Nato a Dasindo di Campomaggiore, nelle Giudicarie, il 27 gennaio 1814, morto a Roma il 9 maggio 1884, inizia in Italia la cosiddetta seconda maniera romantica, e si può dire esaurisca nella sua feconda e prolissa esperienza poetica l'intera parabola del romanticismo.
D'indole cavalleresca, ma inquieta e disordinata, ebbe vita avventurosa, momenti difficili, si attirò calunnie e persecuzioni, e solo nella tarda maturità il suo costante e sincero patriottismo e la sua fedeltà alla causa monarchica gli assicurarono, con qualche onore, una certa tranquillità di vita: non la gloria che egli attendeva dalla sua opera poetica, consegnata rapidamente, dopo i primi effimeri successi, all'indifferenza e all'oblio. A Padova non condusse a termine gli studi giuridici, ma in compenso diede assidua materia alle cronache goliardiche e mondane con i suoi facili e volubili amori, con le disavventure della vita privata, con i versi non scevri di patriottica audacia, che veniva pubblicando o declamando, investendosi con fervore della sua parte di poeta, ma anche interpretandoli con fatua teatralità, sensibile agli applausi e alle lusinghe di facili consensi. Per aver cantato dietro lo schermo di un trasparente anagramma il suo amore all'Italia ebbe fastidi dalla polizia; né per essersi trasferito a Milano nel '41 e a Torino nel '43 cessarono di accompagnarlo polemiche e calunnie (gli si volle addossare, fra l'altro, la responsabilità della morte immatura della prima moglie).
Negli anni che precedettero la prima guerra d'indipendenza peregrinò nel Lombardo-Veneto e in Svizzera; il '48 lo trovò in Padova, acceso animatore del sentimento nazionale e convinto fautore di Carlo Alberto. Arrestato in quell'anno stesso e confinato in Trentino, lo ritroviamo dopo pochi mesi a Venezia, subito allontanato dal Marin come elemento monarchico e perturbatore, e poi a Firenze, osteggiato e sfrattato a opera del Guerrazzi, suo tenace e implacabile accusatore. Legato alla politica sabauda, non gli rimaneva che ripiegare a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina a storiografo della Corona: titolo fastoso che valse a riattizzare nei malevoli diffidenza, insinuazioni e ostilità; modesto impiego in effetto, e modesto emolumento che non giustificano la nomea, con la quale si intese screditarlo, di poeta cesareo, e l'accusa di cantare su commissione piuttosto che per convinzione. Il secondo matrimonio rimise ordine nella sua vita sentimentale, e gli assicurò una tranquilla esistenza familiare. Con le accuse alla sua persona vennero placandosi anche le polemiche intorno alla sua opera, ch'egli persegui tuttavia indefessamente, sorretto da una vena facile e feconda, ma anche immalinconito dal declinare di quella popolarità che aveva pagato con molte amarezze, ma che non aveva mai cessato di cercare.
Nel '65 segui la Corte a Firenze, nel '71 a Roma, dove ebbe la direzione dell'Istituto Superiore di Magistero. E a Roma si spense tredici anni dopo. Sepolto a Torino, nel 1923 le sue ceneri furono trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Fra le opere sue più notevoli sono da ricordare l'Edmenegarda (1841), poemetto o racconto in versi che dir si voglia, nel quale, superando le evanescenze sentimentali delle precedenti Poesie (1835), dà inizio a quell'incertezza fra una maniera musicale e una maniera di gusto realistico e borghese che sarà, attraverso molteplici variazioni psicologiche e intellettualistiche, la sua cifra costante. La produzione posteriore, sparsamente pubblicata, fu raccolta in volumi dai titoli vari: Carati lirici (Canti), Canti per il popolo (1843), Ballate (1843), Nuovi canti (1844), Memorie e lagrime (1847), Passeggiate solitarie (1847), Storia e fantasia (1851), Canti politici (1852).
La figura del contraddittorio eroe romantico è ripresa in Rodolfo (1853); d'ispirazione goethiana e byroniana sono Satana e le Grazie (1855) e Il conte di Riga (1856); un romanzo in versi l'Ariberto (1860). Più notevole l'Armando (1864-'68), tardiva analisi del "mal du siècle" che si esaurisce in un vano anelito e in una fatale disillusione. Le ultime raccolte di versi Psiche (1876), e Iside (1878) chiudono in una forma più limpida e classicheggiante, più distaccata e contemplativa, i motivi di un romanticismo che aveva conosciuto momenti drammatici e fantasiosi. Il Prati è forse tra i molti poeti il più adatto a impersonare sia pure in un'immagine sfocata e in una sintesi approssimativa, i motivi cari alla sensibilità romantica. Ugualmente aperto all'idealismo e al verismo, a sollecitazioni decadenti e a richiami neoclassici, di quella sensibilità egli abbraccia con innegabile aderenza il panorama avventuroso; ma anche ne stempera e ne diluisce la tematica con sconcertante intemperanza, in una generica facilità di stile. Certo la sua opera poetica si svolse interamente entro i limiti del Romanticismo; e in ciò è la ragione del suo successo, clamoroso anche se effimero, e la ragione di un interesse più discreto e meno effimero che ne ripropone all'attenzione della critica la singolarità. Ma si svolse anche dentro i limiti di un facile dilettantismo, d'una disinvoltura che tiene spesso dell'improvvisazione, giustificando la reazione di quanti (e in primo luogo il De Sanctis) intesero più severamente l'esperienza romantica come raccolta elaborazione storico-dialettica, non come assimilazione centrifuga e
dispersiva.
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