ANALISI TESTUALE: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 
 

HOME PAGE


EPISTOLE - XII






Le motivazioni che inducono Dante allo sdegno e al rifiuto sono compendiate nelle definizioni che egli dà di se stesso: «un uomo familiare con la filosofia» e «un uomo che predica la giustizia».
In sostanza, egli vuol dire, l'uomo di studio (il filosofo) merita di avere un trattamento diverso, anche nella lotta politica, da quello riservato alla gente comune; l'uomo che sta dalla parte della giustizia non può ammettersi colpevole, poiché, così facendo, commetterebbe ingiustizia a sua volta, riconoscendo ai suoi avversari la ragione che non hanno.
Lo scrittore in esilio aveva dunque sublimato la propria immagine, identificando la propria posizione con il vero e il giusto in assoluto. È opportuno un riscontro con i dati storici di cui siamo a conoscenza relativi alla vita del poeta nel periodo a cui risale la lettera. Fallita l'impresa di Enrico VII, Dante si era staccato definitivamente dalla Toscana; dal 1312 viveva a Verona, ospitato dal signore della città, Cangrande della Scala; da Verona si sarebbe quindi trasferito a Ravenna presso altri signori, i da Polenta.
L'allontanamento dalla Toscana e la consapevolezza di aver perduto ogni possibilità di ritorno a Firenze implicano un cambiamento profondo nel concetto che Dante aveva della professione intellettuale.
Interrotto il legame con l'ambiente del Comune, venuta meno la necessità che questo imponeva di scegliere una posizione tra gli schieramenti di parte, cadeva anche la convinzione, ancora dichiarata esplicitamente nel Convivio, di potersi indirizzare a un pubblico noto e specifico, di dover contribuire alla diffusione del sapere in quell'organismo, territorialmente ristretto ma vitalissimo, che era lo stato-città, di dover costruire un'ideologia che i cittadini importanti potessero sentire come propria e si pensi alla teoria della nobiltà esposta nel Convivio.
Il nuovo ambiente, di cui il poeta fiorentino era entrato stabilmente a far parte, era quello, ormai consolidato nell'area padana, degli Stati a regime signorile, imperniati quindi su un'egemonia personale.
Qui l'intellettuale lavorava non più in rapporto a un gruppo sociale, sia pure ristretto, ma a contatto con il signore, che lo proteggeva e lo onorava in ragione della sua utilità, della sua bravura, del suo prestigio (di qui l'affermazione orgogliosa di Dante: «Né certo mancherà il pane»).
Rileggiamo, alla luce di queste osservazioni, le righe finali della lettera. Vi è proclamata una certezza: esistono verità, ovunque immutabili, così come è stabile, e immutabilmente regolata da un ordine, la natura; alla contemplazione di queste verità può dedicarsi, in qualsiasi luogo e momento, il poeta-sapiente. Il sapere non è considerato quindi come il prodotto storico e mutevole di una collettività umana, ma come valore astratto e fisso; l'intellettuale non appartiene né a una parte politica né a una società reale, ma soltanto all'ideale società di coloro che sanno.
Abbiamo già parlato di sublimazione, da parte di Dante, della sua condizione di esule: in questa lettera infatti egli ribalta il suo isolamento in superiorità, la sua sconfitta politica in segno del proprio aver ragione, la dipendenza dai signori in possibilità di meditare non più a uso dei cittadini di Firenze, ma in funzione esclusiva della conquista del vero.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it