LETTERATURA ITALIANA: NEOCLASSICISMO

 

Luigi De Bellis

 


 

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NEOCLASSICISMO




Il Neoclassicismo


Ippolito Pindemonte

Fra le mille voci che si alzarono nel firmamento del neoclassicismo italiano spicca quella di Ippolito Pindemonte, che non ebbe la fama del Monti, ma certamente produsse una poesia più lieve e più delicata e indubbiamente più originale e sincera.

Nato a Verona nel 1753, viaggiò molto in giovinezza in Italia, in Francia, in Germania, in Austria. L’anno della rivoluzione francese si trovava a Parigi con l’Alfieri (che lo aveva eletto "lavandaio" delle sue opere, a lui sottoponendole per una eventuale revisione prima della pubblicazione) e vide il Terrore, che bollò con una energica frase rimasta famosa: "... tutto, fuorché il delitto, era delitto."

E all’orror della guerra oppose sempre un pio desiderio di pace, un dolce abbandono alla contemplazione della Natura, ricercata piuttosto in tenui paesaggi velati di malinconia che non negli imponenti scenari di ardite catene montagnose. Non per nulla le sue opere più famose portano i titoli di "Poesie campestri" e "Prose campestri". Nella prima il Poeta canta la Solitudine, la Luna, la Salute, la Melanconia, la Giovinezza, il Mattino, il Mezzogiorno, la Sera, la Notte: dice di amare più la notte che il sole e di sentirsi appagato se può distendere l’animo nella pace della quiete assoluta, lasciandosi cullare dalla malinconia: egli non vuole onori e ricchezze, ma "fonti e colline" per vivere in pace sognando e contemplando la bellezza della Natura e del Vero. Questi beni nessuno mai potrà sottrarglieli:

   Né può di tempre
cangiar mio fato:
dipinto sempre
il ciel sarà.
   Ritorneranno
i fior nel prato
sinché a me l’anno
ritornerà.
   Melanconia,
ninfa gentile,
la vita mia
consegno a te. 

Questi versi, tratti dall’ode "Melanconia", che per altro non esprimono tutta intera la complessità dello 

stile del Pindemonte, danno il segno dell’estrema levità di cui era capace il Poeta e sarebbe errore volerli paragonare ai frivoli versi degli Arcadi settecenteschi. Giustamente il Flora avverte che "il pericolo di forzarne la musica a scopi di ilarità parodistica è più nell’animo del lettore sbrigativo e disattento, che non nella fragilità di quest’ode che par composta in una forma opalina di sottilissimo vetro."

E’ chiaro che il Pindemonte, votato per propria scelta alla corrente del neoclassicismo, respirò anch’egli l’aura romantica: non quella delle problematiche impegnative che portarono al totale rinnovamento della coscienza civile, ma certamente quella che promanava dall’Ossian e produceva un senso di intimo raccoglimento "che se invece di effondersi in una malinconica eloquenza si fosse raccolto in un canto nudo ed essenziale, come fu poi presso Leopardi, avrebbe dato alla poesia un nuovo palpito. Ma pur così, in quella sua delicatezza ambrata, molle, talvolta discorsiva, il Pindemonte riuscì poeta umano e vaghissimo" (Flora).

Le opere "campestri" videro la luce rispettivamente nel 1788 e nel 1794. Tra le altre opere ricordiamo i poemetti La Fata Morgana (1784) e La Francia (1789), le Epistole (1805), i Sermoni poetici (1819) e la meravigliosa traduzione dell’Odissea. Fu anche autore di una tragedia, l’Arminio (1804), che nella sua terza edizione (1812) fu accompagnata da tre Discorsi teatrali, grazie ai quali il Poeta ottenne un premio dall’Accademia della Crusca e l’onore di potervisi iscrivere. Da ultimo ricordiamo la composizione del poemetto I Cimiteri, lasciato incompiuto alla notizia che il Foscolo stava per dare alle stampe i suoi "Sepolcri": come è noto, il Poeta di Zante dedicò proprio al Pindemonte il suo carme e questi gli indirizzò l’epistola I sepolcri (1807).

Il Pindemonte morì nella sua città natale nel 1828 (lo stesso anno in cui morì il Monti, un anno dopo la morte del suo caro amico Foscolo, che pure era più giovane di lui di ben 25 anni).

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it