Il dolce stil novo segna l'inizio della grande poesia italiana; nasce a Bologna col Guinizelli e si sviluppa in Toscana, particolarmente a Firenze. Alcuni ritengono che la nuova poesia derivi dalla fusione della teoria dell'amore, ideale dei provenzali con i principi della filosofia scolastica; altri. affermano che essa sia creazione italiana e segni nei riguardi della precedente una vera rivoluzione. I caratteri della scuola, secondo il Rossi, vanno ricercati soprattutto nello stile, inteso «come espressine fedele e diretta degli stati d'animo, lucidamente intuiti dalla fantasia, dolce espressione dei dolci stati, aspra degli aspri, grave dei gravi, turbinosa e sconvolta dei turbinosi e sconvolti ». In realtà il movimento, come tutti quelli di cultura, ha molteplici aspetti filosofici, etici, psicologici, ma la novità dello stil novo è da ricercarsi nell'espressione limpida e pura, assai diversa da quella contorta e semibarbara della poesia precedente. I poeti nuovi si accordano nel fissare un particolare atteggiamento del gusto, nel sentire e rappresentare le cose con determinati. toni e forme nel preferire immagini delicate, colori tenui, versi dolci e leggiadria .
Il nome della scuola risale ai famosi. versi di Dante, nel canto XXIV del Purgatorio L'Alighieri, incontrato tra i golosi il poeta
Bonagiunta Orbicciani da Lucca, gli svela quale è il segreto delle «nove rime».: all'anima che gli chiede se egli sia proprio colui che iniziò un nuovo genere di poesia con la canzone «Donne ch'avete intelletto d'amore», così risponde:
« ... I' mi son un, che quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro, vo significando ». |
Bonagiunta, convinto della spiegazione di Dante, dichiara di comprendere ora perché
Jacopo da Lentoni, Guittone d'Arezzo e lui siano rimasti fuori del dolce stil novo:
«Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a riguardare oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo». |
Dunque, secondo i versi danteschi, il carattere nuovo della poesia degli stilnovisti rispetto a quella clei siciliani e dei guittoniani, più rozzi e imitatori delle ricercatezze stilistiche e metriche e del poetare oscuro dei provenzali, consiste in un contenuto veramente sentito e nella corrispondenza perfetta, tra l'ispirazione spontanea e l'espressione.
Lo stil novo canta l'amore, considerato come sentimento nobile e elevato, ma umano, che fiorisce nel cuore, gentile e generoso, non in quello rozzo e meschino. Dice il
Guinizelli: «Al cor gentil repara sempre Amore»; Dante ripete lo stesso tema poetico nella Vita Nova: «Amor e 'l cor gentil sono una cosa», e nell'Inferno (V, 100): «Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende». L'amore (secondo la dottrina diffusa tra gli ultimi trovatori e introdotta in Italia da
Chiaro Davanzati e da altri poeti toscani) desta nel cuore dell'uomo la nobiltà spirituale, che non è nobiltà di sangue e di casta, ma quella che a ognuno deriva da Dio, dalla natura, dalla virtù; esso ispira umiltà, disposizione al bene, càrità, e distrugge nel cuore ciò che è vile, ogni pensiero malvagio, ogni moto d'ira. La donna appare «una cosa venuta - da cielo in terra a miracol mostrare»; è figura evanescente, è luce che, riscalda e purifica, è creatura angelicata, le cui, qualità spirituali sono così alte, da renderla una idealità mistica, che suscita nel cuore dell'uomo gentilezza, commozione, virtù, bontà, perfezione morale, pace, beatitudine. A lei sono prodigati onori quasi divini, perché è creatura superiore, pura, intermediaria tra Dio e l'uomo, scala al Fattore (con Dante è divinizzata). Talora è ritratta su di uno sfondo mirabile (paesaggio splendente, prato fiorito, acque cristalline), che crea un'atmosfera, di sogno e d'incantesimo.
Ciascun poeta, però, pur seguendo certi modi stilistici, princìpi estetici e procedimenti tecnici del nuovo indirizzo (indagine psicologica approfondita e sottile, sentimento di tristezza tenue e soave, esigenza di una lingua ricca, elegante, pieghevole, delicatezza di espressione, scelta raffinata di immagini elevate e intellettive, armonia delicata dei versi), ha una propria fisionomia e personalità, in quanto non usa sempre determinati «temi poetici» e «luoghi comuni».
Guido Cavalcanti, ad esempio, solo talvolta vede nella donna la creatura ideale che innalza l'uomo verso i cieli, perché sente il fascino della donna vista nella
realtà naturale e sensibile, motivo di tormento, di smarrimento, di tristezza: egli ha dell'amore una concezione realistica e moderna, che lo avvicina al Petrarca (di lui il De Sanctis dice:
«È il primo poeta italiano che abbia il senso e l'aspetto del reale»).
Negli stilnovisti, specie nei, minori, spesso si nota la tendenza a rendere convenzionale e artificiosa la poesia dell'amore, il gusto di studiare filosoficamente questo sentimento, di descriverne in dettagliate analisi psicologiche gli effetti di teorizzarne la natura, di dissertare sottilmente sui rapporti tra virtù e amore, tra amore e cuor gentile, su alcuni termini, più consueti (umiltà, superbia, ira, mercede, pietà), infine la vaghezza di personificare le grazie della donna e gli stati d'animo in spiriti o spiritelli agiscono sull'uomo e lo lasciano come tramortito.
Però finche i poeti, che nei loro componimenti indulgono a queste manie, rivelano, rispetto ai precedenti rimatori provenzaleggianti, sentimento più sincero, delicato e dolce, cultura più raffinata, lingua più aristocratica e eletta, sicché pur essi contribuiscono all'elaborazione e al perfezionamento della nostra lirica d'arte. Naturalmente, non si devono prendere in considerazione le rime contorte e oscure, che sono estranee alla vera poesia.
Lo stilnovismo, nato in un ambiente culturale ristretto, quando vanno scomparendo gli ultimi poeti siciliani, tra cui l'eroico e gentile re Enzo, prigioniero dei Bolognesi sino alla morte (1272), avrà vasta risonanza letteraria e eserciterà profondo influsso sui lirici del Trecento, compreso il
Petrarca.
Al bolognese Guido Guinizelli (1240 c. - 1276: studioso di legge e di filosofia, giudice, podestà, mandato in esilio nel 1274 dal partito guelfo dei Geremei) Dante attribuisce la paternità dello stil novo chiamandolo «padre - mio e de li altri miei miglior che mai - rime d'amore usar dolci e leggiadre» Guinizelli, in realtà, ci dà il programma della scuola con la canzone già citata, più filosofica che poetica, «Al cor gentil repara sempre amore». Egli identifica l'amore con la nobiltà spirituale, dice che l'apparizione della bellezza femminile traduce in atto l'amore che potenzialmente si trova in cuore gentile, e afferma che a Dio il quale gli muoverà rimprovero per aver amato una donna
terrena, risponderà che la sua creatura gli era apparsa in sembianza di angelo: dà così inizio al motivo della donna angelicata che innalza lo spirito dell'uomo sino alla Divinità. Il Guinizelli «attinge le sue immagini non dai romanzi di cavalleria, ma dalla fisica, dall'astronomia, dai più bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la voluttà e l'abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte ... Guido non sente amore, non riceve e non esprime impressioni amorose, ma contempla l'amore e la bellezza con uno sguardo filosofico: quello che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma è pura idea, della quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente, quasi fosse persona viva» (De Sanctis). In altri componimenti, in cui non mancano echi provenzali e guittoniani, il Guinizelli tratta i soliti temi e descrive lo sbigottimento, il tremito, talvolta anche l'angoscia, da cui è preso in presenza della donna amata, graziosa e luminosa, fonte di virtù e amore. Di lui ci restano sette canzoni intere, due frammentarie, ballate e quattordici sono le rime migliori, pervase di fresco entusiasmo giovanile, di sentimento schietto e fervido, di vigore fantastico, ci permettono di ricostruire la personaltà poetica dell'autore, con cui la lirica, italiana, liberatasi dall'imitazione, assurge a vera nobiltà d'arte e crea la lingua nazionale.
Stilnovista più originale e più ricco d'ispirazione poetica è Guido Cavalcanti (1260 c. - 1300), uomo di studi, saggio e prode: a lui l'Alighieri dedica la sua opera giovanile, indirizza il sonetto «Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io», ne celebra l'arte eccellente e l'alto ingegno nel De vulgari eloquentia, nell'Inferno (canto X) e nel Purgatorio (canto XI).
Nato di nobile famiglia guelfa a Firenze, sposò Bice figlia del grande capo ghibellino Farinata degli Uberti, ma parteggiò con i Cerchi contro Donati. Mentre si recava in pellegrinaggio al santuario di San Jacopo di Compostella in Spagna, fermatosi, a Tolosa, s'innamorò di una certa Mandetta. Il 24 giugno 1300 con i capi dei bianchi e dei neri fu confinato a Sarzana; ma per malattia ottenne di ritornare presto in patria, ove morì nell'agosto dello stesso anno. Ebbe indole solitaria e sdegnosa (così lo ricorda il Boccaccio), irrequieta e appassionata: si dedicò, oltre che alla poesia, alla filosofia, con una propensione all'averroismo (a torto fu creduto irreligioso). Come il Guinizelli, Guido nella canzone «Donna me prega perch'io voglia dire», giovandosi appunto di spunti di filosofia averroistica e facendo sfoggio di scienza, tratta sistematicamente della causa, della virtù, della potenza, dell'essenza di Amore: questo è passione ardente e violenta, contemplazione dolce e sbigottita, adorazione dolorosa e gioiosa della creatura femminile ideale, che risplende nella mente dell'uomo come fantasma universale e immutabile. La canzone, difficile ed enigmatica, piacque, per la sua dottrina ai filosofi, dagli scolastici ai platonici, rinascimentali che la commentarono. Ma il Cavalcanti ci appare diversamente nei sonetti, semplici, spontanei, commossi, e nelle ballate, delicate, fresche, luminose (ci sono rimasti 52 componimenti), in cui canta l'amore per la sua donna, sia la Mandetta di Tolosa, sia monna Vanna detta Primavera. Ora il poeta è rapito dal fascino di lei e non può comprenderne adeguatamente la mirabile bellezza; ora desidera la morte per non soffrire per la sua passione; ora confida a due giovani e graziose contadinelle i suoi sentimenti per la donna di Provenza, che gli ha ferito il cuore, e scrive una lirica bellissima: «Era in penser d'amor». Nelle poesie del Cavalcanti rileviamo uno stile aristocratico, una squisita finezza artistica, una musicalità dolce e profonda, un puro splendore di cieli e di paesaggi, che formano una cornice di bellezza intorno al viso della donna; ma sentiamo anche palpitare il cuore del poeta, a cui l'amore procura gioia, tormento, paura, angoscia, dubbio, disperazione, sgomento e desiderio di morte. Una delle liriche più belle e caratteristiche di Guido e della nostra antica poesia è la ballata «Perch'i' no spero di tornar giammai»: egli, stanco e sofferente, lontano, dalla, patria (non si sa se nell'esilio di Sarzana o in Provenza), dominato dal pensiero della morte, senza speranze e desideri, in un momento di viva nostalgia, affida i suoi sospiri e dolori alla «ballatetta»: questa porti alla cara donna l'anima di Guido, appena sarà partita dal corpo, perché l'amore duri perenne anche dopo la morte.
Se in alcune liriche del Cavalcanti troviamo un'esasperata analisi psicologica con la complicata teoria degli «spiriti», cerebralismo, oscurità, fredda allegoria, in altre non sai se ammirare di più la fluidità della lingua, la semplicità e la grazia delle immagini, l'agilità delle strofe; il modo mirabile e suggestivo con cui s'iniziano certi componimenti, oppure l'intensa spiritualità, le passioni impetuose e gagliarde, la sofferenza del poeta, cantore dell'amore, del dolore, della morte.
Guido godé fama presso contemporanei e posteri, che di lui apprezzarono la sapienza nelle arti liberali, la dottrina filosofica, l'èloquenza, la cortesia, l'animo fiero, la modernità della poesia: oltre che da Dante, fu lodato dal
Villani, dal Compagni, dal
Boccaccio, dal Sacchetti, da Lorenzo il
Magnifico.
Accanto al Cavalcanti, il maggior rimatore del dolce stile è DANTE
ALIGHIERI, che della nuova poesia accoglie temi, spunti, atteggiamenti, lingua, stile, soprattutto nelle Rime e nella Vita Nova; ma questo argomento è trattato nella sexione dedicata a Dante.
Poeta stilnovista fu anche Cino De' Sighibuldi da Pistoia (1270 c. -1336), contemporaneo dell'Alighieri, che lo definisce «poeta dell'amore», e del Petrarca, a cui la morte dell'amico ispira il sonetto «Piangete, donne, e con voi pianga Amore». Fu ambasciatore, giudice,-insigne maestro di diritto nelle Università di Siena, Firenze, Perugia, Napoli, ma fu più noto come poeta. Compose, oltre 150 liriche in cui si trovano i temi e gli schemi tradizionali, in vita e in morte della donna amata (forse Selvaggia dei Vergiolesi di Pistoia), cantata ora come creatura soprannaturale e immagine di Dio, ora come creatura terrena, la cui bellezza suscita nel poeta commozione, gioia, molle e tenera sensualità, mentre la severità di lei è causa di malinconia, di sospiri, di pianto, di desiderio di morte (l'autore tende a umanizzare e a rappresentare il sentimento dell'amore con motivi realistici nuovi). Alcune poesie ci rivelano la passione politica di Cino (fu guelfo di parte nera), il dolore per le lotte fratricide, la nostalgia della patria lontana (fu esule), la tristezza per la morte di Arrigo VII. Ricordiamo anche una satira contro Napoli e canzoni in morte di Beatrice Portinari e di Dante.
Cino è acutopsicologo e poeta originale e sincero, quando canta il dolore, la malinconia, la stanchezza, la noia, il desiderio di riposo e di pace; ma di solito, ripete, aridamente le idee, i motivi, le formule, gli artifizi più consueti degli stilnovisti. Cìno, in realtà, è un letterato abile e raffinato, rinnovatore dello stile e del linguaggio, che Dante trova «elegante, schietto, compiuto, urbano». Egli preannuncia gli accenti, i toni, gli atteggiamenti della nuova poesia, particolarmente della lirica petrarchesca.
Poeti minori dello stil novo furono LAPO GIANNI (1260 c. - 1328 c.) amico di Dante e del Cavalcanti, autore di una quindicina di liriche, in cui è cantata una monna Lagia;
Gianni Alfani, amico e ammiratore del Cavalcanti, a cui indirizzò dall'esilio
una Ballatella dolente, pervasa da profonda malinconia e commossa nostalgia per la patria lontana e per la donna amata;
Dino (m. 1316) e Matteo (m. 1384)
Frescobaldi.
|