LETTERATURA ITALIANA: IL NOVECENTO

 

Luigi De Bellis

 


 

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NOVECENTO







Il Novecento: La poesia pura

Crepuscolari e Futuristi non hanno lasciato documenti poetici di grande rilievo, ma la resa senza condizioni dei primi di fronte alla crisi morale e la violenta rivolta stilistica dei secondi favorirono senza dubbio i tentativi che altri fecero sia per superare la crisi che per realizzare una poesia veramente nuova e vaccinata contro ogni possibilità di un ennesimo classicismo. Sono costoro i cosiddetti Poeti Nuovi che diedero vita alla Poesia pura, da cui derivò l’Ermetismo.

I Poeti nuovi ripudiano tanto la  solennità di una poesia vaticinante che si illudeva di poter riscattare l’umanità dalle tenebre del degrado morale (Carducci), quanto la prosaicità avvilente di una poesia ridotta a cantare le piccole insignificanti avventure del quotidiano, nutrita di una desolante rassegnazione alla morte (Crepuscolari). Per essi la poesia non deve rispecchiare alcuna realtà, nobile od umile che sia, in quanto è essa stessa creatrice di “realtà”, va cioè considerata un universo in sé compiuto ed autonomo. Essi non hanno miti da illustrare e propagandare, ma «tendono alla sincerità assoluta della testimonianza esistenziale, approfondita dallo scavo nella coscienza» (Pazzaglia). Per questo essi rifiutano i nessi logici fra le varie immagini, il discorso coerente, il significato corrente delle parole: cioè tutto quanto l’umanità ha inventato per decifrare ed esprimere la realtà che cade sotto gli occhi dell’uomo storico. «...il poeta constata che non ha più certezze o miti da proporre col canto a gola spiegata, oratorio e parenetico, ma può salvare qualche relitto di un naufragio, può solo offrire qualche storta sillaba e secca: l’adozione di nuovi moduli espressivi è quindi conseguenza di una nuova posizione etica» (Guglielmino).

In effetti i Poeti puri depurano la parola di tutti i significati che le si sono sovrapposti durante il suo corso storico e cercano di coglierla nella sua primitiva verginità, usandola più per le sensazioni primigenie che riesce ad evocare e per il suono che produce che per il suo significato attuale. Inoltre fanno largo impiego dell'analogia per ottenere quell’essenzialità indispensabile a chi ha rinnegato ogni espressione logico-discorsiva. Barberi-Squarotti così commenta un esempio di analogia tratto da Ungaretti:

Tornano in alto
ad ardere le favole

 «...non è più  possibile ricostruire i passaggi di fantasia e di immagini che hanno fatto di quelle stelle le favole, ma rimane viva e chiara la suggestione di lontananza, di sogno e di speranza (forse di favole udite alla luce delle stelle, o di illusioni cadute che tornano a risplendere nel cielo della vita) che l’analogia, l’identificazione dei termini hanno voluto creare». Con ciò il critico ci vuol fare intendere che è quasi impossibile voler ricostruire il percorso effettuato dalla fantasia del poeta, ma non è impossibile stabilire intuitivamente un’intesa, una corrispondenza con l’emozione provata dal poeta, capace di suscitare in noi una emozione, magari anche di natura diversa, ma non per questo priva di quella misteriosa carica che riuscirà a far vibrare le corde della nostra commozione.

Tra i rappresentanti più significativi della  Poesia pura ricordiamo Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale ed Umberto Saba.

Giuseppe Ungaretti nacque, da genitori lucchesi, ad Alessandria   d’Egitto nel 1888. Trasferitosi a Parigi per ragioni di studio (frequentò la Sorbona), strinse rapporti di amicizia con Picasso e Apollinaire. Nel 1914 venne in Italia e cominciò a pubblicare le sue prime poesie su “Lacerba”. Intanto, allo scoppio della prima guerra mondiale, si schierò dalla parte degli interventisti e partecipò poi egli stesso alla guerra in prima linea, ricavando proprio dagli orrori della guerra le  indicazioni più determinanti sia per le sue scelte morali, sia per quelle artistiche, sia per quelle religiose. Dopo la guerra si stabilì a Roma, ove visse in ristrettezze economiche, finché non si trasferì, nel 1936, a San Paolo del Brasile, ove  gli venne assegnata  la cattedra di lingua e letteratura italiana presso l’università. In Brasile fu colpito da una grave disgrazia, la morte del figlioletto Antonietto, di appena nove anni, che lo sconvolse enormemente.  Finalmente nel 1947 poté far ritorno in Italia, essendo stato chiamato all’università di Roma ad insegnare letteratura moderna e contemporanea. Morì a Milano nel 1970.

La sua prima raccolta di versi risale al 1916, “Il porto sepolto”, seguita nel 1919 dalle poesie di “Allegria di naufragi”. Vennero poi le raccolte di “L’Allegria” (1931), “Sentimento del tempo” (1933) e “Il dolore” (1947). Tutte le sue poesie sono ora raccolte nel libro della Mondadori “Vita di un uomo”.

«L’analogia, fondamento della poetica ungarettiana, è una similitudine privata del come, cioè d’ogni riferimento logico; è l’accostamento di cose e sensazioni apparentemente lontane e la scoperta d’una loro relazione organica, della fusione di esse e dell’animo che le intuisce, nell’elementare unità dell’essere. E' un procedimento tipico della poesia decadentistica e simbolistica, che l’Ungaretti riduce all’essenziale: non più a un fluire di immagini, ma alla vibrazione evocativa della parola singola; ...E' come se il poeta riscoprisse la  fase originaria del linguaggio, quando il dare un nome alle cose fu per l’uomo la scoperta intuitiva del suo rapporto col mondo. A questa primitività, a questa innocenza tende tutta la poesia dell’Ungaretti. » (Pazzaglia).

Qualche esempio:

IL PORTO SEPOLTO (1916)

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d'inesauribile segreto

 

MATTINA (1917)

M'illumino
d'immenso

 

SAN MARTINO DEL CARSO (1916)

Di queste case non è rimasto
che qualche
brandello di muro
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel mio cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato

 

 

 

Tra le due raccolte più significative delle poesie ungarettiane, “L’Allegria” e “Sentimento del tempo”, vi sono delle differenze che è opportuno notare. Nella prima raccolta è cantata prevalentemente la pena dell’Uomo-Ungaretti, nella seconda la pena esistenziale dell’Uomo moderno. Nella prima il Poeta mette a nudo la parte più riposta della propria coscienza, nella seconda - aiutato dalle riconquistate certezze della fede -  va alla ricerca di quel filo che lega l’effimero scorrere del tempo con l'eterno. Nella prima esaspera il metodo analogico dell’espressionismo più puro, nella seconda tenta un recupero dei metri tradizionali al servizio dell’analogia, confidando egli stesso: «Rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante o quello del Cavalcanti o quello del Leopardi: cercavo in loro il canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del tal altro che cercavo; era l’endecasil­labo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano,  era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attra­verso i secoli, attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità  e così singolare ciascuna nell’e­sprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che voleva sentire in armonia  con il battito del  cuore dei miei  maggiori di una terra disperatamente amata».

Ecco una poesia in cui abbondano gli endecasillabi:

LA MADRE (1933)

E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all'Eterno,
come già ti vedevo
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

 

Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896 e lì portò a termine gli studi liceali, iscrivendosi poi alla facoltà di lettere. A causa della prima guerra mondiale, che lo impegnò come ufficiale di fanteria, dovette sospendere gli studi universitari. Dopo la guerra si avvicinò alle idee liberali del Gobetti e collaborò alla rivista “La Rivoluzione liberale”, nella quale pubblicò le sue prime poesie. Passò poi a Firenze a dirigere il Gabinetto scientifico letterario “G.P. Vieusseux”, ma circa dieci anni dopo, nel 1939, essendosi rifiutato di iscriversi al Partito fascista, fu licenziato (egli, infatti, a differenza dell’Ungaretti che nutrì una certa simpatia per il Mussolini ed accettò finanche che questi scrivesse la “presentazione” alla sua raccolta di versi “Il porto sepolto” nell’edizione del 1923, fu sempre ostile alla dittatura del Duce). Comunque egli proseguì nella sua attività di poeta, ampliandola con quella di traduttore (soprattutto dall’inglese), di critico letterario (si deve a lui la scoperta italiana di Italo Svevo nel 1925) e di critico musicale (aveva anche tentato la carriera di baritono nel teatro lirico ma senza successo). Dopo la seconda guerra mondiale si trasferì a Milano, ove nel 1947 fu redattore del “Corriere della Sera” e morì nel 1981.

Le sue raccolte di poesie  più  importanti sono  Ossi di seppia” (1925), “Le occasioni” (1939) e “La bufera e altro” (1956), ma non sono da dimenticare le successive poesie, i racconti, le prose poetiche e i numerosi saggi ed articoli di critica letteraria, politica e musicale.

Anch’egli esprime nella sua poesia l’angoscia esistenziale  di se stesso e dell’uomo moderno, la pena del vivere che assurge ad emblema della vita universale, ma la sua angoscia è senza speranza, non riesce a trovare alcuna fede che potesse in qualche modo riscattarla o almeno finalizzarla ad un ideale superiore. «Il pessimismo del poeta - scrive il Pazzaglia -  è radicale. Vivere, per lui, è un continuo perdersi in una trama di atti e di gesti vani, dietro i quali sta il vuoto, un incomprensibile destino di delusione totale, d'incomunicabilità assoluta...

La sua poesia è molto spesso oscura, ma non si tratta, almeno in generale, d'una oscurità programmatica e compiaciuta. Essa nasce soprattutto dalla scoperta dell’assurdità del reale, del rovesciamento delle certezze apparentemente più solide».

Per quanto riguarda lo stile, anche il Montale chiede alla parola piuttosto una carica evocativa che un significato certo, ma egli non giunge al ripudio totale dell’espressione poetica tradizionale del primo Ungaretti e si avvicina, semmai, all'ultima esperienza del poeta di “Sentimento del tempo”.

Ed ora due esempi tratti dalla raccolta “Ossi di seppia”:

                  

  MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO

 Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare,
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

SPESSO IL MALE DI VIVERE...

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgòglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori che il prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco levato.

 

 

Umberto Saba  va anche annoverato fra i Poeti nuovi, fra quelli, cioè, che tentarono vie nuove alla poesia italiana, ma la sua esperien­za artistica ha ben poco in comune con quelle del Montale e dell’Ungaretti. Semmai qualche contatto possiamo vedere con la poesia dei Crepuscolari, in quanto anch’egli si dedicò al canto delle piccole cose quotidiane, ma è bene precisare che anche qui si tratta di una somiglianza puramente epidermica, dal momento che l’atteggiamento psicologico e morale è ben diverso nel Saba: infatti egli accettò la vita, pur considerandola dolorosa, solidarizzò con gli uomini, specialmente i più umili («Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la vita»), e credette in taluni valori semplici da dover cantare con le parole del  linguaggio comune  La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascuno intende, e sono,/ come il vino ed il pane,/ come i bimbi e le donne, / valori / di tutti»). Quindi l’uso che fa della parola è anche ben diverso rispetto agli altri poeti nuovi del suo tempo, in quanto egli non ricerca suggestioni evocative ma significati pregnanti e concreti legati alle cose ed al linguaggio comune.

Il Saba nacque a Trieste nel 1883 da madre ebrea e padre cristiano. Questi, prima ancora che nascesse il figlio, abbandonò la moglie, sicché il bambino crebbe praticamente senza padre. Dopo una breve carriera scolastica irregolare e senza esito, partì per il servizio militare, che gli fu di grande aiuto per la sua formazione. Nel 1912 aprì una libreria antiquaria a Trieste e per tutta la vita restò fedele alla sua città natale ed alla sua attività commerciale, se si eccettuano gli anni della seconda guerra mondiale durante i quali dovette riparare prima a Parigi e poi a Roma per sottrarsi alle persecuzioni naziste contro gli ebrei.

Morì a Gorizia nel 1957.

Tutte le sue poesie, numerosissime, sono raccolte in un “Canzoniere” che ha avuto diverse edizioni.

Riportiamo ora una delle poesie più famose del Saba:

               LA CAPRA

  Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

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