Nato il 15 giugno 1775 a Milano, ivi morto il 5 gennaio 1821. Molti hanno spostato di un anno la data della sua nascita accettando un'indicazione fornita dal poeta stesso in un suo sonetto. Ma la data 1776, per diffuso e radicato che sia l'equivoco, è smentita dalla documentazione dei registri battesimali. Suo padre, Giuseppe, era pubblico impiegato; piccolo-borghese, ligio alle vanità innocenti di un decoro che il mondo milanese aveva ereditato dalla dominazione spagnola: tanto da anteporre al proprio nome il non araldico "don", diritto acquistato da molti funzionari per cinquecento fiorini. Carlo studiò fino ai sedici anni in un collegio di religiosi, a Monza e poi a Milano. Vivace e zelante, forse anche per aver composto certi versi latini non conservatici, ebbe la nomina a "pastore d'Arcadia": ma il titolo equivaleva ormai semplicemente a un encomio scolastico, e il poeta ricorderà il fatto nell'età matura solo per dichiarare di aver conservato il diploma in cartapecora adibendolo a custodia di tabacco da fiuto. Sedicenne, il padre lo mandò in Germania, a impratichirsi nella lingua e negli usi del commercio; ma presto dovette richiamarlo perché il giovane si era scelta una ben diversa via di esperienze: tra amori goliardicamente volubili, conversazioni spericolate e cordialissimi indugi nelle birrerie. Di nuovo a Milano, ottenuto un impiego nell'Intendenza di Finanza, il Porta sfogò i primi entusiasmi del suo ingegno come filodrammatico: recitando e abbozzando trame, cominciò sulla materia viva e invitante dei palcoscenici quell'esperienza che certo ebbe nella sua maturazione un valore formativo equivalente alla cultura umanistico-letteraria di tanti altri. Siccome gli impegni teatrali stavano svelando pericolose inclinazioni a ideologie repubblicane, il prudente don Giuseppe allontanò di nuovo Carlo da Milano e lo mandò a Venezia. Qui si ripeterono le circostanze del soggiorno in Germania: invece che a un operoso tirocinio il Porta si dedicò alle libere giocondità di un mondo che nell'arguzia, nella galanteria, nel pettegolezzo ingegnoso e nell'intellettualistica indolenza stava irradiando gli ultimi bagliori di una civiltà ormai conclusa. Siamo nel 1798; da pochi mesi la Repubblica Serenissima è stata ceduta all'Austria dal baratto napoleonico di Campoformido; l'Europa sta rinnovando le sue strutture entusiasmandosi o ritraendosi inorridita per il dilagare delle ideologie rivoluzionarie che le armate francesi vanno propagando. E intanto il Porta caduto ventunenne nella rete dell'amore con una vedova, vive da scapigliato fra debiti ed euforie, conosce nella società della laguna i poeti dialettali che vi prosperavano. Qui veramente diventa uomo: dicono che scrivesse qualche lirica in veneziano - ma non ne abbiamo traccia: certo è che fu amico di Anton Maria Lamberti, l'autore della celebre Biondina in gondoleta - e certi componimenti osceni. Ma ben presto l'esuberante noviziato ebbe fine: già nel '99 il Porta aveva lasciato Venezia, tornando a Milano, come impiegato negli uffici del Debito pubblico, per restarvi finché visse. La conversione dalle sregolatezze della gioventù ai modi compassati di una maturità senz'altro precoce, forse resterebbe inspiegabile se non tenessimo presente la nascita di un esercizio poetico e il conseguente sfogo degli umori attraverso l'invenzione fantastica. Certo è che il Porta sui venticinque anni è già un pacifico borghese impiegato nelle pubbliche amministrazioni e diventerà buon padre di famiglia sposando Vincenzina Prevosti, facoltosa vedova dell'ex-ministro Arauco. Come quella di un po' tutti i dialettali, la sua opera nasce in forme domestiche: e il suo lavoro letterario ha sempre qualcosa che sembra dipendere dal passatempo il passatempo del buon milanese fedele agli obblighi del lavoro burocratico e agli usi della vita familiare, che per divertire sé e gli amici sfoga di tanto in tanto i doni di un'arguzia spontanea. Negli anni di maggiore attività, la figura di quest'uomo parrebbe soprattutto quella di un pacifico e scialbo cittadino. Unica eccezione, forse, quando l'amico T. Grossi pubblicò la Prineide (1815) e la diffusione anonima del componimento fece temere al buon Carlo che la voce pubblica, additando in lui l'autore di quei versi ostili all'Austria, finisse per metterlo nei guai. Protestò, si dichiarò alieno da avventure politiche, si agitò e spaventò finché il Grossi non dissipò l'equivoco. Parrebbe un pavido, ma in realtà non fu insensibile alle idealità morali e sociali che la cultura del Romanticismo stava diffondendo. Quanto alle sue poesie dialettali, sebbene la particolarità lessicale ne limiti l'intelligibilità fuori dai limiti geografici naturalmente imposti dallo strumento verbale, la sua conoscenza é indispensabile per un'organica valutazione della nostra civiltà romantica. Il Porta, con la sua voce modulata sul lessico e gli affetti del popolo milanese, realizzò in pratica una delle aspirazioni più forti del nostro Romanticismo: cioè l'interpretazione democratica, spontanea, libera dalle consuete mediazioni culturali, dei fatti della vita. Vide le cose con gli occhi del popolano: come un popolano fu pronto a commuoversi, a cercare il riso dei vicini nei momenti di allegria. Molti illustri contemporanei lo ebbero caro: dal Foscolo al Manzoni allo Stendhal. Della ricca e variata produzione poetica del Porta parecchi componimenti sono rimasti memorabili: i Diagrazi de Giovannin Bongee, Fra' Ginepro, La guerra dei preti, Lament del Marchionn di gamb avert , La Messa nuova, La nomina del cappellan, El viagg de fraa Condutt, La preghiera, La Ninetta del Verzee, tra i tanti.
|