, che mi parea vederli
veracemente, e ragionar con loro.

Giudizio, questo, assai duro sulla educazione ricevuta nei collegi, di cui si pentirà in seguito, non tanto perché fosse spropositato rispetto alla realtà, ma piuttosto perché gli sembrava poco cristiano (questo pentimento fu il motivo ufficiale addotto dal Manzoni per impedire successivamente la ristampa del carme, ma è lecito ritenere, o quanto meno supporre, col Dolci, che la ragione più vera fu forse “quella di porre un velo su di un fallo materno che, se nella sua giovanile ingenuità, aveva in certo modo approvato ed esaltato, non avrebbe potuto ora, nella sua nuova severa coscienza di credente, non condannare”).

Ma i versi più famosi  del  carme  sono quelli in cui l’Imbonati elenca al giovane amico una serie di precetti per vivere degnamente:

 

Sentir...e meditar: di poco
esser contento: da la meta mai
non torcer gli occhi: conservar la mano
pura e la mente: de le umane cose
tanto sperimentar quanto ti basti
per non curarle: non ti far mai servo:
non far tregua coi vili: il santo Vero
mai non tradir: né proferir mai verbo,
cha plauda al vizio, o la virtù derida.

Questi versi rappresentano bene, più che un programma di vita morale, un impegno etico assunto dall’Autore in piena coscienza e ponderata determinazione, non sotto l’impulso di una tensione passeggera. L’immagine del Manzoni sedicenne, quale ci appare nel sonetto dell’autoritratto, è qui approfondita, non smentita, né corretta. E questi precetti, enunciati dal giovane “illuminista” e “miscredente” Manzoni, non avranno bisogno di alcuna modifica da parte dell’uomo maturo e credente: si arricchiranno semplicemente della nuova luce della Fede, che, in definitiva, è nuova luce di Speranza.

Il rinnovato affetto per la madre, l’amore profondo per la moglie, la numerosa prole che lo attorniava festante, gli offrirono quella serenità dello spirito necessaria all’arte, grazie alla quale poté lavorare ai suoi capolavori. Ma fu solo la Fede quella che gli consentì di accettare senza ribellarsi le innumerevoli sciagure che si abbatterono su di lui ed accentuarono quei disturbi nevrotici che lo afflissero per tutta la vita e che aveva forse ereditato per via genetica (il nonno materno ne era stato affetto). Questi disturbi egli non fece mai pesare - come generalmente avviene - su chi gli era vicino e li sopportò con dignitosa riservatezza, anche se lo tormentarono quotidianamente sotto forma di tante piccole ma fastidiosissime manie (come quella di cambiare l’abito più volte, nel corso della giornata, a seconda della variazione di temperatura e pesando gli abiti per farli “scientificamente” corrispondere alle reali necessità).

Per concludere questa nota diremo che egli si dedicò  anche all' agricoltura, pur potendo vivere di rendita, non solo per “distrarsi” di tanto in tanto dalle afflizioni o dagli impegni intellettuali, ma perché riteneva poco degna un'esistenza spesa tutta per l'arte e per la cultura e poco o nulla per le occupazioni pratiche che servono al sostentamento della vita fisica ed all'ordinamento della vita civile. A tal proposito ci piace riportare uno squarcio della famosa “Lettera ad un giovane” (A Marco Coen - Venezia - Milano, 2 giugno 1823), anche perché questa ci consente di avviare il discorso sulla concezione che ebbe il Manzoni delle "lettere" e che sarà in parte l'oggetto del prossimo paragrafo.
Il giovane destinatario della lettera si era lamentato col Manzoni del fatto che era stato avviato alle attività commerciali dal padre contro la sua volontà, che era invece quella di dedicarsi esclusivamen­te all'arte dello scrivere. Ecco cosa gli scrive il Manzoni:

«Il suo signor padre ha voluto ch'Ella si appigliasse al commercio: la rettitudine del suo cuore ha fatto ch'Ella e obbedisse e desiderasse d'obbedir volentieri; ma da quel giorno in poi Ella non ha più pace né requie: tutto Le è venuto a noia e in dispetto: Ella non vede di potere più andare innanzi così. E perché? per amor delle lettere. Ma che lettere son codeste, che non lasciano aver bene un uomo nell'adempimento del suo dovere, e in una occupazione che ha uno scopo utile, e che presta pure un continuo esercizio alla riflessione ed alla sagacità dell'ingegno? Sono elle le buone lettere? Le cose buone e vere si amano con un ardore tranquillo e paziente; non portano a non volere, se non ciò che è incompatibile con esse, né ad abborrire così fortemente, se non il loro contrario, cioè le cose false e malvagie. Io temo che codeste lettere, di cui Ella è tanto accesa, sien quelle appunto che vivon di sé e da sé e non veggono che ci sia qualcosa da fare per loro, dove non si tratti di giocare colla fantasia; temo, anzi credo, che codesta tanto violenta avversione al commer­cio sia cagionata in Lei, per gran parte, dalle impressioni che Le hanno fatta quelle massime, quelle dottrine che esal­tano, consacrano certi esercizi della intelligenza e della attività umana, e ne sviliscono altri, senza tener conto della ragion delle cose, del sentimento comune degli uomini, e delle condizioni essenziali della società. Ma si franchi un momento da queste dottrine, ne esca, e le guardi dal di fuori; e pensi di che sarebbe più impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti; quali di queste due professioni serva di più, non dico al comodo, ma alla coltura dell'umanità. Codesta avversione non Le lascia scorgere come l'occupazione che Le è data, non solo non Le tolga ogni mezzo a progredir nelle lettere, ma ne sia un mezzo ella medesima. Ché certamente il suo tempo non sarà così interamente da essa portato via, che non gliene avanzi da dare alla lettura o all'esercizio dello scrivere; ed è forse piccolo sussidio ad ogni studio liberale la cognizione degli uomini e delle cose, che si acquista nel commercio?»

E per conoscere l'opinione che il Manzoni ebbe della fama e della gloria terrene, si legga quest’altro passo della medesima lettera:

«Nelle lettere Ella vede un mezzo d'acquistar fama: un vivissimo desiderio di questa, un nobile sdegno dell'oscurità, per ripetere le sue parole, sono il suo stimolo principale allo studio, e il suo tormento. Ma crede Ella forse, che l'ottener questa fama porrebbe fine al tormento? Per amor del cielo, si levi dall'animo una tale speranza. Quando Ella avrà veduto un avaro felice dell'essersi fatto ricco, s'aspetti allora di vedere un cupido di fama felice dell'esser diventato famoso. Iddio ci vuol troppo bene per lasciarci trovare la contentez­za nel soddisfacimento delle nostre passioni. Ella è infelice, perché vuole ardentemente cosa che Dio non ha promesso a nessuno, che non gli si può domandare, ch'Egli non ci ha insegnato a cercare, che ci ha anzi prescritto di non cercare; ed è infelice non perché non la possegga ancora, ma perché la vuole. Il dolore nasce non dalla mancanza, ma dall'amore della cosa: chi la possiede, o, per dir meglio, che ne possiede, e l'ama, ha mutato il dolore, non se l'è tolto. E neppure l'ha mutato: ché, mentre conosce per prova, che codesta così desiderata gloria non ha virtù di farlo contento, pur ne desidera di più, ne sente la vanità e teme di perderla.»

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