Anche per le
liriche civili, come per gli “Inni Sacri”,
c’è da registrare, dal punto di vista
estetico, una enorme differenza di valore
fra le prime, composte rispettivamente nel
1814 e nel 1815, e quelle del 1821,
rientranti negli anni più fecondi e più
felici dell’ispirazione manzoniana.
L’ “Aprile
1814” fu composta in occasione
della vittoria degli Austriaci sui Francesi
e del conseguente “cambio della guardia”
nel governo lombardo. Per un po' si sperò
che gli Austriaci non ripristinassero
l’antico dominio sulla regione e volessero
conservare il Regno italico, affrancandolo
però dal giogo francese e difendendone
l’indipendenza. Anche il Manzoni credette in
questo sogno e compose in fretta questa
canzone, ma poi l’abbandonò allo stato di
abbozzo, quando gli Austriaci si insediarono
in Milano “per diritto di conquista”
e ne ebbero riconfermato il possesso dal
Congresso di Vienna
. L’opera, che si compone di 91 versi, fu
poi pubblicata dal Bonghi nel primo
decennale della morte dell’Autore.
La canzone è
una vera e propria arringa contro le
prevaricazioni dei Francesi, usi a spogliare
d’ogni ricchezza le terre “liberate”
e ad imporre le inique leggi dei
conquistatori come messaggi di redenzione,
doni di civiltà.
Le speranze
del Manzoni per una Patria libera ed
indipendente si rifecero vive quando il 30
marzo 1815, durante l’avventura napoleonica
dei Cento giorni, Gioacchino Murat, re di
Napoli e cognato del Bonaparte, lanciò da
Rimini un proclama a tutti gli Italiani
perché si unissero a lui nel disegno di
realizzare l’unità e l’indipendenza della
Nazione: «Italiani, l’ora è venuta che
debbono compiersi gli alti destini d'Italia.
La Provvidenza vi chiama infine ad essere
una nazione indipendente. Dall’Alpi allo
Stretto di Scilla odasi un grido solo:
l’indipendenza d’Italia». Ma gli
Italiani non si mossero: essi diffidavano
più dei Francesi che degli Austriaci. Il
Manzoni fu uno dei pochi a credere alla
buona fede del Murat ed alla possibile
realizzazione della sua impresa, e compose “Il
Proclama di Rimini”, una canzone
che l’esito rovinoso della campagna militare
intrapresa dal Murat contro gli Austriaci,
troncò nel bel mezzo, al verso 51. Il
frammento fu pubblicato nel 1848.
Nella canzone
si fa l’esaltazione dell'ardimento di
Gioacchino Murat e della nobiltà della sua
causa: il re di Napoli chiama a raccolta i
figli migliori di quell’Italia che, negletta
ai conviti dei popoli, al pari di un
mendicante a cui è già cortesia non fargli
dispetto, solo dai suoi figli aspetta la
redenzione e dalla Giustizia di Dio, che
aprì le acque del Mar Rosso per far fuggire
gli Ebrei e le richiuse poi sugli
inseguitori. Tutte queste immagini saranno
riprese con maggior efficacia in “Marzo
1821”. Nel “Proclama di Rimini”
invece l’andamento è fiacco, la passione
poco eccitata, l’interesse propagandistico
troppo scoperto. Lo stesso Manzoni come
riferisce il Cantù, ebbe a dire, a proposito
di questa canzone e riferendosi al verso 34:
«Io e Mazzini abbiamo avuto sempre fede
nell'indipendenza d'Italia, compiuta e
assicurata con l'unità. In questa unità era
sì grande la mia fede, che le ho fatto il
più grande de' sacrifici, quello di scrivere
scientemente un brutto verso:
Liberi non sarem se
non siam uni».
Di ben altro respiro e di ben diversa
intensità lirica sono le due odi del 1821,
composte quasi di getto.
Il 10 marzo del 1821 scoppiò in Piemonte
quel moto rivoluzionario liberale che
avrebbe dovuto dare la Costituzione al
Piemonte e l’indipendenza alla Lombardia. Le
truppe degli insorti, giunte sulla sponda
del Ticino, che segnava i confini fra le due
regioni, erano prossime a varcare quei
termini per marciare contro gli Austriaci e
liberare i fratelli lombardi: auspicio
perché il moto si estendesse in tutta Italia
e realizzasse l’unità del Paese e
l’indipendenza dallo straniero. Purtroppo
quel fiume non fu varcato e l’8 aprile di
quello stesso anno gl’insorti erano stati
già sconfitti dalle truppe congiunte del
generale piemontese de La Tour e
dell’austriaco Bubna. Il Manzoni, animato
dalla sua fede fortissima nell’unità
d’Italia, aveva precorso gli eventi e
immaginata la redenzione della Patria: in
pochi giorni compose l’ode “Marzo
1821”, così ricca d’amor patrio,
così vibrante del sentimento della libertà e
dignità dei popoli, così calda di accenti
cristiani che non danno luogo a
manifestazioni di odio, ma sempre e soltanto
di amore e di carità verso gli uomini in
generale e verso le vittime in particolare.
L’ode, dopo l'esito di quelle vicende, non
poté ovviamente essere pubblicata e fu
tenuta nascosta dall’Autore fino al 1848,
quando vide la luce, dopo le “cinque
giornate” di Milano, a spese del Governo
Provvisorio, che premise all’edizione
questa avvertenza: «Edizione messa sotto
la tutela delle vigenti leggi e convenzioni,
e che si vende una lira italiana, in favore
dei profughi veneti, per cura della
Commissione Governativa delle offerte per la
causa nazionale».
I patrioti
piemontesi, sostenuti da Carlo Alberto,
hanno attraversato il Ticino ed hanno
giurato: «Non fia loco ove sorgan
barriere / tra l'Italia e l'Italia, mai
più! ». Da tutte le contrade d’Italia
altri forti rispondono a quel giuramento, e
solo colui che fosse capace di distinguere e
dividere nel Po le acque confuse dei suoi
numerosi affluenti, potrebbe ancora dividere
una “gente risorta” in “volghi
spregiati”. I figli d’Italia finalmente
son sorti a pugnare e non potranno che
vincere perché hanno dalla loro parte la
forza di una causa giusta e l’aiuto di quel
Dio che «nell'onda vermiglia / chiuse il
rio che inseguiva Israele», quel Dio
che «è Padre di tutte le genti; / che
non disse al germano giammai: / Va’,
raccogli ove arato non hai; / spiega l'ugne,
l'Italia ti do». Al solo pronunciare il
dolce nome d’Italia, l’animo del Poeta si
intenerisce e prorompe in un grido soffocato
dal pianto: “Cara Italia!”. Il Poeta
rievoca allora le ingenue speranze degli
Italiani che si aspettavano la libertà dallo
straniero, ma il cuore e la mente sono ora
attenti al nuovo evento e trepidanti:
Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
stretti intorno a’ tuoi santi colori,
forti, armati de' propri dolori,
i tuoi figli son sorti a pugnar.
.............................................
Per l'Italia si pugna, vincete!
Il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
al convito de' popoli assisa,
o più serva, più vil, più derisa
sotto l'orrida verga starà. |
L’ultima
strofa rappresenta l’omaggio più riverente e
commosso che si possa fare a quanti
combattono per la libertà della propria
Patria: tale omaggio salta evidente dalla
amara e malinconica delusione di quanti non
avranno potuto partecipare in prima persona
al risorgimento della Patria e avranno
appreso la lieta novella dal labbro
d’altrui, come gente straniera.
E si
ricollega idealmente alla “dedica”
rivolta molto nobilmente ad un
poeta-soldato, che ha lasciato la vita sul
campo di Lipsia per difendere la libertà
della propria terra, un poeta-soldato che
appartiene alla stirpe dei conquistatori e
dei dominatori dell’Italia, ma che si
innalza al di sopra della viltà della sua
gente per unirsi alla schiera dei Martiri
del nostro Risorgimento. In ciò è manifesta
l’intima ispirazione cristiana dell’ode,
che, al di là del motivo patriottico più
immediato, coglie l’essenza del valore della
Libertà e di quello della Patria, i quali
non dovrebbero dividere gli uomini, ma
affratellarli come figli di un solo Padre. A
noi sembra quanto mai significativo il
giudizio di Ferruccio Ulivi, secondo il
quale «sentimentalmente e moralmente,
l'ode sta sul piano dell'evocazione di una
società cristiana degli Inni Sacri, e non è
dubbio che il Manzoni connetta la visione
dell'indipendenza e unità nazionali a una
concezione integrale sub specie cristiana».
Il “Cinque
Maggio” fu composta in soli tre
giorni subito dopo che il Poeta ebbe la
notizia della morte di Napoleone, avvenuta
nell’isola di Sant’Elena il 5 maggio 1821.
La notizia fu riportata dalla “Gazzetta
di Milano” del 16 luglio e il
Manzoni l’apprese il giorno dopo nella sua
villa di Brusuglio. Ne fu talmente scosso
che per tre giorni non pensò ad altro e
sentì impellente il bisogno di scrivere
qualcosa sull’avvenimento. Si racconta che
la moglie Enrichetta, per calmargli
l’agitazione e propiziargli la serenità
d’animo necessaria all’ispirazione, gli
suonasse al piano brani delicatissimi di
musica classica. Ultimata l’ode, il Poeta la
inviò, come d’obbligo, alla censura per
chiedere la licenza di pubblicarla. Come
aveva previsto, però, la licenza gli fu
negata, ma la lirica circolò ugualmente e
largamente grazie ad un espediente usato
dal Manzoni: egli ne aveva mandate alla
censura due copie nella speranza che una
venisse trafugata da qualche funzionario di
polizia, come infatti avvenne.
L’anno
successivo l’ode fu pubblicata a Lugano
insieme con una traduzione in latino di tal
Pietro Soletti di Oderzo, ma già prima aveva
avuto l’alto onore di essere tradotta in
tedesco dal Goethe, che pubblicò la sua
versione sul giornale “Ueber Kunst und
Alterthum”. Nell’agosto del 1822 lo
stesso Goethe recitò la sua versione alla
corte di Weimar ed ecco come il Consigliere
Gruner descrive l’avvenimento: «Il gran
poeta era quasi trasfigurato e commosso, i
suoi occhi mandavano scintille, la precisa
accentuazione d'ogni parola e insieme
l'espressione m'incantavano; e quando ebbe
finito, ci fu un momento di pausa. Ci
guardammo a vicenda, e leggemmo il nostro
entusiasmo l'uno negli occhi dell'altro. Non
è vero, riprese il Goethe, non è vero che
Manzoni è un grande poeta? Io vorrei, gli
risposi, che Manzoni fosse stato presente a
questa declamazione: egli avrebbe avuto un
ampio compenso dell'opera sua». Il
Manzoni pubblicò l’ode solo nel 1845.
Dopo aver
descritto lo stupore con cui la terra
accoglie la notizia della morte di un Uomo
che sembrava immortale e dopo aver
precisato che il proprio genio poetico si è
conservato “vergin di servo encomio e di
codardo oltraggio” durante tutta la
vicenda napoleonica fatta di alterna
fortuna, il Poeta raccoglie in poche rapide
immagini le tappe salienti della
straordinaria esistenza di Napoleone e le
caratteristiche fondamentali della sua
personalità eccezionale, cui si sottomisero,
come aspettando il fato, due secoli, l’un
contro l’altro armato. Fu vera gloria?, si
domanda il Poeta.
Egli non
osa giudicare e rimanda ai posteri l’ardua
sentenza, e corre invece a scrutare nel
segreto di quella grande anima allorché
sparve dalla storia e chiuse nell’ozio i
suoi estremi dì. E la coglie nei momenti
disperati dei ricordi, dai quali lo trarrà
la benefica mano della Fede per avviarlo,
attraverso i floridi sentieri della
speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la
gloria che passò. |
L’ode non
poteva terminare che con una commossa
esaltazione della “Bella Immortal!
benefica / Fede ai trionfi avvezza!”:
conclusione che ha indotto qualche critico
di riguardo a classificare quest’opera
piuttosto come un Inno sacro che come un’ode
civile. «La Pentecoste è l'atto di fede
nell'avvento del dono eterno della
redenzione, e cioè la fede nella possibilità
di un'eterna purificazione e santificazione
della nostra vita dolorosa - scrive
Mario Sansone -. Nel Cinque Maggio è il
ritrovamento, nel canto celebrativo di un
altissimo personaggio, e cioè in una
particolare e concreta situazione e realtà,
di cotesta consolatrice giustificazione del
dolore e del dramma del mondo... Napoleone
ripercorre le vicende della sua vita, che si
parano innanzi a lui come assurde nelle loro
immense contraddizioni. L'enorme
interrogativo della storia: che sono, che
valgono, a che corrono le vicende e le opere
degli uomini? si para innanzi alla dolorosa
solitudine dell'eroe. Egli non sa a che cosa
sia valsa la sua opera, e qual demone lo
abbia mosso; e che cosa infine valga questo
immenso andare del mondo. Nell'interrogativo
napoleonico palpita il gran cuore del poeta:
l'oscuro dramma del cuore del Manzoni qui si
risolve, e l'anelito segreto covato per
tanti anni nell'ansiosa solitudine
dell'anima finalmente si libera: il dolore,
la morte, la decadenza, la solitudine,
l’odio sono accettati e scontati. Così vuole
Dio, così ha stabilito e ordinato Dio. E Dio
è qui la legge stessa e il ritmo del mondo.
La storia esce dal caos informe e si ordina,
il moto assurdo diventa destino, e il puro
urtarsi delle forze diventa legge».
Il Congresso, per soddisfare l’orgoglio
nazionale degli Italiani, raggruppò i
territori soggetti all’Austria nel “Regno
Lombardo-Veneto”, con capitale
Milano, ma - come osserva il Saitta -
«...si trattava di una facciata
puramente esteriore: la realtà del
potere stava interamente accentrata
nella cancelleria aulica di Vienna...e
il nuovo dominio fu subordinato ai
superiori interessi economici
dell’Austria».
|