Crepuscolari
e Futuristi non hanno lasciato documenti
poetici di grande rilievo, ma la resa
senza condizioni dei primi di fronte
alla crisi morale e la violenta rivolta
stilistica dei secondi favorirono senza
dubbio i tentativi che altri fecero sia
per superare la crisi che per realizzare
una poesia veramente nuova e vaccinata
contro ogni possibilità di un ennesimo classicismo. Sono costoro i cosiddetti Poeti
Nuovi che diedero vita alla Poesia
pura, da cui derivò l’Ermetismo.
I
Poeti nuovi ripudiano tanto la
solennità di una poesia
vaticinante che si illudeva di poter
riscattare l’umanità dalle tenebre
del degrado morale (Carducci), quanto la
prosaicità avvilente di una poesia
ridotta a cantare le piccole
insignificanti avventure del quotidiano,
nutrita di una desolante rassegnazione
alla morte (Crepuscolari). Per essi la
poesia non deve rispecchiare alcuna
realtà, nobile od umile che sia, in
quanto è essa stessa creatrice di “realtà”,
va cioè considerata un universo in sé
compiuto ed autonomo. Essi non hanno
miti da illustrare e propagandare, ma «tendono
alla sincerità assoluta della
testimonianza esistenziale, approfondita
dallo scavo nella coscienza» (Pazzaglia).
Per questo essi rifiutano i nessi logici
fra le varie immagini, il discorso
coerente, il significato corrente delle
parole: cioè tutto quanto l’umanità
ha inventato per decifrare ed esprimere
la realtà che cade sotto gli occhi
dell’uomo storico. «...il
poeta constata che non ha più certezze
o miti da proporre col canto a gola
spiegata, oratorio e parenetico, ma può
salvare qualche relitto di un naufragio,
può solo offrire qualche
storta sillaba e secca: l’adozione
di nuovi moduli espressivi è quindi
conseguenza di una nuova posizione etica»
(Guglielmino).
In
effetti i Poeti puri depurano la parola
di tutti i significati che le si sono
sovrapposti durante il suo corso storico
e cercano di coglierla nella sua
primitiva verginità, usandola più per
le sensazioni primigenie che riesce ad
evocare e per il suono che produce che
per il suo significato attuale. Inoltre
fanno largo impiego dell'analogia per
ottenere quell’essenzialità
indispensabile a chi ha rinnegato ogni
espressione logico-discorsiva.
Barberi-Squarotti così commenta un
esempio di analogia tratto da Ungaretti:
Tornano
in alto
ad ardere le favole
|
«...non
è più
possibile ricostruire i passaggi
di fantasia e di immagini che hanno
fatto di quelle stelle
le favole,
ma rimane viva e chiara la suggestione
di lontananza, di sogno e di speranza
(forse di favole
udite alla luce delle stelle,
o di illusioni cadute che tornano a
risplendere nel cielo della vita) che
l’analogia, l’identificazione dei
termini hanno voluto creare». Con
ciò il critico ci vuol fare intendere
che è quasi impossibile voler
ricostruire il percorso effettuato dalla
fantasia del poeta, ma non è
impossibile stabilire intuitivamente
un’intesa, una corrispondenza con
l’emozione provata dal poeta, capace
di suscitare in noi una emozione, magari
anche di natura diversa, ma non per
questo priva di quella misteriosa carica
che riuscirà a far vibrare le corde
della nostra commozione.
Tra
i rappresentanti più significativi
della
Poesia pura ricordiamo Giuseppe
Ungaretti, Eugenio Montale ed Umberto
Saba.
Giuseppe
Ungaretti nacque, da genitori
lucchesi, ad Alessandria
d’Egitto nel 1888. Trasferitosi
a Parigi per ragioni di studio (frequentò
la Sorbona), strinse rapporti di
amicizia con Picasso e Apollinaire. Nel
1914 venne in Italia e cominciò a
pubblicare le sue prime poesie su “Lacerba”.
Intanto, allo scoppio della prima guerra
mondiale, si schierò dalla parte degli
interventisti e partecipò poi egli
stesso alla guerra in prima linea,
ricavando proprio dagli orrori della
guerra le
indicazioni più determinanti sia
per le sue scelte morali, sia per quelle
artistiche, sia per quelle religiose.
Dopo la guerra si stabilì a Roma, ove
visse in ristrettezze economiche, finché
non si trasferì, nel 1936, a San Paolo
del Brasile, ove
gli venne assegnata
la cattedra di lingua e
letteratura italiana presso
l’università. In Brasile fu colpito
da una grave disgrazia, la morte del
figlioletto Antonietto, di appena nove
anni, che lo sconvolse enormemente.
Finalmente nel 1947 poté far
ritorno in Italia, essendo stato
chiamato all’università di Roma ad
insegnare letteratura moderna e
contemporanea. Morì a Milano nel 1970.
La
sua prima raccolta di versi risale al
1916, “Il
porto sepolto”, seguita nel 1919
dalle poesie di “Allegria
di naufragi”. Vennero poi le
raccolte di “L’Allegria”
(1931), “Sentimento
del tempo” (1933) e “Il
dolore”
(1947). Tutte le sue poesie sono ora
raccolte nel libro della Mondadori “Vita
di un uomo”.
«L’analogia,
fondamento della poetica ungarettiana,
è una similitudine privata del come,
cioè d’ogni riferimento logico; è
l’accostamento di cose e sensazioni
apparentemente lontane e la scoperta
d’una loro relazione organica, della
fusione di esse e dell’animo che le
intuisce, nell’elementare unità
dell’essere. E' un procedimento tipico
della poesia decadentistica e
simbolistica, che l’Ungaretti riduce
all’essenziale: non più a un fluire
di immagini, ma alla vibrazione
evocativa della parola singola; ...E'
come se il poeta riscoprisse la
fase originaria del linguaggio,
quando il dare un nome alle cose fu per
l’uomo la scoperta intuitiva del suo
rapporto col mondo. A questa
primitività,
a questa innocenza tende tutta la poesia
dell’Ungaretti. » (Pazzaglia).
Qualche
esempio:
IL
PORTO SEPOLTO (1916)
Vi
arriva il poeta
e poi torna alla luce con i
suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d'inesauribile segreto
MATTINA
(1917)
M'illumino
d'immenso
|
SAN
MARTINO DEL CARSO (1916)
Di
queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel mio cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato
|
Tra
le due raccolte più significative delle
poesie ungarettiane, “L’Allegria”
e “Sentimento
del tempo”, vi sono delle
differenze che è opportuno notare.
Nella prima raccolta è cantata
prevalentemente la pena dell’Uomo-Ungaretti,
nella seconda la pena esistenziale
dell’Uomo moderno. Nella prima il
Poeta mette a nudo la parte più riposta
della propria coscienza, nella seconda -
aiutato dalle riconquistate certezze
della fede -
va alla ricerca di quel filo che
lega l’effimero scorrere del tempo con
l'eterno. Nella prima esaspera il metodo
analogico dell’espressionismo più
puro, nella seconda tenta un recupero
dei metri tradizionali al servizio
dell’analogia, confidando egli stesso:
«Rileggevo
umilmente i poeti, i poeti che cantano.
Non cercavo il verso di Jacopone o
quello di Dante o quello del Cavalcanti
o quello del Leopardi: cercavo in loro
il canto. Non era l’endecasillabo del
tale, non il novenario, non il
settenario del tal altro che cercavo;
era l’endecasillabo, era il
novenario, era il settenario, era il
canto italiano,
era il canto della lingua
italiana che cercavo nella sua costanza
attraverso i secoli, attraverso voci
così numerose e così diverse di timbro
e così gelose della propria novità
e così singolare ciascuna
nell’esprimere pensieri e
sentimenti: era il battito del mio cuore
che voleva sentire in armonia
con il battito del
cuore dei miei
maggiori di una terra
disperatamente amata».
Ecco
una poesia in cui abbondano gli
endecasillabi:
LA
MADRE (1933)
E
il cuore quando d'un ultimo
battito
avrà fatto cadere il muro
d'ombra,
per condurmi, Madre, sino al
Signore,
come una volta mi darai la
mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti
all'Eterno,
come già ti vedevo
quando eri ancora in vita.
|
Alzerai
tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà
perdonato,
ti verrà desiderio di
guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso
tanto,
e avrai negli occhi un rapido
sospiro.
|
Eugenio
Montale nacque a Genova nel 1896 e lì
portò a termine gli studi liceali,
iscrivendosi poi alla facoltà di
lettere. A causa della prima guerra
mondiale, che lo impegnò come ufficiale
di fanteria, dovette sospendere gli
studi universitari. Dopo la guerra si
avvicinò alle idee liberali del Gobetti
e collaborò alla rivista “La
Rivoluzione liberale”, nella quale
pubblicò le sue prime poesie. Passò
poi a Firenze a dirigere il Gabinetto
scientifico letterario “G.P.
Vieusseux”, ma circa dieci anni
dopo, nel 1939, essendosi rifiutato di
iscriversi al Partito fascista, fu
licenziato (egli, infatti, a differenza
dell’Ungaretti che nutrì una certa
simpatia per il Mussolini ed accettò
finanche che questi scrivesse la “presentazione”
alla sua raccolta di versi “Il
porto sepolto” nell’edizione del
1923, fu sempre ostile alla dittatura
del Duce). Comunque egli proseguì nella
sua attività di poeta, ampliandola con
quella di traduttore (soprattutto
dall’inglese), di critico letterario
(si deve a lui la scoperta italiana di
Italo Svevo nel 1925) e di critico
musicale (aveva anche tentato la
carriera di baritono nel teatro lirico
ma senza successo). Dopo la seconda
guerra mondiale si trasferì a Milano,
ove nel 1947 fu redattore del “Corriere
della Sera” e morì nel 1981.
Le
sue raccolte di poesie
più
importanti sono
“Ossi
di seppia” (1925), “Le
occasioni” (1939) e “La
bufera e altro” (1956), ma non
sono da dimenticare le successive
poesie, i racconti, le prose poetiche e
i numerosi saggi ed articoli di critica
letteraria, politica e musicale.
Anch’egli
esprime nella sua poesia l’angoscia
esistenziale
di se stesso e dell’uomo
moderno, la pena del vivere che assurge
ad emblema della vita universale, ma la
sua angoscia è senza speranza, non
riesce a trovare alcuna fede che potesse
in qualche modo riscattarla o almeno
finalizzarla ad un ideale superiore. «Il
pessimismo del poeta - scrive il
Pazzaglia -
è
radicale. Vivere, per lui, è un
continuo perdersi in una trama di atti e
di gesti vani, dietro i quali sta il
vuoto, un incomprensibile destino di
delusione totale, d'incomunicabilità
assoluta...
La
sua poesia è molto spesso oscura, ma
non si tratta, almeno in generale, d'una
oscurità programmatica e compiaciuta.
Essa nasce soprattutto dalla scoperta
dell’assurdità del reale, del
rovesciamento delle certezze
apparentemente più solide».
Per
quanto riguarda lo stile, anche il
Montale chiede alla parola piuttosto una
carica evocativa che un significato
certo, ma egli non giunge al ripudio
totale dell’espressione poetica
tradizionale del primo Ungaretti e si
avvicina, semmai, all'ultima esperienza
del poeta di “Sentimento
del tempo”.
Ed
ora due esempi tratti dalla raccolta “Ossi
di seppia”:
MERIGGIARE
PALLIDO E ASSORTO
Meriggiare
pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli
sterpi
schiocchi di merli, frusci di
serpi.
Nelle crepe del suolo o su la
veccia
spiar le file di rosse
formiche
ch'ora si rompono ed ora
s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il
palpitare
lontano di scaglie di mare,
mentre si levano tremuli
scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che
abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo
travaglio
in questo seguitare una
muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di
bottiglia.
|
SPESSO
IL MALE DI VIVERE...
Spesso
il male di vivere ho
incontrato:
era il rivo strozzato che
gorgòglia,
era l'incartocciarsi della
foglia
riarsa, era il cavallo
stramazzato.
Bene non seppi, fuori che il
prodigio
che schiude la divina
Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e
il falco levato.
|
Umberto
Saba
va anche annoverato fra i Poeti
nuovi, fra quelli, cioè, che tentarono
vie nuove alla poesia italiana, ma la
sua esperienza artistica ha ben poco
in comune con quelle del Montale e
dell’Ungaretti. Semmai qualche
contatto possiamo vedere con la poesia
dei Crepuscolari, in quanto anch’egli
si dedicò al canto delle piccole cose
quotidiane, ma è bene precisare che
anche qui si tratta di una somiglianza
puramente epidermica, dal momento che
l’atteggiamento psicologico e morale
è ben diverso nel Saba: infatti egli
accettò la vita, pur considerandola
dolorosa, solidarizzò con gli uomini,
specialmente i più umili («Qui
degli umili sento in compagnia / il mio
pensiero farsi / più puro dove più
turpe è la vita»), e credette in
taluni valori semplici da dover cantare
con le parole del
linguaggio comune
(«La
fede avere / di tutti, dire / parole,
fare / cose che poi ciascuno intende, e
sono,/ come il vino ed il pane,/ come i
bimbi e le donne, / valori / di tutti»).
Quindi l’uso che fa della parola è
anche ben diverso rispetto agli altri
poeti nuovi del suo tempo, in quanto
egli non ricerca suggestioni evocative
ma significati pregnanti e concreti
legati alle cose ed al linguaggio
comune.
Il
Saba nacque a Trieste nel 1883 da madre
ebrea e padre cristiano. Questi, prima
ancora che nascesse il figlio, abbandonò
la moglie, sicché il bambino crebbe
praticamente senza padre. Dopo una breve
carriera scolastica irregolare e senza
esito, partì per il servizio militare,
che gli fu di grande aiuto per la sua
formazione. Nel 1912 aprì una libreria
antiquaria a Trieste e per tutta la vita
restò fedele alla sua città natale ed
alla sua attività commerciale, se si
eccettuano gli anni della seconda guerra
mondiale durante i quali dovette
riparare prima a Parigi e poi a Roma per
sottrarsi alle persecuzioni naziste
contro gli ebrei.
Morì
a Gorizia nel 1957.
Tutte
le sue poesie, numerosissime, sono
raccolte in un “Canzoniere”
che ha avuto diverse edizioni.
Riportiamo
ora una delle poesie più famose del
Saba:
LA
CAPRA
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era
legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era
fraterno
al mio dolore. Ed io risposi,
prima
per celia, poi perché il
dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro
male,
ogni altra vita.
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