Contrariamente a quanto avviene per il
Foscolo, il biografo del Manzoni ha non
poche difficoltà a tracciare il profilo
psicologico del grande lombardo che,
nonostante la lunga vita, ha lasciato poche
testimonianze, dirette o indirette, sulla
sua vita intima. Questo, però, ci consente
di rilevare un primo aspetto della sua
personalità: la ritrosia a parlare di sé e
la tendenza a vivere appartato dal mondo o,
per meglio dire, dalla società, perché, in
effetti, la sua adesione alla vita del mondo
fu quanto mai cordiale ed intensa, come ben
si vede nelle sue opere maggiori.
A
queste appunto fa riferimento la maggior
parte degli studiosi per desumere una
immagine complessiva e persuasiva dello
scrittore: procedimento, questo,
giustificato dalla carenza di notizie
autobiografiche e dalla scarsezza di
testimonianze altrui dovuta alla volontaria
solitudine in cui il Nostro si ridusse a
vivere gran parte della propria esistenza,
ma tuttavia in parte arbitrario e, comunque,
precario perché eccessivamente condizionato
dalla particolare sensibilità e, perché
no?, dai pregiudizi del biografo.
Volendo
percorrere un itinerario più agevole,
dobbiamo rifarci alle notizie certe, sia
pure scarse, in nostro possesso e da queste
dedurre valutazioni psicologiche che non
siano in contrasto con la personalità
dell’artista, quale emerge imponente dalla
sua opera.
Il Manzoni
ebbe certamente un’infanzia difficile ed
infelice. Nato da un matrimonio sbagliato
che aveva legalmente unito due persone
diversissime e lontanissime tra loro (la
madre, appena ventenne, spirito vivace e di
buona cultura; il padre, di ventisei anni
più anziano della moglie, incolto e rozzo) e
forse figlio di una delle tante infedeltà
coniugali della madre, visse i primi anni in
un clima di tensioni familiari appena
mascherato in superficie dal contegno
aristocratico di entrambi i coniugi. E
proprio per sottrarlo a quest’aria
irrespirabile, fu mandato ad appena sei anni
in collegio, presso i Somaschi prima ed i
Barnabiti poi, che non sopperirono punto
alla mancanza di affetto che travagliava
l’adolescente, favorendo in lui
l’inclinazione alla solitudine.
Dopo nove
anni di segregazione, fece ritorno in casa,
ove fu accolto dall’indifferenza del
genitore, che nel frattempo si era
legalmente separato dalla moglie. Questa era
andata a convivere col conte Carlo Imbonati
a Parigi, dove le convivenze illegali non
destavano scandalo ed erano frequenti nel
bel mondo. Forse proprio per reazione a
siffatta situazione, il Manzoni si diede
alla bella vita. Ma forse anche per vincere
la timidezza del carattere che in pubblico
lo rendeva finanche balbuziente. Fu questa
comunque una breve parentesi, perché egli
non abbandonò quegli studi che aveva
intrapreso da autodidatta e di nascosto già
in collegio e non celò né a se stesso né
agli altri la sua precoce disposizione alle
lettere. A soli sedici anni, nel 1801, si
provò a comporre, sull’esempio dell’Alfieri
(e non del Foscolo, il cui sonetto “Solcata
ho fronte” fu pubblicato per la prima
volta solo nell’autunno del 1802), un “Ritratto
di se stesso”, un sonetto pessimo dal
punto di vista estetico, ma degno di
considerazione, sia perché rappresenta forse
l’unica occasione in cui il Poeta parla
volutamente ed esplicitamente di sé, sia
perché ci fa capire alcuni aspetti
fondamentali del suo carattere mai smentiti
in seguito.
Ecco il sonetto:
Capel bruno, alta
fronte, occhio loquace,
naso non grande e non soverchio
umile,
tonda la gota e di color vivace,
stretto labbro e vermiglio, e
bocca esile;
lingua or spedita, or tarda, e non
mai vile,
che il ver favella apertamente, o
tace;
giovin d'anni e di senno, non
audace;
duro di modi, ma di cuor gentile.
La gloria amo, e le selve, e
il biondo Iddio;
spregio, non odio mai; m'attristo
spesso;
buono al buon, buono al tristo, a
me sol rio.
A l'ira presto, e più presto
al perdono;
poco noto ad altrui, poco a me
stesso:
gli uomini e gli anni mi diran chi
sono.
|
E'
inutile soffermarci e recriminare su
quell’ “occhio
loquace” o su quel “labbro
stretto”
o su quella “bocca
esile”:
il sonetto è opera di un adolescente non
ancora maturo per l’arte. Ci interessa
invece ricavare da questi versi alcune
connotazioni che non ci sembrano
distanti dall’immagine ideale che ci
siamo fatta dell’Autore. Questi fu
veramente alquanto impacciato nel
dialogare, specialmente se con persone
estranee al suo ristretto mondo
consuetudinario, e preferiva piuttosto
ascoltare che parlare, soprattutto
quando si trattava di esprimere sentenze
e giudizi e pareri: il profondo rispetto
che nutriva per il prossimo l’induceva
non solo ad evitare di esprimere su
persone determinate giudizi di merito,
ma anche ad astenersi dal dare consigli
sembrandogli presuntuoso farsi “dottore”
agli altri. Quando però parlava era
sempre per dire chiaro e tondo quel che
gli sembrava il “vero”, senza
tentennamenti e senza riguardo per chi
non gradisse quel vero. Ad essere
eccessivamente prudente lo spingeva
anche una certa irresolutezza negli
affari concreti e minuti della vita,
cosa questa in netto contrasto con la
fermezza e determinazione dimostrate nei
confronti dei princìpi fondamentali
della sua fede morale e religiosa. Fu
anche piuttosto scontroso (“duro di
modi”) e facile all’ira (“a l'ira
presto”), ma solo da giovane, perché
la maturità degli anni lo perfezionò
molto a questo riguardo. Non dové mai
cambiare, invece, la tendenza innata
alla bontà ed al perdono, che anzi con
gli anni esaltò sempre più. E fu grazie
a codesta tendenza, oltre che al lungo
digiuno di affetti familiari, se, una
volta ritrovata tutta per sé la madre
(dopo la morte dell'Imbonati), le si
legò in modo, non diciamo morboso, ma
certamente profondo, fino a compiacersi
di subirne l’ascendente. Per lei scrisse
il “Carme in morte di Carlo Imbonati”,
nel quale sono enunciati princìpi di
morale e di arte, cui l’Autore rimase
fedele in vita e che rappresentano
ulteriori indizi validi per la
conoscenza del suo mondo interiore. In
questo carme, in cui il Poeta immagina
di aver avuto la visita notturna dello
spirito del conte, il Manzoni esprime un
giudizio abbastanza negativo sulla
società del suo tempo, un giudizio
improntato a quella severità morale che
fu suo abito costante anche dopo la
conversione (sia pure in termini di
maggiore compassione e di minore
acredine): l’Imbonati afferma che gli è
doluto di morire solo perché ha
abbandonato al pianto la sua più cara
amica, ma non per altro:
che
dolermi dovea? Forse il partirmi
da questa terra, ov'è il ben far
portento,
e somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier dalla parola è
sempre
altro, e virtù per ogni labbro ad
alta
voce lodata, ma nei cor derisa;
dov'è spento il pudor; dove sagace
usura è fatto il beneficio, e
brutta
lussuria amor; dove sol reo si
stima
chi non compie il delitto; ove il
delitto
turpe non è, se fortunato; dove
sempre in alto i ribaldi, e i
buoni in fondo?
Dura è per giusto solitario, il
credi,
dura, e pur troppo disegual, la
guerra
contra i perversi affratellati e
molti. |
Lo
spirito dell’Imbonati prosegue elogiando
il ventenne Alessandro di non
frequentare la compagnia dei malvagi e
di preferire quella di pochi e
intemerati amici e ancor di più quella
dei grandi Autori del passato, “che,
spenti, al mondo anco son pregio e norma”.
E il Poeta prende da ciò spunto per
confidare al conte:
...Né ti dirò com'io, nodrito
in sozzo ovil di mercenario
armento,
gli aridi bronchi fastidendo, e il
pasto
de l'insipida stoppia, il viso
torsi
da la fetente mangiatoia; e franco
m'addussi al sorso de l'Ascrea
fontana.
Come talor, discepolo di tale,
cui mi saria vergogna esser
maestro,
mi volsi ai prischi sommi, e ne
fui preso
di tanto amor, che mi parea
vederli
veracemente, e ragionar con loro. |
Giudizio, questo, assai duro sulla
educazione ricevuta nei collegi, di cui
si pentirà in seguito, non tanto perché
fosse spropositato rispetto alla realtà,
ma piuttosto perché gli sembrava poco
cristiano (questo pentimento fu il
motivo ufficiale addotto dal Manzoni per
impedire successivamente la ristampa del
carme, ma è lecito ritenere, o quanto
meno supporre, col Dolci, che la ragione
più vera fu forse “quella di porre un
velo su di un fallo materno che, se
nella sua giovanile ingenuità, aveva in
certo modo approvato ed esaltato, non
avrebbe potuto ora, nella sua nuova
severa coscienza di credente, non
condannare”).
Ma i versi
più famosi del carme sono quelli in cui
l’Imbonati elenca al giovane amico una serie
di precetti per vivere degnamente:
Sentir...e meditar: di poco
esser contento: da la meta mai
non torcer gli occhi: conservar la
mano
pura e la mente: de le umane cose
tanto sperimentar quanto ti basti
per non curarle: non ti far mai
servo:
non far tregua coi vili: il santo
Vero
mai non tradir: né proferir mai
verbo,
cha plauda al vizio, o la virtù
derida. |
Questi versi
rappresentano bene, più che un programma di
vita morale, un impegno etico assunto
dall’Autore in piena coscienza e ponderata
determinazione, non sotto l’impulso di una
tensione passeggera. L’immagine del Manzoni
sedicenne, quale ci appare nel sonetto
dell’autoritratto, è qui approfondita, non
smentita, né corretta. E questi precetti,
enunciati dal giovane “illuminista” e
“miscredente” Manzoni, non avranno
bisogno di alcuna modifica da parte
dell’uomo maturo e credente: si
arricchiranno semplicemente della nuova luce
della Fede, che, in definitiva, è nuova luce
di Speranza.
Il rinnovato
affetto per la madre, l’amore profondo per
la moglie, la numerosa prole che lo
attorniava festante, gli offrirono quella
serenità dello spirito necessaria all’arte,
grazie alla quale poté lavorare ai suoi
capolavori. Ma fu solo la Fede quella che
gli consentì di accettare senza ribellarsi
le innumerevoli sciagure che si abbatterono
su di lui ed accentuarono quei disturbi
nevrotici che lo afflissero per tutta la
vita e che aveva forse ereditato per via
genetica (il nonno materno ne era stato
affetto). Questi disturbi egli non fece mai
pesare - come generalmente avviene - su chi
gli era vicino e li sopportò con dignitosa
riservatezza, anche se lo tormentarono
quotidianamente sotto forma di tante piccole
ma fastidiosissime manie (come quella di
cambiare l’abito più volte, nel corso della
giornata, a seconda della variazione di
temperatura e pesando gli abiti per farli “scientificamente”
corrispondere alle reali necessità).
Per concludere
questa nota diremo che egli si dedicò anche
all' agricoltura, pur potendo vivere di
rendita, non solo per “distrarsi” di
tanto in tanto dalle afflizioni o dagli
impegni intellettuali, ma perché riteneva
poco degna un'esistenza spesa tutta per
l'arte e per la cultura e poco o nulla per
le occupazioni pratiche che servono al
sostentamento della vita fisica ed
all'ordinamento della vita civile. A tal
proposito ci piace riportare uno squarcio
della famosa “Lettera ad un giovane”
(A Marco Coen - Venezia - Milano, 2 giugno
1823), anche perché questa ci consente di
avviare il discorso sulla concezione che
ebbe il Manzoni delle "lettere" e che sarà
in parte l'oggetto del prossimo paragrafo.
Il giovane destinatario della lettera si era
lamentato col Manzoni del fatto che era
stato avviato alle attività commerciali dal
padre contro la sua volontà, che era invece
quella di dedicarsi esclusivamente all'arte
dello scrivere. Ecco cosa gli scrive il
Manzoni:
«Il suo signor
padre ha voluto ch'Ella si appigliasse al
commercio: la rettitudine del suo cuore ha
fatto ch'Ella e obbedisse e desiderasse
d'obbedir volentieri; ma da quel giorno in
poi Ella non ha più pace né requie: tutto Le
è venuto a noia e in dispetto: Ella non vede
di potere più andare innanzi così. E perché?
per amor delle lettere. Ma che lettere son
codeste, che non lasciano aver bene un uomo
nell'adempimento del suo dovere, e in una
occupazione che ha uno scopo utile, e che
presta pure un continuo esercizio alla
riflessione ed alla sagacità dell'ingegno?
Sono elle le buone lettere? Le cose buone e
vere si amano con un ardore tranquillo e
paziente; non portano a non volere, se non
ciò che è incompatibile con esse, né ad
abborrire così fortemente, se non il loro
contrario, cioè le cose false e malvagie. Io
temo che codeste lettere, di cui Ella è
tanto accesa, sien quelle appunto che vivon
di sé e da sé e non veggono che ci sia
qualcosa da fare per loro, dove non si
tratti di giocare colla fantasia; temo, anzi
credo, che codesta tanto violenta avversione
al commercio sia cagionata in Lei, per gran
parte, dalle impressioni che Le hanno fatta
quelle massime, quelle dottrine che
esaltano, consacrano certi esercizi della
intelligenza e della attività umana, e ne
sviliscono altri, senza tener conto della
ragion delle cose, del sentimento comune
degli uomini, e delle condizioni essenziali
della società. Ma si franchi un momento da
queste dottrine, ne esca, e le guardi dal di
fuori; e pensi di che sarebbe più impacciato
il mondo, del trovarsi senza banchieri o
senza poeti; quali di queste due professioni
serva di più, non dico al comodo, ma alla
coltura dell'umanità. Codesta avversione non
Le lascia scorgere come l'occupazione che Le
è data, non solo non Le tolga ogni mezzo a
progredir nelle lettere, ma ne sia un mezzo
ella medesima. Ché certamente il suo tempo
non sarà così interamente da essa portato
via, che non gliene avanzi da dare alla
lettura o all'esercizio dello scrivere; ed è
forse piccolo sussidio ad ogni studio
liberale la cognizione degli uomini e delle
cose, che si acquista nel commercio?»
E per
conoscere l'opinione che il Manzoni ebbe
della fama e della gloria terrene, si
legga quest’altro passo della medesima
lettera:
«Nelle lettere
Ella vede un mezzo d'acquistar fama: un
vivissimo desiderio di questa, un nobile
sdegno dell'oscurità, per ripetere le sue
parole, sono il suo stimolo principale allo
studio, e il suo tormento. Ma crede Ella
forse, che l'ottener questa fama porrebbe
fine al tormento? Per amor del cielo, si
levi dall'animo una tale speranza. Quando
Ella avrà veduto un avaro felice
dell'essersi fatto ricco, s'aspetti allora
di vedere un cupido di fama felice
dell'esser diventato famoso. Iddio ci vuol
troppo bene per lasciarci trovare la
contentezza nel soddisfacimento delle
nostre passioni. Ella è infelice, perché
vuole ardentemente cosa che Dio non ha
promesso a nessuno, che non gli si può
domandare, ch'Egli non ci ha insegnato a
cercare, che ci ha anzi prescritto di non
cercare; ed è infelice non perché non la
possegga ancora, ma perché la vuole. Il
dolore nasce non dalla mancanza, ma
dall'amore della cosa: chi la possiede, o,
per dir meglio, che ne possiede, e l'ama, ha
mutato il dolore, non se l'è tolto. E
neppure l'ha mutato: ché, mentre conosce per
prova, che codesta così desiderata gloria
non ha virtù di farlo contento, pur ne
desidera di più, ne sente la vanità e teme
di perderla.»
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