LETTERATURA ITALIANA: ALESSANDRO MANZONI

 

Luigi De Bellis

 


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MANZONI

 
MANZONIANI E ANTIMANZONIANI

Quando Manzoni inizia a scrivere, nel 1812, Fermo e Lucia, la situazione della lingua italiana era penosa: da un lato si difendevano ancora, per l'uso scritto, le esigenze bembiane del classico purismo, in totale dispregio dei dialetti e in ossequio alla supremazia del fiorentino; dall'altro il letterato e la sua produzione letteraria erano lontanissimi dalle esigenze più popolari. Gli intellettuali scrivevano in una lingua che il popolo non poteva capire, anche a causa del proprio analfabetismo. Basilio Puoti, Antonio Cesari e soprattutto Vincenzo Monti erano i fautori di un italiano dotto che escludesse rigorosamente il parlato.

· Il Manzoni è uno dei primi, nell'800, a porsi il problema di come conciliare le due lingue ed è sicuramente il primo a porsi il problema di come risolvere la questione della lingua su un terreno sociale e politico. Inizialmente, col Fermo e Lucia, egli tenta di risolvere il problema a livello regionale (Lombardia); poi con l'edizione definitiva del 1840-42, l'ambizione è quella di porsi su un piano nazionale.

· Egli in sostanza scelse dei personaggi popolari della Lombardia, ambientò la storia in quei luoghi e dopo aver "sciacquato i panni in Arno", decise di farli parlare come dei fiorentini.

· A suo giudizio le radici della lingua italiana andavano cercate solo in Firenze, cioè in quella città la cui lingua fa tutt'uno col dialetto, non è molto diversa dallo scritto ed è sostanzialmente parlata da tutti i cittadini.

· Non avrebbe avuto senso fare un collage delle parlate migliori, poiché la lingua è un unicum inscindibile: o la si prende così com'è o niente. Le parole sono specchio della realtà e devono veicolare contenuti uguali per tutti. Parlato e scritto possono essere sovrapponibili. Il linguaggio deve essere il più possibile standardizzato, altrimenti l'unificazione linguistica è impossibile.

· In secondo luogo dissero, a ragione, i manzoniani, occorreva assolutamente rinunciare alle tesi dei puristi secondo cui il fiorentino da imitare doveva restare quello trecentesco.

· Dello stesso avviso erano, a conti fatti, sia E. De Amicis (L'idioma gentile, 1906) che C. Collodi (benché quest'ultimo fosse assai meno fiducioso che l'unità politica della nazione avrebbe portato sicuro progresso a tutti).

· Va detto tuttavia che già ai tempi del Manzoni, sia il Foscolo che il Leopardi la pensavano in maniera diversa. Il primo (Origin and vicissitudes of the italian language) stimava sì il fiorentino del '300 come il volgare illustre per eccellenza, ma era altresì convinto che il trionfo delle tesi bembiane avesse nel complesso impoverito l'uso di tale volgare e arbitrariamente impedito l'uso letterario di tutti gli altri volgari. Costringere la lingua entro gli angusti spazi di un vocabolario, che sanziona il lecito e l'illecito, è come ucciderla, diceva il Foscolo. Infatti l'italiano per lui, come per C. Gozzi, era "una lingua morta".

· Per il Leopardi (che pur circoscriveva la questione della lingua a un mero problema di "stile") non avrebbe avuto senso adottare il fiorentino rinunciando a quei termini divenuti già nazionali o perché importati dalle lingue straniere o perché già impostisi a livello nazionale per unanime consenso degli intellettuali. Inoltre egli riteneva che nel suo presente si dovessero valorizzare gli apporti che poteva offrire il linguaggio popolare che, in taluni casi, poteva sicuramente rinnovare la lingua letteraria. In ogni caso anche per lui il primato andava concesso agli scrittori contemporanei più illustri, i quali, anche se inferiori a quelli del '300, erano comunque gli unici che potevano dare un carattere di "modernità" alla lingua e alla letteratura italiana.

· Come si può notare, non era quindi così scontata la strada della codificazione definitiva dell'egemonia del fiorentino sul territorio nazionale.

· Il primo a polemizzare contro tale dittatura culturale, che si voleva sancire con l'unificazione appena avvenuta, è stato il glottologo lombardo G. I. Ascoli (Lettere glottologiche, 1887), che riprese alcune tesi di G. Baretti, sviluppandole in maniera originale. Egli infatti da un lato è disposto a riconoscere l'importanza del fiorentino per gli esordi della lingua italiana, ma dall'altro è convinto che i tempi siano sufficientemente maturi perché gli intellettuali comincino a valorizzare anche le altre parlate, altrimenti essi finiranno col compiere un mero lavoro imitativo di un linguaggio estraneo (come poi è avvenuto nei Promessi sposi). Tanto più che Firenze non è più, come un tempo, l'unico centro culturale della nazione, né è possibile sostenere che il dialetto fiorentino dell'800 sia ancora quello dei grandi scrittori del '300. Paragonare Firenze a Parigi -come fa il Manzoni- non ha senso, dice l'Ascoli.

· Dunque ogni lingua, specie se essa viene messa per iscritto, doveva esser degna di studio. La soluzione al problema dell'unità linguistica doveva esser cercata -dice l'Ascoli- nella maggior diffusione degli scambi e dei contatti tra i parlanti della nazione (unità nella molteplicità).

· In Germania -dice l'Ascoli- la Riforma protestante, diffondendo largamente l'istruzione elementare e la lettura (in tedesco) dei testi sacri, aveva creato una vasta circolazione di idee ed esperienze che avevano saputo sopperire, ai fini d'un alto grado di omogeneità linguistica, all'assenza di unità politica. In Italia questo non era avvenuto. Anzi da noi la frammentazione etnico-linguistica aveva raggiunto livelli tali da paragonarci alla sola India, che però ha una superficie 14 volte maggiore. Imporre un dialetto su tutti gli altri sarebbe stato impossibile senza un forte governo centrale.

· Il filologo abruzzese F. D'Ovidio non era lontano da queste posizioni.

· Tra la corrente antimanzoniana, vanno segnalati:



1. C. Cattaneo (Principio istorico delle lingue europee, 1841), che evidenzia l'influsso delle parlate pre-latine sui dialetti italiani;

2. il milanese C. Porta, per il quale la poesia non può avere codici prefissati; il vernacolo da lui usato s'avvale di presupposti colti modulati dalla satira e dall'ironia popolaresca;

3. il romano G.G. Belli, il cui sonetto dialettale spiega bene l'affinità fonologica del dialetto romanesco col fiorentino; affinità dovuta al fatto che a partire dall'epoca dei Medici, vicini alla corte pontificia, questa, per ragioni politico-amministrative, si convinse ad adottare il fiorentino parlato (prima di allora il romanesco era più simile ai dialetti meridionali).



· Forse la corrente più antimanzoniana di tutte fu la Scapigliatura:



1. Il piemontese G. Faldella usava parodiare la lingua colta mixandola con dialettismi piemontesi integrali, latinismi, grecismi, onomatopee, neo-coniazioni ecc.

2. Il milanese V. Imbriani era un ironico avversario del purismo, del monolinguismo e di chi disprezzava i dialetti e i neologismi; amava le avventure sperimentali sulla lingua (in questo anticipa Gadda e D'Arrigo). Voleva fondere lingua letteraria e popolare, letteratura e vita, lingua nazionale e dialetti. Il dialetto lo considerava come la radice fondamentale di tutti gli idiomi parlati dal popolo italiano, come la fonte irrinunciabile dell'espressività parlata e scritta di ogni persona;

3. C. Dossi mescolava milanese e toscano popolare.



· Un altro acceso antimanzoniano è il verista siciliano G. Verga, che rifiuta nei suoi romanzi di usare un lingua e una sintassi già fatte e collaudate (come appunto nei Promessi sposi), preferendo invece escogitare (oltre a un'epica sconosciuta alla prosa italiana) una sintassi che s'adatti al parlato dei protagonisti (popolari), i quali anche se non usano il dialetto siciliano, parlano come se fossero loro stessi a raccontare le cose ("scrivere parlato"), cioè come se fossero autonomi dalla soggettività dello scrittore. La lingua quindi, non essendo dell'autore, deve necessariamente adattarsi alla sintassi dei protagonisti.

· Su questa particolare attenzione da rivolgere al parlato era d'accordo anche G. Giusti.

· Tuttavia, nonostante la corrente antimanzoniana fosse di gran lunga più cospicua di quella manzoniana, fu quest'ultima che il governo sabaudo decise di far prevalere.

· Il Manzoni fu posto a capo di una commissione del Ministero della Pubblica Istruzione. Il primo risultato dei lavori fu la stesura di un Dizionario della lingua italiana, basato sulla parlata fiorentina colta. Nelle scuole si adottarono manuali antidialettali e per un certo tempo fu seguita la pratica del trasferire i maestri dalla propria regione d'origine in altra di dialetto diverso, al fine d'impedire che usassero il proprio dialetto.

· Questo, senza considerare che nel 1861 l'80% della popolazione risultava analfabeta, conoscendo soltanto il proprio dialetto (10 anni dopo il 60% delle persone in età scolare rifuggiva ancora dall'obbligo scolastico).

· Al tempo dell'unità, se si escludono i toscani, i romani e gli alfabetizzati, l'italiano era parlato da non più di 700.000 persone (su un totale di 25 milioni di persone). Persino il re Vittorio Emanuele II sapeva parlare solo in francese e in dialetto piemontese.

· Naturalmente con la scolarizzazione, l'emigrazione forzata verso le zone industriali e col trasferimento dei giovani di leva in tutto il territorio nazionale, l'uso della lingua italiana tendeva a imporsi sui dialetti. Nel primo decennio del '900 la percentuale degli analfabeti era ridotta al 38%.

· Il disprezzo che le autorità governative nutrivano nei confronti dei dialetti porterà ad adottare, col fascismo, provvedimenti antistorici, dettati solo dalla demagogia: si vietò qualunque uso dialettale nelle scuole (fino a quel momento nelle Elementari i maestri erano stati praticamente bilingui), si proibì l'uso di forestierismi, si ripristinarono parole della classicità romana, si abolì l'uso del "lei" a favore del "voi", s'impose l'italofonia in Alto Adige, si manipolarono i dizionari…

· E pensare che G. Gentile, autore della Riforma scolastica che porta il suo nome, ridimensionava alquanto l'uso della grammatica e affermava il ruolo positivo dei dialetti.

· Persino Croce, favorevole alla libertà creativa della parola, negava qualunque potere normativo alla lingua, specialmente in campo poetico e letterario. Qualunque programma di lingue illustre imposto ai parlanti gli pareva una violazione della libertà di espressione e comunicazione.

· Discorso a parte andrebbe fatto per il Manifesto futurista (1909) di F.T. Marinetti, il quale se da un lato inneggiava alle parole in piena libertà, portando all'eccesso l'eversione anarchica predicata dagli scrittori del "Caffè", dall'altro, proprio per questo suo forzato individualismo (lontano dalle contraddizioni sociali), apriva le porte, inevitabilmente, a soluzioni di tipo autoritario.

· Gli antimanzoniani dell'800 chiedevano di elevare i dialetti al rango di lingue, non di contrastare l'egemonia del fiorentino favorendo l'assoluta arbitrarietà delle parole.

· Il fatto è che l'affermarsi dell'idea di nazione implicava un nesso inscindibile con l'unficazione linguistica. Altre nazioni europee avevano già percorso questa strada. La lingua -dice Gramsci- inevitabilmente veniva considerata dalle classi dominanti più come uno strumento di politica culturale per la conservazione del potere che non come una risorsa da valorizzare. La corrente manzoniana, convinta della natura progressiva dell'unità nazionale sotto il vessillo di Casa Savoia, fu quella che si lasciò strumentalizzare più facilmente.

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