I romanzi del Foscolo e del Manzoni esercitarono una notevole influenza sui prosatori della prima metà dell’Ottocento e non solo per quanto riguarda il genere (autobiografico il primo, storico il secondo), ma anche per il tipo di prosa (rapida, nervosa, solenne fino all’enfasi la prima; lenta, serena, piuttosto dimessa la seconda).
Infatti i narratori di questo periodo composero o romanzi autobiografici o romanzi storici (in questi ultimi, però, furono più vicini, nei risultati, al modello di Walter Scott, che non del grande Alessandro). C’è da precisare, però, che non sempre lo stile di prosa adottato ed il genere di romanzo prescelto coincidono nel riferimento al modello seguito: per esempio Massimo D’Azeglio scrisse un romanzo autobiografico imitando la prosa del Manzoni e Francesco Domenico Guerrazzi compose romanzi storici imitando la prosa del Foscolo (egli stesso la definì “prosa poetica”). Un impegno comune, tuttavia, lega gli autori dell’una e dell'altra maniera, ed è quello politico, patriottico: gli uni e gli altri mirano a suscitare entusiasmi per la rivoluzione nazionale, a risvegliare l'orgoglio del tempo che fu, a rilanciare l’identità della nazione italiana.
Fra gli autori di romanzi autobiografici ricordiamo Silvio Pellico (“Le mie prigioni”), Massimo D’Azeglio (“I miei ricordi”) e Luigi Settembrini (“Le ricordanze della mia vita”).
Fra gli autori di romanzi storici ricordiamo lo stesso D’Azeglio (“Ettore Fieramosca o La Disfida di Barletta”, “Niccolò de' Lapi”), Tommaso Grossi (“I Lombardi alla prima crociata”, “Marco Visconti”) e Francesco Domenico Guerrazzi (“La battaglia di Benevento”, “L'assedio di Firenze”, “Beatrice Cenci”).
Un cenno meritano pure i cosiddetti memorialisti, cioè quegli scrittori che vollero tramandare i fatti salienti del Risorgimento di cui furono protagonisti o spettatori. Naturalmente il tema prediletto fu quello delle imprese garibaldine: le opere più famose sono quelle appunto di un garibaldino, Giuseppe Cesare Abba (“Da Quarto al Volturno: noterelle di uno dei Mille”, “Storia dei Mille”, “Vita di Nino Bixio” e “Cose garibaldine”).
Le tre tendenze su accennate confluiscono tutte nel romanzo di Ippolito Nievo “Le confessioni di un italiano”, scritto fra il 1857 ed il 1858 e pubblicato postumo col titolo “Le confessioni di un ottuagenario”. L’Autore immagina che il vecchio Carlo Altoviti (suo nonno materno), giunto alla veneranda età di circa ottant’anni, racconti le vicende della sua vita intrecciate con quelle dell’Italia risorgimentale. Il romanzo può essere diviso in due parti: nella prima l’ottuagenario racconta della sua infanzia trascorsa nel castello di Fratta, nel Friuli, ospite di uno zio, fino alla caduta della repubblica veneziana. In questa parte del libro sono notevoli le descrizioni d’ambiente e i ritratti di personaggi provinciali, mediocri ma boriosi, che tengono a far valere un qualche prestigio personale nelle ristrette mura di Fratta: un fine umorismo pervade queste pagine non disgiunto però da un senso di nostalgia per l’età passata e per i sani costumi d’un tempo; nella seconda parte l’ottuagenario narra le innumerevoli peripezie vissute come rivoluzionario e soldato della causa nazionale (due volte arrestato e condannato, prima a morte e poi ai lavori forzati, ed entrambe le volte miracolosamente salvato), i lutti familiari subiti (gli muoiono tre figli), l’esilio a Londra, ecc.. In questa parte del romanzo abbondano i racconti dei fatti salienti del nostro Risorgimento, di cui sono tratteggiate le figure dei personaggi più rappresentativi. A tenere unita tanta varietà di argomenti vale la vicenda dell’amore di Carlo per la cugina Pisana, il personaggio più complesso, ma anche più vivo, di tutto il romanzo: umile e al tempo stesso prepotente, leale ma dispettosa, sincera ma anche volubile. La vicenda di questo amore è narrata fin dal suo primo sbocciare al castello di Fratta, quando, ancora ragazzi, Carlo è conquistato dalla bellezza e dal temperamento effervescente della Pisana e questa si diverte ad ingelosirlo facendo la civetta con tutti, anche col cocchiere e col mugnaio. Gli anni passano e viene la separazione: Carlo è preso dal vortice della politica e la Pisana sposa un vecchio nobile, ma proprio la lontananza e le disavventure in cui anch’essa è coinvolta, riavvicinano i due amanti e sarà proprio la Pisana a salvare Carlo dalla forca ed a seguirlo, nel periodo più tormentoso della sua esistenza, nell’esilio londinese, durante il quale per soccorrere l’amico (che nel carcere di Gaeta è diventato cieco e riacquisterà la vista solo dopo la morte della Pisana) non esita a chiedere l’elemosina.
Molti dei fatti storici narrati nel romanzo furono vissuti in prima persona dall’Autore, il quale, nato a Padova nel 1831, fin da giovanissimo sposò la causa nazionale e fu fra i più ardimentosi garibaldini, fino a guadagnarsi il grado di colonnello durante la spedizione dei Mille. E proprio al rientro da tale spedizione egli trovò la morte, a soli trent’anni, in seguito al naufragio del piroscafo su cui viaggiava. La morte precoce gli impedì di apportare le necessarie rifiniture al suo romanzo, che per questo si presenta non privo di difetti (il maggiore dei quali è la frammentarietà della narrazione, in cui mal si armonizzano i vari toni dello stile, ora ironico e comico, ora grave e solenne); ma non gli impedì - nonostante anche i gravosi e pressanti impegni politici e militari - di comporre versi, novelle, tragedie ed ancora due altri romanzi (“Angelo di bontà: storia del secolo passato” e “Il conte pecoraio: storia del nostro secolo”).
Il suo nome, tuttavia, è ricordato per le “Confessioni”, che al di là pure dei sui difetti di struttura e di stile, resta il romanzo più notevole del primo romanticismo, dopo, ovviamente, i “Promessi Sposi”.
Un posto a sé spetta al romanzo “Fede e bellezza” scritto da Niccolò Tommaseo (1802-1874) nel 1840, che può essere definito il primo romanzo psicologico della letteratura italiana. Narra l’amore conturbante che lega due giovani, Maria e Giovanni, lei con un passato sentimentale piuttosto burrascoso, lui scrittore vagabondo: lei racconta a lui minutamente le sue scabrose avventure ed apprende dalla lettura di un diario i segreti inconfessabili di lui: vengono così alla luce gli istinti più belluini dei due sconcertanti protagonisti, che a volte esplodono nell’esasperazione sensuale, a volte si purificano in uno slancio di purezza e quasi di misticismo: materia torbida e luminosa ad un tempo che non piacque al Manzoni, il quale definì il romanzo dell’amico “un pasticcio di mezzo giovedì grasso e mezzo venerdì santo”.
Il romanzo rispecchia fedelmente la personalità dell’Autore, ricco di vizi e di virtù, dalla vita appassionatamente sensuale e pateticamente bigotta, ed è perciò interessante per mettere a fuoco l’immagine interiore del Tommaseo, che espresse il meglio di sé certamente nelle “Poesie”, una raccolta di liriche ispirate all’amor patrio, agli affetti familiari, alla fede cattolica.
La fama maggiore del Tommaseo è tuttavia legata ai suoi studi critico-filologici, dei quali ha lasciato vasta testimonianza in vari campi della cultura: “Dizionario estetico”, “Della storia civile nella letteratura”, “Dell’Italia”, “Dizionario dei sinonimi”, “Commento alla Divina Commedia”, “Nuovi studi su Dante”, “Dizionario della lingua italiana” in sette volumi, “Sull’educazione”, “La
donna”.
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